Martina Navrátilová

Martina Navrátilová

Martina Navrátilová

 

Una vita all’attacco

La mattina del 1962 in cui Martina Šubertová diventa Martina Navrátilová, il funzionario dell’ufficio anagrafe di Praga non può sapere di aver appena registrato il nome di un pezzo di storia del tennis. Nove vittorie a Wimbledon, cinquantanove titoli del Grand Slam conquistati per un totale di 345 trofei, tra singolare e doppio, una longevità agonistica di ventisette anni. Sono i numeri di un marchio di successo, che segna il destino di un’altra stella della racchetta, la svizzera Hingis; Martina anche lei, in omaggio alla leggenda ceco-americana.

Nata a Praga il 18 ottobre 1956, Martina assume il cognome definitivo dal patrigno Miroslav Navratilov, che la madre Jana sposa in seconde nozze. I tre vivono a Řevnice, in casa della nonna Agnes Semanska, alla quale il regime comunista ha tolto tutto, fuorché un campetto privato in terra rossa dove si allenava ai tempi in cui faceva parte della nazionale cecoslovacca di tennis. Martina stacca dal chiodo le vecchie racchette della nonna e comincia a palleggiare contro un muro. A sei anni gioca per la prima volta su un campo vero e quando vede la palla superare la rete capisce di essere nel posto giusto. «Un giorno giocherai a Wimbledon» le profetizza Miroslav, che la affida alle cure dell’ex campione George Parma. Sotto la sua guida, la ragazza abbandona il rovescio a due mani per abbracciare uno stile di gioco offensivista, in cui la forza fisica diviene strumento di creatività.

L’invasione di Praga

Martina sente di aver trovato la sua strada, ma nell’estate del 1968 i carri armati sovietici minacciano di sbarrargliela. Quando la Primavera di Praga implode, la futura campionessa è a Pilsen per un torneo juniores: al rientro, la città le apparirà un’altra, spenta, senz’anima. È in quei giorni che in lei matura la sua grinta, non più solo voglia di vincere, ma anche consapevolezza del prezzo della sconfitta. Poco prima di un incontro, Martina replica a denti stretti a un’avversaria russa che si rifiuta polemicamente di stringerle la mano: «Per battermi avrai bisogno di un carro armato».

Con il primato nazionale in tasca e la tessera di professionista, nel 1974 Martina vola in Florida, ad Orlando, dove si aggiudica il suo primo trofeo internazionale. Ma per lei quel viaggio è soprattutto la scoperta di una nuova realtà, in cui ritrova il respiro, lontano dalle costrizioni di una federazione ingerente, che pretende di programmare il suo calendario minacciandola di non concederle il permesso di espatrio; lontano dall’autoreferenzialità di un mondo che incatena, negando tutto ciò che travalica le sue ferree logiche.

L’America diventa l’orizzonte di Martina, che durante gli US Open del 1975 defeziona, trascorrendo la maggior parte del torneo in albergo, controllata a vista dagli agenti dell’FBI. Otterrà la nazionalità americana nel 1981, dopo essere stata condannata dal governo cecoslovacco alla damnatio memoriae: cinque anni dopo difenderà a Praga i colori statunitensi nella finale della Fed Cup contro la Nazionale che un tempo era stata sua.

In America Martina deve ritrovare la propria identità anche nel tennis. Il serve and volley non le basta per vincere quanto potrebbe, e sono piuttosto i suoi chili in eccesso a catturare l’attenzione della stampa che la ribattezza, impietosamente, la larga speranza bianca. Per tutta risposta lei si mette a stecchetto, si allena con la cestista Nancy Lieberman e inizia a dominare il circuito femminile. In realtà Martina brilla già nel 1978-79, appropriandosi per due edizioni di fila della chiavi di Wimbledon. Nel tempio della racchetta, la tennista, non ancora statunitense, dà compimento alla predizione di Miroslav, vincendo lo Slam della Regina contro la rivale di sempre: Chris Evert.

un abbraccio con Chris Evert

un abbraccio con Chris Evert

 

Molte volte lo sport propone appassionanti duelli tra i suoi protagonisti, ma quello tra le due campionesse è stato il leit motiv del tennis rosa per oltre dieci anni. Chris o Martina, Martina o Chris, per le altre le briciole o poco più. L’una elegante e razionale, dotata di profondità e precisione di gioco, l’altra martellante e istintiva, con le sue discese a rete e un servizio micidiale. Un braccio di ferro lungo ottanta match, leale, contraddistinto da una grande stima reciproca. Ricorda la Evert: «Quando perdevo ero delusa, ma non devastata. Se non vincevo io, preferivo toccasse a lei».

Martina vince, anzi stravince, nella prima metà degli anni Ottanta, all’indomani di una sconfitta che muta il corso della sua carriera. Agli US Open del 1981 è battuta dalla diciottenne Tracy Austin, ma quando lo speaker la richiama in campo per la premiazione, il pubblico le tributa un’ovazione di oltre un minuto. Martina è sorpresa: finalmente è entrata nel cuore della gente, lei che ha sempre avuto il coraggio di essere sé stessa anche quando ha scelto di rivelare la scomoda verità della sua bisessualità, rompendo i tabù del compassato circuito tennistico. Martina ricambia l’affetto dei fans infilando un trionfo dietro l’altro. Roland Garros, Wimbledon, US Open, Australian Open: non c’è Slam in cui non trionfi, nel singolare come nel doppio. Nel 1983-84 la Navrátilová fa manbassa di quasi tutti i match (realizzando un record di settantaquattro vittorie consecutive) e quasi tutte le competizioni cui partecipa.

Il ritiro

Poi il tennis cambia volto, nascono le racchette oversize e il serve and volley, che Martina aveva imposto a colpi di successi, lascia il posto a un gioco più tecnico, da fondocampo. Arrivano nuove rivali (Steffi Graf, Monika Seleš), ma Martina è sempre lì. Nel 1990 centra il nono sigillo a Wimbledon e tre anni dopo si toglie la soddisfazione di battere, a trentasei anni, la Seleš, numero uno in carica. È il momento del ritiro. Il 1994 è l’anno del Tour dell’addio, che le regala una standing ovation ad ogni apparizione. Martina se ne va, portandosi via un ciuffo d’erba che strappa commossa dal prato di Wimbledon.

Martina sotto rete

Martina sotto rete

 

Nella sua casa di Aspen scrive, fotografa, si dedica ai suoi nipoti e ai suoi animali. Il tempo passa, eppure lei non riesce a dimenticare le partite di tennis; così, a quarantatré anni, decide di tornare. Gioca in doppio calcando le superfici dei più importanti tornei, che puntualmente si aggiudica: l’ultimo trionfo, l’ennesimo, il 21 agosto 2006 agli US Open, nel doppio misto in coppia con Bob Bryan. Questa volta Martina saluta per sempre: sui campi che le hanno permesso di incantare le platee mondiali non la rivedremo più.

Ora che ha ritrovato anche l’altra metà di sé, riacquisendo la nazionalità ceca accanto a quella americana, ora che gira il mondo per promuovere le cause che le stanno a cuore, dai diritti degli omosessuali alla lotta contro il doping, siamo certi che Martina abbia trovato un posto anche lontano dal rettangolo di gioco. Un posto in cui declinare nelle vite degli altri la voglia di farcela che un giorno le fece affermare: «Chiunque dica ‘Non conta che tu abbia vinto o perso’… probabilmente ha perso».

Graziana Urso
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