L’Olimpiade al tempo del coronavirus
Omaggio alla storia
Primavera del 64 dopo Cristo.
Manca pochissimo allo svolgimento dei Giochi della CCXI Olimpiade, che come da tempo ormai immemorabile si devono disputare nella sacra piana attraversata dal fiume Alfeo, tra i mesi di Apollonio e Partenio, ossia tra luglio e agosto. D’estate, quindi, e in modo che il terzo giorno, quello centrale, coincida con il secondo o terzo plenilunio dopo il solstizio.
Dalla città che domina il Mediterraneo, Roma, prende il via una delle più sensazionali e stravaganti trasferte sportive di tutti i tempi, anzi senza dubbio la più sensazionale e stravagante.
Il protagonista di questa avventura è l’uomo più potente dell’intero mondo conosciuto, che in certe parti dello sterminato impero è già adorato come un dio. Lucio Domizio Enobarbo, che tutti conoscevano – esattamente come noi oggi – con il nome di Nerone.
Nerone il pazzo, Nerone l’assassino, Nerone che incendiò Roma. Almeno così ce lo ha consegnato la Storia, ma si sa che la Storia la scrivono i vincitori. E Nerone fu sconfitto. Comunque stessero le cose, almeno un pregio al Principe è universalmente riconosciuto: quello di aver amato l’arte e l’agonismo, due categorie che già di per sé qualche dubbio sulla integrale malvagità di Nerone dovrebbero porlo.
Quando l’enorme corteo imperiale (a credere a Dione Cassio «Esso è fatto non soltanto da una quantità di augustiani [la claque che accompagna sempre Nerone nelle sue esibizioni], ma anche da tutto un esercito di altra gente, numerosi come guerrieri che partissero per una guerra. O almeno, guerrieri come possono esserlo i neroniani, armati di lire, archetti, maschere, coturni…», oltre naturalmente ai soldati veri, quelli della scorta) si mette in moto, nulla fa presagire che, vuoi per un ripensamento dell’Imperatore, vuoi per motivi politici o di necessità contingente, tutto sia destinato ad arenarsi in qualche giorno, poco dopo aver raggiunto Benevento.
Tuttavia, Nerone ci tiene moltissimo, a partecipare alle Olimpie, e questo rinvio – perché solo di rinvio si tratta, ancorché di lunga durata – voluto o imposto che sia, sembra rendere la cosa impossibile. Sembra, appunto. Perché alla resa dei conti Lucio Domizio è l’Imperatore, e una soluzione la trova alla svelta. Con un atto senza precedenti storici il principe si limita a spostare di due anni la data dell’Olimpiade, e il gioco è fatto.
La decisione è sapientemente accompagnata da donazioni molto generose agli organizzatori, così non risulta che qualcuno abbia protestato, all’epoca. Qualche anno dopo, ad ogni buon conto, una volta morto Nerone, l’edizione viene declassata e tolta dalle liste ufficiali, perché l’animo umano è volubile: nihil novum sub sole.
La vera partenza, sempre con il corteo dei 10.000, avviene così nel settembre del 66, e per la cronaca il Principe prende parte a più gare. Per numero di vittorie può anzi essere annoverato tra i grandi di ogni tempo, perché trionfa nella gara delle quadrighe, delle quadrighe dei puledri, nel concorso degli araldi, nel tiro a dieci puledri e nelle prove per citaredi e tragedi. Peccato solo che le ultime tre gare siano state create su misura per lui e che durante una delle corse di cavalli, Lucio Domizio, caduto dal cocchio, sia atteso da tutti gli avversari, piuttosto preoccupati da un’eventuale sconfitta dell’illustre concorrente.
Per quasi due millenni, quello di Nerone è rimasto l’unico rinvio dei Giochi Olimpici, e tale sarebbe dovuto rimanere per sempre. Senza questo maledetto anno 2020.
La pericolosissima pandemia legata al Covid-19 è purtroppo riuscita dove neanche le due Guerre Mondiali erano riuscite. Se è infatti vero che i Giochi della VI Olimpiade del 1916 (a Berlino), quelli della XII del 1940 (curiosamente sempre a Tōkyō) e quelli della XIII del 1944 (a Londra), non furono disputati, quelli immediatamente seguenti, ossia Anversa 1920 e Londra 1948, non subirono alcuno spostamento, malgrado i due terribili conflitti fossero appena terminati e l’Europa distrutta.
Nonostante il Comitato Olimpico Giapponese abbia opposto ogni resistenza possibile (anche troppa, a giudicare dal grande aumento dei contagiati ufficiali il giorno dopo l’annuncio del rinvio), questa volta lo sport e ancora di più, siamo sinceri, il business, hanno dovuto cedere il passo ad una realtà che sembra uscita da un romanzo di Stephen King.
Un rinvio pieno di incognite sul piano sportivo. Ci si può legittimamente chiedere se tutti i Comitati Olimpici, specie i meno ricchi, che avevano investito le proprie risorse sulla trasferta in Asia, saranno in grado di fare altrettanto il prossimo anno, specie dopo l’enorme crisi economica che si prospetta, non appena – speriamo presto – si sarà conclusa quella sanitaria, se pure non si assommerà già a questa nelle prossime settimane.
Ci si può chiedere se tutti gli atleti, e soprattutto quelli che si avviano alla conclusione della loro carriera (un esempio: la nostra infinita Federica Pellegrini), che avevano impostato almeno un biennio sui Giochi di Tōkyō, riusciranno a modificare il loro piano di allenamento per presentarsi al top della forma il prossimo anno.
E infine, una domanda scomoda e difficile da porre: quali garanzie ci sono che, nei mesi a venire, lo sviluppo dell’epidemia, anche semplicemente per motivi di prevenzione verso ulteriori disastrose repliche, consenta gli allenamenti e soprattutto le competizioni nazionali e internazionali di preparazione? L’Olimpiade non vive del solo periodo di gare, ma è un obiettivo che coinvolge, spesso in maniera totalizzante, la vita di un atleta, di una società, di una Federazione. Al sogno olimpico da più di un secolo generazioni di atleti hanno sacrificato anni di giovinezza, e vederselo portare via all’ultimo istante può davvero costituire una specie di bomba psicologica.
Alle indubbie problematiche sportive fanno però da contrappeso – e hanno fortunatamente finito per prevalere – le preoccupazioni di ordine sanitario. Si è visto nel caso della partita Atalanta-Valencia di Champions League, quanto la concentrazione di spettatori nella ristretta area delle gradinate di uno stadio sia stata deleteria. È stato addirittura ipotizzato che proprio quell’incontro e la conseguente vicinanza del pubblico sia stata all’origine della terribile ondata epidemica di Bergamo e (almeno in parte) in Spagna. Senza arrivare a quest’estremo, anche in una ipotesi prudenziale quella partita – che sarebbe stato meglio non giocare o comunque giocare a porte chiuse – una sua influenza di rilievo l’ha comunque di certo avuta.
I Giochi Olimpici attraggono milioni di persone da ogni angolo del pianeta. Il rischio non sarebbe stato tale, ma una quasi certezza, valida per il pubblico, ma anche, a ben vedere, per gli stessi atleti: lo abbiamo imparato in questi giorni, neanche i fisici allenati degli sportivi sono immuni dal contagio.
Escludendo a priori l’annullamento dei Giochi, che avrebbe causato un colpo forse irrimediabile all’immagine e all’economia del Giappone, oltre che alla stessa idea di Olimpiade, non rimaneva che l’ipotesi del rinvio, cui, saggiamente, si è deciso di sottostare.
Una scelta in definitiva coraggiosa, che, se non ha salvato la lettera, è riuscita almeno a salvare lo spirito dell’appuntamento olimpico.
C’è d’altronde un’ultima questione – certo meno importante – che, sinora passata sotto silenzio, è, fortunatamente, più gradevole da affrontare.
Il rinvio dell’Olimpiade di Tōkyō al 2021, pur con il mantenimento della denominazione di Tōkyō 2020, determina, per la prima volta nella storia, un allineamento tra le antiche Olimpie e quelle moderne. Con una felice – almeno questa – quanto casuale sincronia, i Giochi della XXXII Olimpiade Moderna si troveranno a coincidere con quelli, ovviamente ipotetici, che sarebbero stati della DCC Olimpiade. Sarebbe, almeno in questa occasione imposta obtorto collo dalla triste realtà di oggi, quanto mai suggestivo che la formula inaugurale venisse variata, per esempio, in «Dichiariamo aperti i Giochi della Trentaduesima Olimpiade dell’Era Moderna, Settecentesima dell’Era Olimpica».
Proseguendo poi nelle ipotesi suggestive, potrebbe persino essere l’occasione giusta per procedere ad una definitiva convergenza tra i due periodi quadriennali. Il mutamento dell’anno canonico è già stato sperimentato senza eccessivi problemi, per motivi molto meno etici e legati al tema della visibilità e del merchandising, tra i Giochi Invernali di Albertville 1992 e Lillehammer 1994.
Questo nuovo passaggio costituirebbe invece un omaggio alla Storia, nel pieno spirito olimpico. Atto romantico forse, ma carico di significato ideale e culturale, un ponte simbolico costruito tra due ere così lontane e così intimamente connesse della storia umana, in un mondo che, per rinascere, avrà estremo bisogno di simboli.
Sarebbe poi da considerare che, sul piano meramente economico, il posticipo al 2025 e 2029, darebbe modo a Parigi e a Los Angeles, le città che seguiranno Tōkyō, di disporre di un anno in più per preparare l’avvenimento. Un anno che, con le difficoltà immense che si prospettano per l’economia globale in seguito alla crisi che stiamo vivendo, potrebbe non essere loro affatto sgradito.
Sarebbe bellissimo se il CIO considerasse la cosa, mai come ora davvero realizzabile.
Danilo Francescano
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