Matt Emmons
«I shot». Ho sparato
Everything happens for a reason: tutto succede per una ragione. Lo hanno detto in tanti, Matt Emmons ha avuto il coraggio di ripeterlo quando altri non avrebbero trovato le parole. La sua storia è a metà tra L’ultimo tragico Fantozzi e un romanzo di Kafka, il tutto condito con un po’ di sana filosofia zen. Una vita così incredibilmente ricca di sliding doors e di colpi di scena da renderlo popolare nonostante la scelta di una disciplina che non si può definire la più amata dalle folle di tutto il mondo.
In tanti, come lo scrivente, seguono lo sport in ogni sua declinazione senza fare discriminazioni tra le infinite specialità. Guardiamo con disinvoltura partite di calcio, rugby e basket, non ci preoccupiamo di passare ore ad ammirare match di tennis o pallavolo, non disprezziamo neppure ciclismo, boxe, atletica e nuoto e ci scopriamo in occasione delle Olimpiadi appassionati di scherma, pallanuoto e canoa. Confessiamo di aver dato in momenti di debolezza uno sguardo anche al sollevamento pesi e alla lotta greco-romana ma non possiamo nascondere un briciolo di perplessità di fronte al tiro a segno. Cosa ci può essere di avvincente in un cecchino che spara sempre dalla stessa distanza allo stesso bersaglio? Ecco, dobbiamo essere grati a Matt Emmons per averci fatto ricredere.
«I shot! I shot!». Sì, ma dove?
Fino alle Olimpiadi del 2004 di Atene, Matt Emmons era un campione conosciuto solo dai seguaci della disciplina. Un biondino dallo sguardo glaciale di Mount Holly, un sobborgo di Philadelphia che aveva conquistato la Coppa del Mondo già in due occasioni. Ai Giochi aveva subito acciuffato l’oro nella carabina 50 metri a terra e stava dominando anche la finale di carabina a tre posizioni. Un vantaggio di oltre tre punti prima dell’ultimo tiro è più sicuro di un assegno in banca: per specialisti che oscillano regolarmente tra il 10 e il 9,5 si tratta di poco di più di una formalità. Matt ha lo sguardo sicuro, prende la mira e fa centro pieno. Alza appena il braccio come cenno d’esultanza e poi si gira verso il tabellone attendendo la conferma del risultato. Compare uno strano numero accanto al suo nome: zero. Ma lui non si preoccupa, ci deve essere un ritardo nella segnalazione, un errore. «I shot», «Ho sparato» sibila attendendo che venga ripristinata la giusta classifica. Tutto tace e allora la voce si eleva in un urlo, «I shot», finché qualcuno nel pubblico comincia a mormorare. Il brusio cresce e un brivido si insinua in Matt che comincia a sospettare che ci sia qualcosa di più di un semplice ritardo. Stavolta riguarda il bersaglio e scopre la verità. Ha fatto centro ma ha mirato il bersaglio dell’atleta che gli stava accanto.
Per un errore da commedia di serie C, ha perso l’alloro olimpico e anche il podio. Niente vittoria, niente medaglia, soltanto una beffa senza precedenti per un errore così assurdo da non poter sembrare reale. Chissà se lo ha pensato anche in quel momento che everything happens for a reason. Di sicuro in tanti lo hanno visto con gli occhi bassi mentre sul podio c’erano avversari che aveva lasciato una pista dietro per tutta la gara. Lui era il più bravo, sono loro però a festeggiare. La sua disdetta dà improvvisamente visibilità al tiro a segno e lui scopre di avere tifosi, sostenitori, followers.
In tanti cominciano a mandargli messaggi di incoraggiamento, ovviamente qualcuno lo prende in giro ma la maggior parte è con lui, magari non hanno mai visto una gara prima eppure ora lo eleggono a beniamino assoluto. Legge quei commenti, cercando a fatica di trattenere la delusione. Nel villaggio olimpico, in una sorta di piccolo ricevimento, mentre sta continuando a maledire se stesso, il fato e il cielo per quella medaglia volata via quando ormai era al collo, sente una mano appoggiarsi alla schiena. «Oggi sei stato grande» gli sussurra una voce femminile. Matt pensa qualcosa del tipo: «Ci mancava questa che mi prende per il culo» però si volta. La riconosce: è Katerina Kurkova, una “collega” della nazionale ceca. Lei aggiunge: «Sei arrivato tra i primi prendendo uno zero. Sei un fenomeno». Poi gli porge un portachiavi a forma di quadrifoglio chiedendogli di conservarlo perché gli assicura che porterà fortuna. Ne ha bisogno e Emmons per un attimo rimpiange che il dono gli sia arrivato con qualche giorno di ritardo, ma soprattutto scopre c’è qualcosa capace di allontanare nei suoi pensieri il ricordo della gara.
Trova il modo di ricontattarla e gli scappa persino un sorriso ripensando che quell’incontro non sarebbe mai avvenuto se non fosse riuscito nell’impresa di sbagliare il bersaglio nel tiro più importante della carriera. Katerina diventerà compagna d’allenamenti prima, fidanzata poco dopo, moglie tre anni più tardi (scusate la sintesi brutale, ma nel caso di Emmons non c’è spazio per dilungarsi…).
Riscrivere la storia. E l’ultimo capitolo?
Si trasferiscono in Colorado: la relazione dà serenità, ma non spegne la voglia di vincere di entrambi. Mano nella mano partono per i Giochi di Pechino con la promessa di tornare con due medaglie d’oro. Katerina mantiene la parola data e trionfa nella postazione da 10 metri, prima di andare in tribuna per seguire la finale del marito. È la gara che Matt aspetta da quattro anni: carabina a tre posizioni, l’occasione mancata ad Atene.
Nello sport il tempo solitamente non è galantuomo. Se non cogli l’attimo che sogni per una vita, difficile che ti si ripresenti l’opportunità di pareggiare i conti col destino. Lui però ci crede e affronta la finale con un’insospettabile sicurezza. Prima dell’ultimo tiro, ha pressoché lo stesso vantaggio di quattro anni prima. 3,3 punti di margine da amministrare, la sensazione di poter esorcizzare un incubo, la moglie pronta ad abbracciarlo. Se lo ripete mentalmente: «Breathe!» respira, limitati a ripetere la stessa sequenza che hai provato in allenamento. E lui ci prova. Respira, respira, ancora un altro respiro ma troppo forte e inavvertitamente per l’eccessiva pressione sul grilletto parte un colpo.
La storia si ripete: ancora una volta ha buttato via un oro sicuro ed è scivolato persino fuori dal podio. Doveva essere il riscatto, ha fatto il bis confermandosi il più fantozziano tiratore mai visto nei pressi di un poligono. Quella santa donna della moglie si chiede cosa possa dire stavolta per risollevare il morale del compagno. Nell’immediato si limita ad un veloce: «Hai surclassato tutti, te li sei fumati fin dal primo colpo. Lascia stare l’incidente, ognuno ha capito che sei il migliore». E poco dopo gli rivela che è incinta. Everything happens for a reason, quando pensi di aver rovinato qualcosa di dannatamente importante, scopri che ci può essere qualcosa capace di relegare in secondo piano ciò che ti sta facendo soffrire. Non è una filosofia che funziona sempre, però è consolante crederci. Matt diventa padre di Julia e per alcuni mesi la sua famiglia sembra il ritratto della serenità. Riprende gli allenamenti finché uno strano sintomo comincia a farsi insistente.
Ha sempre sonno e non è per le notti insonni passate a cullare la neonata. Gli viene consigliato di andare a fare un controllo: teme che questo disturbo possa ostacolare gli allenamenti. Magari è solo un po’ di stress. Non è preoccupato, l’obiettivo rimane la conquista del podio a cinque cerchi. Stavolta però la notizia che fa dimenticare ciò che sta occupando i pensieri, è tutt’altro che confortante. Il medico non ci gira troppo attorno e si limita alla diagnosi. Tumore alla tiroide. E ora? Matt chiede cosa succederà ponendosi domande che non si era mai sognato di farsi. Il medico cerca di tranquillizzarlo. Le probabilità di guarigione sono altissime, le cure possono fare molto, al resto deve pensarci lui.
Strano l’animo umano: uno viene divorato dalla paura quando si tratta di ripetere qualcosa che ha fatto per una vita e poi invece si scopre coraggioso quando ci sarebbero tutte le ragioni per imprecare col destino e farsi vincere dal terrore. Decide di non accontentarsi di sopravvivere e si riprende ciò che gli spetta. Reagisce bene alle cure, torna ad allenarsi e proprio quando nessuno ci crede, pareggia i conti con la dea Olimpia conquistando la medaglia di bronzo a Londra. Anche la malattia è qualcosa che è capitato per portargli qualcos’altro. E dato che la carriera di un tiratore può essere lunga, ma davvero lunga, basta aspettare. Magari a Rio nel 2016 succederà qualcos’altro. E anche allora ci sarà un motivo.
Roberto D’Ingiullo
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