Learco Guerra
La Locomotiva Umana
Il padre era muratore, e lui cominciò ad aiutarlo che era poco più di un bambino. Comprese subito che era un lavoro durissimo, ma lo faceva con umiltà e attaccamento alla famiglia. Quello che non sapeva, certamente non del tutto, era che le scintille del ciclista di talento lo stavano investendo proprio in quel tormentato periodo di fatiche. Fu quando cominciarono a lavorare alla costruzione dell’ospedale di Mantova: Learco, oltre al carico di 8 ore di fatica quotidiana, pedalava da casa al posto di lavoro per un buon paio d’ore. Allenamento e passione si sposavano persino con la stanchezza, ma che voleva far sul serio se ne accorsero in realtà prima papà Attilio, mamma Pasquina e i tre fratelli che gli leggevano negli occhi qualcosa di straordinario. La fiamma di chi vuole ribaltare il tavolo del destino e vincere…
Learco Guerra era nato vicino Mantova, a San Niccolò Po, nell’ottobre del 1902 e il suo profilo di ciclista si delineò addirittura in leggero ritardo rispetto alla media dell’epoca; aveva fatto il servizio militare, si era sposato (aveva già un figlio) e viaggiava per i 25 anni quando gareggiava con la squadra Forza e Coraggio nelle prime corse di un certo livello. Spesso era sfortunato, come testimoniano diverse forature in quel periodo di gavetta, ma mise in mostra diverse peculiari qualità che gli valsero la stima di molti. Un nome? Girardengo, che aveva visto in lui la stoffa del grande passista: Learco aveva cuore e polmoni di acciaio. Una squadra (nel frattempo aveva firmato per la Maino) che vuole primeggiare aveva ed ha bisogno di un elemento generoso, affidabile e coriaceo come lui. E paradossalmente al ciclismo mancava, insieme a vecchi e nuovi campioni che da decenni ci emozionano con memorabili imprese, una figura come la sua: la “Locomotiva Umana”, il soprannome che gli appiccicarono fin dai primi anni, stava per partire con un gioioso carico di speranze e vittorie.
Qualcosa di speciale cominciò a manifestarsi nel Giro d’Italia del 1930: Alfredo Binda, il fuoriclasse e dominatore assoluto in quel periodo, era assente ma altri campioni del calibro di Piemontesi, Giacobbe, Di Paco, Negrini e Marchisio rendevano la corsa comunque eccitante. E Guerra si mise in evidenza mostrando gamba e giudizio, classe e temperamento; vinse due tappe e fu protagonista di ottime incursioni in altre chiudendo in classifica generale con un ottimo nono posto. Il grande Binda, interpellato da “esterno” da alcuni giornalisti sull’andamento del Giro, spesso menzionò Guerra come la rivelazione della corsa, e una volta sentenziò: «Il ragazzo mantovano mi piace molto, ha una pedalata sbalorditiva…». Learco, a torto o a ragione non sappiamo, interpretò maliziosi alcuni di questi commenti e quando trionfò nella tappa di Roma al traguardo replicò con un pizzico di pepe: «E Binda, cosa ha detto oggi?».
Erano le prime schermaglie di una rivalità che sarebbe diventata storica, leggendaria. Binda e Guerra come cane e gatto, i contrari per definizione anche come carattere oltre che per fondamentali; e cronologicamente si inseriscono nelle rivalità più accese del “ciclismo epico” proprio in mezzo a Belloni-Girardengo e Bartali-Coppi. Decisamente altri tempi…
Sempre nel 1930 Learco, che aveva in poco tempo moltiplicato i suoi tifosi come i pani e i pesci di biblica memoria, decise di partecipare anche al Tour. Per molti un azzardo; lui, ormai rinomatissimo passista, doveva affrontare molte tappe di montagna e oltretutto si ritrovava proprio Binda come caposquadra. Insomma, troppi rischi? Forse, ma Guerra era pieno di orgoglio e determinazione; dimostrò subito di essere un campione vero vincendo la seconda tappa (davanti a Binda!) e indossando la maglia gialla. Il seguito, però, fu qualcosa di simile ad un naufragio collettivo: Binda si ritirò a metà gara per una drammatica caduta e Learco andò in difficoltà nelle montagne più impegnative. Precipitò in classifica generale perdendo molte posizioni ma, proprio mentre i giornali francesi ironizzavano sulla débâcle della “Locomotiva umana”, reagì con l’impeto e la forza del campione: tutti apprezzarono l’espressione della sua potenza e quando, curvo sul manubrio, sembrava stritolare con foga quei pedali che tanto amava… Learco vinse altre due tappe e fu protagonista di una serrata rimonta che lo portò ad arrivare secondo nella classifica finale, addirittura con un pizzico di rammarico. Tuttavia, quando rientrò a Mantova, venne accolto da un uragano di applausi e da un consenso popolare che andava allargandosi a macchia d’olio. La rivalità sempre più feroce con Binda aveva diviso il popolo in “guerriani” e “bindiani”; tuttavia Alfredo godeva, dall’alto della sua immensa classe ed esperienza, di qualche marcia in più in quel periodo. Vinse nel 1930 il campionato del mondo a Liegi dopo un appassionante testa a testa e conquistò, grossomodo con lo stesso palpitante finale, anche la Milano-Sanremo dell’anno dopo. Guerra usciva sconfitto sempre a testa altissima e, soprattutto, mai domo o affranto da quelle delusioni che comunque non erano facili da digerire. Ma tutto ha il suo momento: una cosa è seminata per essere raccolta oggi, un’altra è seminata per essere raccolta più tardi. Per Learco Guerra, che aveva comunque titoli nazionali di prestigio in bacheca, il raccolto cominciò nel 1931. Fu l’anno del suo fantastico titolo mondiale, in un’unica storica edizione a cronometro. A Copenaghen, il 26 agosto, erano dati tutti in gran forma, e Binda era fra i più in palla. Ma nessuno poté contrastare la “Locomotiva umana” che dominò la gara alla media di km. 35,136 e aprendo di fatto l’era delle grandi medie, visto che in precedenza era quasi impossibile scendere sotto i trenta orari. Alle sue spalle, 2° il francese Le Drogo e 3° l’elvetico Buchi: soltanto sesto Binda, con un distacco superiore ai quattro minuti! Per Guerra fu un autentico trionfo, da conservare nella memoria di sempre insieme ad altre “perle” assolute, come la Milano-Sanremo del 1933, vinta davanti a Bovet e Rimoldi: sul circuito di Belfiore sfoderò la strepitosa media di km 39,176! Nello stesso anno vinse tre tappe al Giro d’Italia, ma fu anche protagonista di una brutta caduta e proprio dopo un sospetto contatto con Binda… Arsenico, pepe e roventi polemiche riempirono giornali e discussioni in tutti i bar e circoli italiani. Guerra dribblò le polemiche e sfoderò le uniche ricette che riteneva utili in queste occasioni e che avevano scandito la sua iperbole sportiva: lavoro, talento e applicazione. Dopo appena dodici mesi si buttò a capofitto nel “suo” giro d’Italia, quello del 1934. Fu una meritata e solenne galoppata trionfale: vinse dieci tappe su diciassette e, se fosse stato possibile, avrebbe meritato di salire su tutti e tre i gradini del podio finale. Si “accontentò” di quello più alto, mentre al secondo posto si classificò Camusso e al terzo Cazzulani. Il 1934 fu un’ottima annata: si aggiudicò anche il Giro della Lombardia e il Giro della Campania (ancora vincitore nel 1932 e nel 1935), e dal Nord al Sud l’affetto e il calore della gente non venne mai meno. Accolse con disinvoltura gli ultimi anni della carriera, quasi li coccolò col suo sorriso buono da lavoratore; la sua ultima vittoria (in totale furono quasi 90!) fu la tappa Roma-Napoli del giro del 1937. L’anno prima era stato compagno di squadra del giovane rampante Gino Bartali, il simbolo della nuova generazione di campioni che si affacciava alla ribalta. Learco Guerra si fece da parte con dignità e con uno stile che non ha tempo, rimase nell’ambiente ciclistico con passione ed entusiasmo. Persino la guerra lo trovò pronto, nel 1943 era soldato nella contraerea. Anni dopo si venne a sapere che stava combattendo, con l’ardore e la grinta di sempre, col morbo di Parkinson. Sembrava star meglio, dopo una complicata e insidiosa operazione, ma il male gli aveva soltanto concesso una tregua. Si spense a 61 anni, il 7 febbraio 1963. Un giornalista e scrittore dell’epoca lo dipinse magnificamente con queste parole: «La moltitudine è per Guerra. Gli occhi in fiamme, i muscoli in tumulto, la macchina squassata dai colpi rudi, le mascelle inchiodate, Learco Guerra passa…».
Lucio Iaccarino
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