Björn Borg
Il più bel tie-break della storia
Chissà cosa stava pensando, Björn Borg, mentre si apprestava a rispondere al primo punto di quel tie-break, nel pomeriggio del 6 luglio 1980 sul Centre Court di Wimbledon. Non era così facile intuirlo, da fuori. Molto più facile era indovinare cosa stessero pensando gli spettatori di quella finale, quelli sul campo come quelli attaccati alle televisioni di tutto il mondo.
«Non sta pensando a nulla», si saranno detti quegli spettatori. «È un robot di ghiaccio, cosa vuoi che pensi!?». E del resto come dargli torto. Qualche anno prima si erano visti spuntare un ragazzino biondo, con un rovescio inguardabile giocato a due mani, uno strano dritto colpito dal basso verso l’alto e l’idea fissa di buttare oltre la rete più palline possibile fregandosene di tutto il resto, e quel ragazzino gli aveva completamente cambiato lo sport che amavano. Loro erano abituati ai Rod Laver o agli Arthur Ashe, signori di classe ed eleganza, o al limite agli Ilie Năstase e ai Jimmy Connors, irriverenti e scorretti sì ma pur sempre superdotati di talento tennistico. Questo, invece, palleggiava e poco altro, ma poteva farlo per ore senza un cedimento né fisico né mentale. Eppoi mai un lamento, mai una discussione con l’arbitro, mai una reazione alle provocazioni dell’istrione di turno. Se ne stava lì, serio serio, con la testa bassa e lo sguardo vagamente assente. E tutti i campioni dal braccio d’oro si erano sgretolati impotenti di fronte a quel tipo coi capelli lunghi e la fascia a tenerli fermi, e dalla condizione atletica neanche vicina a quella degli altri.
Un palmarès strepitoso
Aveva vinto nove tornei del Grande Slam in soli sei anni e mezzo, aveva una striscia aperta in quel torneo (secondo gli esperti quello più inadatto alle sue caratteristiche) di trentaquattro vittorie e quattro titoli, e in più aveva solo ventiquattro anni. Aveva cambiato il loro gioco, quello strano tipo, e l’aveva fatto per sempre perché dopo di lui tutto sarà diverso, tutto il tennis sarà un po’ più alla Borg. Ma in quel momento, per loro, quello era soltanto un robot alieno, uno di passaggio che quando se ne sarebbe andato avrebbe lasciato tutto come prima.
E quell’altro ragazzino, John McEnroe, che si apprestava a servire dall’altra parte della rete, per loro non era che un altro grande avversario umano destinato alla sconfitta, un altro appassionante scontro fra un paladino delle reazioni umane, uno in grado di alternare scenate con l’arbitro e colpi deliziosi senza batter ciglio nonostante i soli ventun’anni, e il campione impassibile.
Ma quando tutti avevano capito che quella finale fra Björn Borg e John McEnroe era davvero equilibrata, avevano avuto la sensazione di poter essere davanti ad un evento storico, quello del campione all’apparenza imbattibile che viene detronizzato. E allora si erano incollati alle loro sedie, pronti a godersi lo spettacolo. Dopo aver perso nettamente il primo set, Borg si era aggiudicato i due seguenti, ma nel quarto le cose si erano riequilibrate, e se McEnroe avesse vinto quel tie-break tutto sarebbe stato rimandato a un quinto set dagli esiti quanto mai incerti.
Chissà cosa avrà pensato l’uomo Björn Borg quando sull’undici a dieci di quel tie-break, all’ennesimo match-point per lui, un rovescio di McEnroe aveva colpito il nastro della rete e la pallina era rotolata nel suo campo senza la minima possibilità di essere presa. Forse ancora niente, almeno per tutti quelli che guardavano lo svedese tornare col solito passo verso la linea di fondo campo. Eppure Borg pensava e provava emozioni, dentro e fuori dal campo, come tutti gli uomini, e durante quel pomeriggio ne stava provando una nuova, o almeno qualcosa con cui non aveva a che fare da molto tempo. Forse non l’aveva riconosciuta subito, o forse ne era rimasto spaventato. Continuava a giocare con la massima concentrazione perché quella era la sua cultura sportiva, e perché quello era il suo modo per arrivare a ciò che voleva di più, e cioè vincere, ma qualcosa dentro di lui stava cambiando.
Un tie-break infinito
Nel frattempo i punti di quel tie-break si susseguivano senza che nessuno dei due riuscisse a prevalere, i match-point per Borg e i set-point per McEnroe si sprecavano mentre i commentatori radiofonici e televisivi iniziavano a parlare di tie-break infinito e incredibile.
Qualunque giocatore al mondo si sarebbe risentito quando sul quattordici pari, dopo che McEnroe aveva appena buttato fuori una facile volée, l’arbitro aveva detto che c’era stato disturbo del pubblico, in uno stadio oramai in preda alla confusione da almeno dieci minuti, e aveva fatto ripetere il punto. Chiunque, non Borg. Uno in grado di non dimostrare alcuna apprezzabile reazione neanche quando quel ragazzino arrabbiato di New York se lo era aggiudicato, quel tie-break, per diciotto a sedici. Aveva perso uno dei giochi più importanti e duri della sua carriera e non aveva battuto ciglio nemmeno questa volta. Ma forse, proprio su quell’ultimo punto, qualcosa era successo. Qualcosa era sfuggito alla sua anima fino a prendersi il controllo del corpo, come accadeva quotidianamente a tutti gli altri mortali. In quel punto, sul punteggio di diciassette a sedici per il suo avversario, Borg aveva deciso di provare una volée stoppata, un colpo difficile e non certo il migliore del suo bagaglio tecnico. Un rischio terribile, visto il punteggio. Non una scelta logica, una scelta alla Borg. Forse, per qualche attimo, quella sensazione nuova aveva avuto il sopravvento, aveva superato le barriere del suo carattere, della sua concentrazione e aveva avuto sfogo nella vita reale.
Una vittoria piena di dubbi
L’uomo Björn Borg riprese il controllo di se stesso, continuò a buttare oltre la rete il maggior numero di palline possibile per altri quattordici giochi, e alla fine vinse quella finale per otto a sei al quinto set. Restò campione indiscusso di Wimbledon, mantenne intatto il suo record di vittorie consecutive sull’erba più famosa del mondo, continuò ad essere il numero uno del tennis planetario. Per tutti quanti il robot di ghiaccio era ancora lì, al suo posto.
Ma quella nuova sensazione, la paura di non essere il più forte di tutti, era ormai entrata dentro di lui. Non era sempre stato il numero uno, ovviamente, ma quando era un ragazzo sapeva di avere ampi margini di miglioramento, mentre adesso era diverso. Si stava allenando da anni come un pazzo, aveva migliorato il migliorabile, sentiva di giocare come meglio non avrebbe potuto, e nonostante ciò, quel giorno, aveva sentito per la prima volta che sarebbe potuto non bastare.
Aveva giocato e a volte perso da tanti campioni, nel passato, ma negli ultimi anni aveva sempre saputo che al massimo della forma non avrebbe perso da nessuno, almeno sulla terra rossa o sull’erba. Ora, invece, sapeva che quel ragazzo americano era a tanto così dall’essere più forte di lui, nonostante tutti i suoi sforzi. Tutto questo nessuno, oltre all’uomo Björn Borg , poteva saperlo. Neanche lui, però, poteva sapere dove questa paura l’avrebbe condotto. Non poteva ancora sapere che l’avrebbe divorato fino a farlo ritirare dal tennis agonistico da lì a un paio d’anni.
Come non poteva sapere che le sue emozioni avrebbero preso del tutto il sopravvento, che avrebbe avuto gravi problemi finanziari nonostante tutto il denaro guadagnato giocando a tennis, che avrebbe tentato il suicidio, che avrebbe provato a vendere tutti i suoi trofei all’asta. E tutti si sarebbero stupiti di avere di fronte un uomo, e non un robot. Quello che non sapevano, coloro che stavano guardando quella partita, nel pomeriggio del 6 luglio 1980, è che tutto stava iniziando con quel tie-break, per molti il più emozionante della storia del tennis, di sicuro il più importante.
Florio Panaiotti
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Bellissimo articolo, di qualità. Come, del resto, tutto il vostro sito. E’ un piacere leggervi!
Jessica Canzi
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La Redazione di SdS