Stamáta Revíthi

Stamáta Revíthi

Stamáta Revíthi

 

Melpomene o la maratona negata

Non ha nemmeno trent’anni e già sembra una vecchia. I suoi capelli, una volta biondi e fluenti, ora sembrano fili di paglia bruciati dal sole. Il suo corpo, un tempo formoso e ammirato, è diventato esile, emaciato, trasformato dalla fame e dalla sofferenza. Le sue ossa si sono fatte affilate e ora premono sulla pelle sottile, quasi a volerla lacerare.
Da troppo tempo, ormai, Stamáta Revíthi combatte contro la sfortuna e le avversità della vita. Tirare avanti senza più il marito – forse morto, forse fuggito con un’altra –, senza uno straccio di lavoro e con un figlio di diciassette mesi da sfamare – ché il primogenito se lo è appena portato via una malattia – non è facile.
Eppure non è stato sempre così. I ricordi dei giorni felici di quando era bambina sono ancora vivi dentro di sé. Impossibile scordare quelle corse a perdifiato sulle bianche spiagge di Siro, la sua isola. O le conchiglie e le stelle marine, riversate sul litorale dall’Egeo in tempesta. E poi, da ragazza, quei riccioli ribelli, quella stretta forte e decisa, quegli occhi neri come la pece, ricchi di amore e di eterne promesse che la strapparono per sempre dalla sua terra.
Farai una vita da signora”, le avevano pronosticato, non senza una punta di invidia, le sue amiche di allora, appena saputo che di lì a poco avrebbe salpato per il Pireo.
Se mi vedessero ora!”, pensa Stamáta con amarezza, mentre cammina  su quella sterrata lunga nove chilometri dove non ci passa quasi mai nessuno. Sul viso un reticolo di rughe precoci, in braccio il piccolo che strilla dalla fame, addosso il vestito della domenica – uno straccio pieno di rattoppi, polvere e sudore –, ai piedi dei miseri zoccoli di legno.

Un incontro cruciale

È diretta ad Atene, Stamáta. A piedi, ché i soldi per la carrozza proprio non ce l’ha. Pazienza, l’importante è lasciare quel villaggio che consuma la sua vita  come una candela. Vuole – deve – trovare un lavoro a tutti i costi. Il figlio rimasto merita almeno una possibilità.
È ottimista, Stamáta. Un viaggiatore capitato qualche giorno prima in paese le ha detto che nella capitale stanno per inaugurare i primi giochi olimpici moderni. Che, a dire la verità, lei non sa nemmeno bene cosa siano. Sa, però, che arriverà un sacco di gente da tutto il paese e financo dal resto del mondo: trovare un impiego, uno qualsiasi, non dovrebbe essere impossibile.
È con questi pensieri che va incontro al suo destino, che si materializza sotto forma di un giovanotto contagiato – come tanti in quei giorni –  dalla febbre olimpica. Il ragazzo sta correndo da solo, sognando allori e  fama imperitura. E, tuttavia, appena incrocia quella signora vestita di stracci con in braccio un bambino si ferma immediatamente. L’allenamento può aspettare, così come i sogni di gloria. Quella donna e quel fagottino gli fanno tenerezza:  vuole sapere ogni cosa di lei, la sua storia, i suoi sogni, le sue speranze. È anche generoso, l’aspirante atleta. Prima che riprenda la sua gara immaginaria mette infatti le mani al borsello e regala a Stamáta tutto quello che ha dentro. Non prima, però, di averle dato uno strano consiglio.
«Perché non corri la maratona olimpica?».

lo stadio Panathinaiko

lo stadio Panathinaiko

 

Sembra una presa in giro, ma non la è. Il giovanotto ha infatti saputo che l’organizzazione ha promesso ai migliori piazzati un lavoro, un calesse, un cavallo, perfino un matrimonio da favola. Il tutto, naturalmente, sottobanco. I severi precetti decoubertiniani vietano infatti ogni forma di professionismo. Ne sa qualcosa il nostro Carlo Airoldi che, arrivato a piedi dall’Italia per partecipare proprio alla maratona, viene escluso per un misero rimborso spese ottenuto, qualche mese prima, dopo una corsa disputata in Francia.
Sembra strano, ma le parole del ragazzo convincono la Revíthi. È vero, non è più la ragazza sana e forte di una volta: è affamata, magra ed emaciata. Eppure la sua vita complicata la porta ancora a percorrere  lunghe distanze a piedi. Cammina e corre più di un uomo, Stamáta, abituata fin da bambina alle corse spensierate e senza fine sulle bianche spiagge di Siro.
E poi è caparbia. Se si mette in testa una cosa non c’è verso di farle cambiare idea. E così, giovedi 9 aprile 1896 – il 28 marzo, secondo il calendario giuliano –, si reca a Maratona, il villaggio da dove il giorno dopo partirà la gara olimpica. In testa ha un solo desiderio: correre – appunto – la maratona.

L’arrivo a Maratona

Gli atleti, i curiosi e i giornalisti convenuti fin lì per la corsa stentano a credere alle loro orecchie quando sentono  quella signora così male in arnese pretendere di iscriversi alla competizione. Lei, una donna!
Mentre i giudici – che non sanno cosa fare – prendono tempo, i giornalisti, fiutato lo scoop, sottopongono l’aspirante atleta a una raffica di domande. Lei risponde a tutti, sempre con una punta di pudore, ma anche con la determinazione e la sfrontatezza di cui è capace.
«Tre ore, tre ore e mezzo. Forse anche meno» sostiene spavalda quando le chiedono quanto ci avrebbe messo per completare la distanza.
Stamáta viene accolta, rifocillata e ospitata dal sindaco del villaggio, il signor Koutsogiannopoulos. Non prima, tuttavia, di aver rispedito al mittente la battuta feroce di uno dei partecipanti. L’atleta – un greco rimasto anonimo – le dice infatti che se anche fosse riuscita ad arrivare fino in fondo, ci avrebbe messo così tanto che avrebbe trovato lo stadio chiuso. Lei replica ricordandogli le recenti umiliazioni subite dagli atleti ellenici ad opera di quelli statunitensi.

una fase della maratona del 1896

una fase della maratona del 1896

 

La mattina dopo Stamáta si reca nella chiesa di San Giovanni per ricevere la benedizione. Ma Papaioannis Veliotis, il prete, si rifiuta: la Revíthi, infatti, non è un’atleta. Almeno non ufficialmente. Subito dopo, poi, i rappresentanti del comitato organizzatore respingono la sua domanda di iscrizione, in quanto formulata oltre i termini consentiti. Una motivazione pretestuosa, smentita anni dopo da David Martin e Roger Gynn, storici dello sport, che individuano nel suo essere donna la vera causa della sua esclusione.
Stamáta protesta, cerca di far valere le sue ragioni, ma non c’è niente da fare. Per rabbonirla gli organizzatori le promettono l’inclusione in una squadra femminile americana che avrebbe dovuto partecipare a una corsa successiva. Che, naturalmente, non avrà mai luogo.
La gara parte e Stamáta, con un groppo alla gola, vede gli atleti scappare via veloci verso Atene. È solo un attimo poi, testarda com’è, si riprende. In un attimo decide che se delle regole assurde le proibiscono di gareggiare, lei dimostrerà comunque di avere tutte le carte in regola per coprire gli oltre quaranta chilometri della competizione.

Verso Atene

Così, mentre nella capitale ancora si festeggia il vincitore, il connazionale Spiridon Louis, il giorno dopo – sabato 11 aprile, 30 Marzo per il calendario giuliano –, la donna di Siro si alza di buon’ora, convoca il giudice, il maestro e il sindaco di Maratona e li prega di firmare un foglio in cui attestino il luogo e l’orario della sua partenza.
Stamáta, infatti, ripeterà da sola il tracciato olimpico. Lo deve a se stessa, al suo essere donna e al suo bambino. È infatti convinta, da popolana ingenua quale è, che il re o il principe ereditario, venuti a conoscenza della sua impresa, non resteranno insensibili e garantiranno a lei e a suo figlio un futuro sicuro.
Sono le 8 in punto quando Stamáta si toglie gli zoccoli e inizia a correre. L’arrivo è lontano e il suo fisico logorato da una vita piena di stenti, ma non importa. Per tutto il percorso, infatti, la donna tiene un ritmo costante e poco dispendioso.
Alle 13,30 la Revíthi entra in Atene, stanca, sporca e sudata. Gli organizzatori non le permettono tuttavia di entrare nel monumentale stadio Panathinaiko, come invece avrebbe voluto. La fermano prima, precisamente a Parapigmata, dove oggi sorge l’ospedale Evangelismos. Qui alcuni ufficiali dell’esercito testimoniano per iscritto, dietro sua richiesta, l’ora di arrivo in città. Tempo impiegato per coprire la distanza: cinque ore e mezzo, due in più di quelle previste.
«Ma solo perché mi sono fermata un paio di volte ad ammirare delle navi che entravano in porto» si giustificherà in seguito, non senza una punta di malizia.
Ai reporter convenuti dichiara di voler incontrare al più presto il Segretario generale del Comitato Olimpico Ellenico, il signor Timoleon Philimon, così da illustrargli la sua impresa corredata da materiale documentale.

Spiridon Louis

Spiridon Louis

 

Ecco, la vicenda umana di Stamáta Revíthi termina qui, inesorabilmente inghiottita dalle spire del tempo. Nulla si sa della sua vita successiva, né se sia finalmente riuscita a trovare un lavoro e dare così un solido futuro al suo piccolo. Né se il re o il principe ereditario seppero mai della sua impresa.
Ciò che è rimasta, grazie anche alla minuziosa ricerca di alcuni storici, è la sua corsa scalza e solitaria da Maratona ad Atene, testimonianza di una caparbietà e di una voglia di lenire le ferite di un’esistenza sfortunata che hanno del grandioso.
Stamáta non comparirà mai negli annali ufficiali del Comitato Olimpico. La sua impresa verrà menzionata per la prima volta soltanto nel 1975 nell’Annuario dell’Atletica Femminile. Misteriosamente, però, il nome stampato su quelle pagine non è Revíthi, bensì Melpomene.
Qualcuno sostiene che si tratti di un’altra atleta, anche lei non ammessa alla corsa in quanto donna e, come lei, capace di ripetere in solitaria i quarantadue chilometri e rotti della gara. Plausibile, anche perché il tempo riportato sull’Annuario da questa atleta è di quattro ore e mezza, una in meno della nostra.
A noi, però, piace pensare che Melpomene e Stamáta siano la stessa persona, come del resto ritiene la maggior parte degli storici. Quale miglior soprannome, infatti, di quello della musa della tragedia, sarebbe stato possibile cucire addosso alla sfortunata e coraggiosa ragazza dell’isola di Siro?
Eschilo, di sicuro, ci avrebbe ricavato una storia con i fiocchi.

Marco Della Croce
© Riproduzione Riservata

 

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