Amelia Earhart – 1
Il volo nel cuore
«KHAQQ chiama Itasca. Dobbiamo essere sopra di voi, ma non riusciamo a vedervi… Il carburante sta finendo, però. Non siamo riusciti a raggiungervi via radio. Stiamo volando a mille piedi».
La voce femminile suona forte e chiara e il marconista capo dell’Itasca, Leo Bellarts, non sospetta minimamente che quello che sta ricevendo sia quasi l’addio dell’aviatrice più famosa del mondo. Sono le 7,42 ora del Pacifico del 2 Luglio 1937, venerdì. Pochi minuti dopo, alle 7,58, la stessa voce comunica: «Non riusciamo a sentirvi. Fate delle segnalazioni vocali, in modo che possiamo dirigere su di voi». Il dramma è cominciato.
Tra le 8.00 e le 8.03 un nuovo messaggio avvisa che «We received your signals but unable to get a minimum. Please take bearing on us and answer 3105 with voice». La tensione, sul cutter della Guardia Costiera statunitense incaricato di guidare il Lockheed L-10 Electra verso il previsto scalo dell’Isola di Howland, sale rapidamente. Dove si trova di preciso l’aereo e perché, pur ricevendoli, il suo equipaggio non riesce a individuare la direzione dei segnali Morse prontamente inviati dopo l’appello?
Alle 8.43, l’Electra trasmette ancora sulla frequenza 3105 kHz «Siamo sulla linea 157-337. Ripeteremo questo messaggio. Ripeteremo questo messaggio a 6210 kHz. Attendete». Ora la voce, che pure la radio riceve a 5 (cioè vicinissima), non è più calma, o almeno così sembra a Bellarts. È divenuta frenetica, anzi. Altri centoventi secondi e su quella stessa frequenza 3105 kHz arriva una frase, breve e disturbata, ma ancora intellegibile: «We are running north and south» ossia «Stiamo volando in rotta nord e sud». Sono le ultime parole di una grande aviatrice e di una grande donna. Sono le ultime parole di Amelia Mary Earhart.
La vocazione da infermiera
Nasce alle ore 23.30 di sabato 24 luglio 1897, Amelia. Proprio nel cuore degli Stati Uniti, in quel Kansas dove solo quarant’anni prima ha imperversato una guerra spietata e senza quartiere contro tribù dai nomi evocativi: Sioux, Cherokee, Pawnee…
I genitori, Edwin Earhart e Amy Otis, in quel periodo abitano a Kansas City, dove Edwin fa pratica legale in uno studio di avvocato. Amy (tedesca di origine per parte materna) ha già provato il dolore di perdere un figlio durante una gestazione difficile. Preferisce perciò lasciare il caos della città e portare a termine la seconda gravidanza ad Atchison, un piccolo centro di quindicimila abitanti affacciato sul grande fiume Missouri, nella tranquilla e agiata casa dei genitori. Suo padre Alfred Otis è una persona di notevoli mezzi: politico, giudice di Stato del Kansas, giudice della Corte Distrettuale e persino Custode Capo della Trinity Episcopal Church. Nonno Alfred ha tutti i numeri per garantire a Millie e alla sorellina Muriel, nata due anni e mezzo dopo, un’infanzia felice e spensierata. E così è.
Solo nel 1909 iniziano i problemi. Edwin Earhart è a poco a poco scivolato in uno stato di dipendenza dall’alcol, che lo porta, nel 1914, a perdere l’impiego piuttosto modesto cui ha dovuto adattarsi con il fallimento delle ambizioni giovanili. Gli Earhart devono così cercare una via d’uscita emigrando a Chicago.
Nel 1917 la giovane Amelia si scopre la vocazione da infermiera, in un momento in cui gli ospedali americani si stanno riempiendo con i feriti e mutilati dei campi della Prima Guerra Mondiale. Avviene a Toronto, dove la futura trasvolatrice, durante una vacanza dal college cui la madre l’ha iscritta, si è recata in visita alla sorella Muriel. La leggenda vuole che Amelia si impietosisca alla vista delle condizioni di alcuni veterani, e decida seduta stante di abbandonare gli studi e diventare infermiera di guerra.
La carriera di Earhart come assistente medica dura sino al termine del conflitto. Un anno vissuto intensamente, a contatto con il dolore e con un’umanità marginalizzata e priva di prospettive. Un’esperienza formativa, che sicuramente esercita sul carattere della giovane un peso rilevante e probabilmente la convince di una verità che l’accompagnerà per sempre, guidandola attraverso le mille esperienze che l’attendono: «Il modo più efficace di fare qualcosa è… farlo».
Nel 1920 torna a vivere con i genitori, nel frattempo trasferiti in California. È la svolta della sua vita, perché proprio a Los Angeles avviene l’incontro con il volo. Accade al Daugherty Airfield di Long Beach, a un raduno aereo cui l’ha condotta suo padre. Alla tutto sommato modica tariffa un dollaro, la giovane Amelia si assicura un’escursione di dieci minuti nel cielo della metropoli a bordo di un biplano. È sicuramente il dollaro più ben speso di tutta la sua esistenza, come racconterà anni dopo: «Nello stesso momento in cui lasciammo la terra, sentii che dovevo volare».
La passione di Amelia
Non perde tempo, la ragazza, e si mette a fare ogni lavoretto che le capiti, per pagarsi le lezioni di volo e soprattutto per realizzare il suo obbiettivo. Ci riesce un anno dopo quando acquista, con l’aiuto determinante della madre, un Kinner Airster giallo a due posti, subito ribattezzato Il Canarino.
È il mezzo per raccontare i suoi sogni alle nuvole. Il biplano porta la Earhart là dove sino ad allora aveva potuto volare solo con la fantasia: il 22 ottobre del 1922, la giovane pilota si spinge a quattordicimila piedi (circa 4.260 m), quota mai toccata prima da una donna. Un record che la rende immediatamente famosa nel circuito ristretto e aristocratico dell’aviazione. Qualche mese dopo, il 15 maggio 1923, ottiene finalmente il tanto desiderato brevetto di volo, sedicesima donna a conquistarlo. Ora è un pilota con tutti i crismi dell’ufficialità.
Non che sia facile, la vita di Amelia. Neanche il tempo di godersi la sua meravigliosa macchina volante e di provarne sino in fondo le potenzialità, e già deve venderla per affrontare una nuova tappa del suo viaggio negli States. Questa volta la meta è Boston, che raggiunge assieme alla madre a bordo dell’automobile appena comprata. Un arrivederci doloroso al volo, destinato a durare un paio di anni, che se le costa molto sopportare, non la abbatte minimamente. Nel 1926 rieccola già in pista, a investire tutti i suoi risparmi in un’impresa creata per costruire un piccolo aeroporto e commercializzare i Kinner Airster nel Massachusetts.
Un’occasione d’oro per promuovere il volo, specie tra le donne. «Una donna che può inventare il proprio lavoro è una donna che otterrà fama e fortuna», sostiene. Lei lo inventa con tanto successo da diventare un vero e proprio personaggio per la stampa. Il più diffuso quotidiano di Boston, The Globe, dedica addirittura una prima pagina alla coraggiosa e bellissima aviatrice che è ormai considerata «uno dei migliori piloti donna degli Stati Uniti d’America». Come dire del mondo.
Evidentemente, la stampa è nel destino di Amelia, perché proprio in quel circolo controverso e potentissimo che è il giornalismo americano tra le due guerre, si è già messo in moto a sua insaputa il meccanismo che la coinvolgerà nei trionfi che la attendono. E, purtroppo, nella tragedia finale.
“Lady Lindy”
George Palmer Putnam è un facoltoso newyorkese, noto al grande pubblico per le sue esplorazioni artiche e soprattutto per aver pubblicato le memorie dell’eroe nazionale degli Stati Uniti, Charles Lindbergh. Da qualche tempo, l’editore è impegnato in una ricerca difficile, ma di grande risonanza mediatica. Putnam cerca una pilota in grado di emulare l’impresa dello Spirit of Saint Louis e di compiere una trasvolata atlantica: la prima donna di sempre.
Ne ha ricevuto incarico da un’aviatrice, americana ma residente a Londra, la cinquantacinquenne e ricchissima Amy Phipps Guest. Dal canto suo, Amy avrebbe fatto carte false per essere lei stessa a tentare il volo. Purtroppo di fronte allo scarsissimo entusiasmo manifestato dalla famiglia aveva dovuto rinunciare, ritagliandosi tuttavia un’onorevole via di ritirata con la possibilità di sponsorizzare una pilota.
Un giorno dell’aprile 1928, Amelia riceve una strana telefonata dal capitano Hilton Railey, che le domanda se si sente in grado di affrontare il volo dall’America all’Europa. Neanche da dubitarne: la risposta è scontata. Una settimana dopo, la ragazza è a New York, a colloquio con Putnam. Railey gliel’ha condotta, presentandola col nomignolo di Lady Lindy, che le ha subito affibbiato per la somiglianza (in effetti davvero notevole) con Lindbergh. Quando si dice il destino.
L’offerta di Putnam è precisa. Nel volo, Amelia rivestirà un ruolo limitato e inedito, anche se importante. Non avendo esperienza di plurimotori e di volo strumentale, pur avendo nominalmente il titolo di comandante, sarà solo un passeggero: la parte operativa sarà affidata a due piloti esperti e affidabili, Wilmer Stultz e Louis Gordon.
Definita la questione, arriva presto il momento dell’impresa. Il 3 giugno 1928 i tre decollano verso Halifax, nella Nuova Scozia canadese, scelta come base di partenza, a bordo di un idrovolante Fokker VII/3m simbolicamente battezzato Friendship. I giorni che seguono sono di snervante attesa.
Il tempo non vuole stabilizzarsi e la trasvolata viene rimandata sino al 18, quando finalmente si prende la decisione di partire. Le condizioni atmosferiche continuano purtroppo a non essere delle migliori: l’intero volo si svolge attraverso banchi di nebbia densa e vischiosa, che rendono difficile mantenere un assetto corretto, e costringono il trimotore a un consumo di carburante superiore al previsto. L’atterraggio avviene quindi non in Irlanda, come programmato, ma a Burry Port, nel Galles del Sud.
Un’autentica star
Poco importa. L’impresa è riuscita, e Amelia è diventata di colpo una donna da copertina, una delle persone più conosciute e intervistate del pianeta. È lei la star, i giornalisti vogliono parlare solo con lei e ignorano i compagni di volo. La ragazza ne è disturbata, il suo senso di giustizia e la stima verso i due piloti la costringono a protestare. «Durante il viaggio, io ero un passeggero, solo un passeggero. Ogni cosa che è stato fatta per portarci sin qui, è stato fatta da Wilmer Stultz e Slim Gordon. Ogni lode che posso fare loro, se la meritano. Non credo certo che le donne non abbiano la resistenza per fare un viaggio in solitaria attraverso l’Atlantico, ma la questione è quella di imparare il volo strumentale, un’arte che solo pochi piloti uomini possiedono, per ora…» dichiara con decisione. Nessuno la ascolta, ovviamente, a cominciare dal Presidente Coolidge, che le invia le sue personali congratulazioni.
Londra, New York… Amelia è richiestissima, anche per merito di Putnam che, dietro le quinte, manovra per tenerla sempre in primo piano. A settembre compie il suo esordio in solitaria, coast to coast sino a Los Angeles per assistere alle National Air Races, competizioni di velocità in un circuito chiuso delimitato da piloni, molto popolari in quegli anni. Tornata a New York a fine mese, tiene una serie di conferenze per promuovere il suo libro sulla trasvolata atlantica 20 hours, 40 minutes, alle quali George Putnam assiste tanto assiduamente che si inizia a vociferare di una relazione tra i due.
Mentre Amelia, diventata dirigente di primo piano della TWA, si impegna in mille attività, promozionali e giornalistiche (scrive vari articoli per Cosmopolitan), Putnam avvia la causa di divorzio dalla moglie Dorothy Binney.
Il divorzio viene concesso a fine 1929, e l’ormai scontato matrimonio tra l’aviatrice e il milionario ha luogo il 7 febbraio 1931. Un avvenimento di risonanza mondiale, anche perché Amelia ha continuato a tenere il suo nome bene in evidenza con vari record femminili di velocità e altitudine, ottenuti con il Lockheed Vega acquistato dopo la trasvolata atlantica.
Proprio con questo aereo, leggermente modificato, Amelia programma una nuova, sensazionale avventura. Dal 1927, seppure molti si proponessero di farlo, nessuno aveva più osato ripetere l’impresa di Lindbergh, la trasvolata atlantica in solitaria: ebbene, lei sarebbe stata la prima (1-Continua).
Danilo Francescano
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