Zdenek Zeman

Zdenek Zeman

Zdenek Zeman

 

La condanna di Zeman

A sette anni non lo conoscevo né sapevo che esistesse, anche perché a quell’età gli interessi convergono tutti in altre direzioni. Però a sette anni, pur facendomela ancora addosso e non sapendo nulla di lui, presi una decisione che avrebbe probabilmente apprezzato.

Nel mio piccolo paesino di provincia c’erano, e oggi ci sono ancora, due sole strutture per giocare a pallone e trovare compagni con cui condividere la nascente passione per lo sport più amato. Una era la più comoda: un neonato impianto con diversi campi in erba, spogliatoi ricamati di pizzo e velluto, giovani rampanti istruttori col sorriso di plastica che ti aspettavano compiacenti e che sbandieravano il loro illustre passato in serie A o in Coppa del Mondo. L’altra era il malandato oratorio col classico parroco attaccato agli antichi valori di un tempo: educazione al primo posto, la lettura e la rigorosa spiegazione del Vangelo, i canti, i sermoni e, se tutto era andato liscio, solo dopo si andava a giocare a pallone nel più rabberciato campetto che il suolo terrestre abbia mai conosciuto.

Eravamo una squadretta stile Brancaleone alle Crociate (tanto per restare sul pezzo), ma felici e mai stanchi. Forse scadenti, probabilmente scarsi ma consapevoli d’aver fatto la scelta giusta. Immaginando Zeman lì a bordo campo, che provava a spiegarci il 4-3-3 anche se noi eravamo solo in 8…

Il Fenomeno

Il fenomeno Zdenek Zeman (nato nel 1947 a Praga, nell’ex Cecoslovacchia) stava per esplodere proprio in quegli anni, a cavallo fra gli ottanta e i novanta col Foggia del presidente Casillo. Aveva già alle spalle una vita intensa e piena, fagocitato dalla passione per lo sport e lo studio. Un innovatore sempre attivo e concentrato sugli obiettivi: hockey, pallanuoto, pallamano e tante idee ben delineate in ogni contesto. Passione per lo studio e un approfondimento culturale quasi maniacale, finché nel 1970 Znedek si stabilì in Italia innamorandosi della Sicilia; qualche anno dopo arrivò la laurea all’Isef di Palermo, con una tesi sulla medicina dello sport. La sua carriera di allenatore, partendo dalla gavetta della gavetta, ha avuto tante soddisfazioni ed altrettante delusioni; si sono già espressi tutti sul suo conto, sostenendo idee e argomenti distanti anni luce ma che non si discostano da un unico punto fermo. Zeman si ama o si odia: inutile girarci intorno.

Le sue ostinazioni e le battaglie sono sempre state bilaterali: nel modulo di gioco, nelle sue denunce contro il doping o il “sistema”, nei rapporti con gli altri. Il risultato finale è quel personaggio unico nella storia del calcio italiano. In campo sempre e solo all’attacco: schemi e visioni quasi mistiche sull’occupazione degli spazi, i movimenti, le verticalizzazioni e quegli allenamenti che spappolavano cuori, polmoni e muscoli. Le ripetute e gli esercizi sui gradoni dello stadio erano il piatto forte del suo menù: il sergente maggiore Hartman di Full Metal Jaket al confronto era l’organizzatore di un picnic in campagna. Con quali risultati? Guardando i numeri nel complesso forse il bicchiere tanto pieno non è. Totò ci ricorda che «È la somma che fa il totale», in effetti il percorso di Zeman è disseminato di delusioni o risultati insoddisfacenti, con esoneri o allontanamenti semi-volontari dalle panchine.

Zeman con l'immancabile sigaretta

Zeman con l’immancabile sigaretta

 

Zeman non ha mai davvero sistemato la coperta: dava spettacolo, certo, ma subiva e subisce ancora troppi gol. Ha toppato nel Parma in B (stiamo partendo dalla stagione 1987-88), nel Napoli, nella Salernitana, nell’Avellino, nella seconda avventura giallorossa con la Roma(quella del 2012-13) e nel Cagliari. Altrettanto disastrose le avventure estere con Stella Rossa e Fenerbache. L’altro piatto della bilancia, tuttavia, ha ben impresso non solo l’appagamento estetico ma anche quello dei risultati. L’epopea foggiana lo ha reso celebre dappertutto: Zemanlandia era sulla bocca di tutti, il calcio-champagne era più di una realtà e in molti seguivano e imitavano il Boemo.

Dal 1994 al 1999 si divise fra Lazio e Roma e fu un’altra scommessa vinta, con numeri da record ed entrambe le tifoserie sazie e satolle della giostra del gol. Tutto è opinabile, certo, ma non l’ideale dello spettacolo.

Scopritore di talenti

La verità è che ha avuto sempre difficoltà nel gestire i grossi campioni e gli spogliatoi di Club più blasonati, e anche qui il dibattito troverebbe guelfi e ghibellini. Zeman era un maestro di calcio, si comportava così. E si trovava a suo agio soprattutto coi giovani, che plasmava e modellava partendo dalle basi: difatti quanti calciatori, di varie generazioni, devono a lui parte delle loro fortunate carriere?

Ne ha lanciati davvero tanti, una lista certamente monca perché il rischio di dimenticare qualcuno è quasi matematico. Considerando solo i Big, per esempio, si pensa subito a Francesco Totti (che non ha mai avuto dubbi: Zeman è stato il suo allenatore più importante), ma il Pupone è solo la cima dell’iceberg. Nel Messina 1988-89 un certo Salvatore Schillaci diventò un terminale offensivo di straordinaria efficacia, laureandosi capocannoniere in B grazie al modulo griffato Zeman. A Foggia il tridente Ciccio Baiano, Roberto Rambaudi e Beppe Signori diventò leggenda: la musica era perfetta, ognuno suonava a memoria una melodia spettacolare e non c’erano mani a sufficienza per applaudire. Ma ancora, sparsi nelle tante avventure, i vari Di Biagio, Del Vecchio, Sau, Shalimov, Manicone, Immobile, Florenzi, Verratti, Vucinic, Kolyvanov, Lorenzo Insigne, Padalino, Bojinov. E ci sarebbe poi un plotone di ragazzotti che, con lui, ha ripreso vigore dopo periodi no o chi ritrovava la forma perduta.

Fra i suoi fedelissimi, ci piace ricordare il compianto portiere Franco Mancini, che Zeman coccolò a Foggia negli anni d’oro e che spesso seguì il Boemo nel suo girovagare per l’Italia.

E una delle rivoluzioni di Zeman era proprio quella relativa al portiere, non solo estremo difensore ma coraggioso leader e apriscatole per innescare un’azione offensiva o uno schema. Qualche errore faceva parte del gioco e del rischio, ma con Zeman era tutto un rischio: i brividi lungo la schiena non erano causati dal freddo.

Per chi gli ha voluto bene sono queste le vere vittorie: mancano campionati di serie A e Coppe Internazionali, inutile negarlo. Lui, con l’eterna sigaretta gregaria delle sue pochissime parole, ha alimentato le sue idee fino alla follia, mettendo la faccia sempre per primo soprattutto nelle sconfitte. Non poteva fare altrimenti.

Un intenso primo piano di Zeman

Un intenso primo piano di Zeman

 

Successi tangibili sono il campionato di C2 col Licata(1984-85) e quelli di B con Foggia(1990-91) e Pescara(2011-12). Particolare fu l’avventura con il Lugano, in Svizzera, nel 2015-16: riuscì ad ottenere la salvezza matematica grazie ad un ottimo 9° posto, vero obiettivo del club. Ma perse la Coppa di Svizzera(sarebbe stato il primo trofeo anche per lui) proprio in finale contro lo Zurigo.

Peccato, come quel sapore amaro e aspro delle sue sigarette: mai una felicità completa, quasi fosse immorale per uno come lui.

Le crociate antidoping

Per qualcuno Zeman ha avuto un destino analogo anche nelle sue crociate antidoping: nell’estate del 1998 il boemo lanciò accuse gravissime al mondo del calcio italiano, in particolare (ma non solo) alla nobile Juventus e al suo staff sanitario. L’abuso di creatina, e in generale di farmaci illegali e deleteri alla salute degli atleti, fu la punta di un iceberg che poi non produsse molto. Lui sapeva anche questo; in Italia le cose vanno così, difficile raddrizzare certi destini e figuriamoci nel circo equestre del calcio.

A volte faceva tenerezza, come vedere un tizio sigillato in una busta di plastica che prova disperatamente a uscirne scalciando o tirando pugni a destra e a manca. Lui magari ci provava con flemma, con le sue parole a scatti e con concetti taglienti e ironici, sintomo di grande intelligenza. Ha detto la sua su Calciopoli, sullo scandalo delle scommesse, sulle tante cose torbide e sull’ambiguità di vicende e personaggi del nostro tempo. Zeman poteva farlo, onesto e mai banale.

In diretta tv, qualche anno fa, si materializzò un duello rusticano a distanza. Marcello Lippi, mister di valore assoluto e vincitore di tutto con Juve e nazionale, pensò in buona fede di porre una domanda a Zeman. Nervoso (chissà poi perché?), chiese la parola: «Lui critica sempre e in ogni istante il sistema, e poi continua a farne parte. Non è coerente, dovrebbe starne fuori. Perché Zeman lavora e opera ancora nel sistema-calcio?».

E il Boemo, per nulla intimidito: «Beh, voglio bene al calcio. Mi piacerebbe cambiarlo, il sistema. Sarebbe un sogno!» Semplice, ma forse Zdenek Zeman è nel pianeta sbagliato…

Lucio Iaccarino
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