Wayne Gretzky
The “Great One”
Mentre Anton e Maria guardavano i dieci ettari di fattoria appena acquistata nei pressi di Canning, in Ontario, non avevano idea di cosa li aspettasse in quella terra così lontana dalle loro radici. Lui era emigrato prima che la Rivoluzione d’Ottobre potesse deflagrare nel suo paese e nell’intera Russia zarista, aveva fatto un viaggio lungo come un oceano e aveva scoperto qualcosa di completamente diverso da quello che aveva lasciato. Poi aveva incontrato Maria, emigrata come lui, e si erano sposati. Non avevano idea di cosa sarebbe successo alla loro famiglia, ma avevano preso quella fattoria e da quella sarebbero partiti coltivando cetrioli. Non sapevano che quella famiglia avrebbe finito per fare la storia sportiva di quel paese così diverso da loro.
Furono anni tutt’altro che semplici, quelli a cavallo fra la prima e la seconda guerra mondiale. Lo furono per gli immigrati, in particolare, anche per quelli che erano appena scappati dall’altra parte della terra proprio per evitare quel genere di cose. C’erano i veterani della prima guerra che chiedevano considerazione e posti di lavoro, c’era il morbo del nazionalismo che attaccava anche il Canada e c’era una crisi economica senza precedenti nell’epoca industriale. E così gli immigrati dell’est europeo, da signori schivi ma corretti, diventarono una ipotetica minaccia alla sicurezza di chi su quelle terre era sbarcato prima di loro. Fu poco prima che il mondo impazzisse di nuovo, nel 1938, che in quella fattoria nacque Walter, loro figlio. Crebbe respirando aria canadese e parlando ucraino, e una volta cresciuto si innamorò di Phyllis. Un incontro decisivo, quello con quella ragazza di così chiare origini anglosassoni, perché quando fu abbastanza grande per decidere da solo Walter scelse di cercarsi un lavoro fisso e allontanarsi dalla fattoria.
Chissà cos’avranno pensato Anton e Maria vedendo loro figlio entrare a diciannove anni alla Bell Canada, l’azienda nazionale che gestiva la diffusione e il funzionamento di quello straordinario strumento di comunicazione che era il telefono, e un paio d’anni dopo sposarsi per tornare in città, a Brentford. Ma questo era ancora niente rispetto a ciò che sarebbe successo.
Pochi mesi dopo il matrimonio, nel 1961, venne al mondo il primo figlio di Walter e Phillys Gretzky, che chiamarono Wayne. Si tratta dello stesso nome che trovate tutt’oggi riportato sotto due statue che campeggiano davanti a due delle arene più conosciute del Nord America, il Rexall Place di Edmonton e lo Staples Center di Los Angeles. Accanto al nome, in entrambi i casi, troverete scritto anche The Great One. Dopo di Wayne vennero anche Kim, Keith e Brent, e la famiglia dovette cercare una casa più grande. Papà Walter, al momento di sceglierla, tenne conto anche dello spazio esterno che d’inverno poteva destinare a piccolo campo di gioco del suo sport preferito, l’hockey, così che i suoi figli avrebbero potuto giocarci senza andare in giro per il quartiere.
Già, l’hockey. Nel fine settimana Walter portava la famiglia alla fattoria di Anton e Maria, e il sabato sera la televisione di famiglia restava inchiodata su Hockey Night in Canada, con gli occhi dei bambini appiccicati a quelle immagini. Fu una di quelle sere che nonna Maria si ritrovò a giocare con il nipotino Wayne: lei faceva il portiere e il piccolo cercava di segnare con una piccola stecca regalata come souvenir.
Il bambino aveva solo due anni e qualche mese dopo, sempre alla fattoria, imparò a pattinare. Quando quattro anni dopo, all’età di sei, Wayne iniziò il suo primo campionato giovanile giocando in una squadra di ragazzini di dieci anni, era già considerato un bambino prodigio. La maglia della squadra era enorme, e così il piccolo prese a infilarsela dentro i pantaloni dalla parte destra, e continuerà a farlo anche quando le maglie gli saranno confezionate su misura.
Oltre all’immenso talento che sprigionava, Wayne era anche percorso da una passione incontrollata. Si alzava prima delle sette per giocare dietro casa prima di andare a scuola, e sullo stesso campetto tornava il pomeriggio fino a quando sua madre non lo costringeva a rientrare per la cena. E dopo se ne tornava a pattinare, da solo o con papà Walter, con buona pace dei vicini. Se l’aveste guardato a dieci anni non avreste certo detto che aveva il fisico adatto per giocare a hockey, ma in quell’anno mise a segno 378 gol and 139 assist, attirando l’attenzione dei media nazionali, mentre a soli tredici anni ruppe il muro dei mille gol.
Eppure la mente umana è strana, e le dinamiche delle comunità possono essere incomprensibili e crudeli al tempo stesso. E così successe che a una parte della gente di quella città, dove Walter prima e Wayne poi erano cresciuti, quel successo, quella straordinaria diversità, fosse diventata inaccettabile. Mentre il ragazzo in campo non aveva particolari problemi con gli altri giocatori, una parte dei genitori e degli addetti ai lavori lo presero di mira. Lo prendevano in giro, lo fischiavano, lo insultavano e protestavano contro i coach per lo spazio che davano al piccolo Gretzky. Papà Walter era costretto a vedere persone che si mettevano, forniti di carta, penna e cronometro, a calcolare quanto tempo ogni giocatore passava in campo per poi aggredire il coach a fine partita, oppure ad assistere a minacce di ritiro dei ragazzi dalla squadra prima delle trasferte. Walter tenne duro fino al due febbraio 1975, ovvero qualche giorno dopo il quattordicesimo compleanno di suo figlio Wayne.
Quello era un giorno eccezionale per tutta la città di Brentford. Le sue squadre giovanili erano state invitate ad esibirsi al Maple Leaf Garden di Ottawa, un palcoscenico straordinario per una grande festa sportiva. Ma quando il giovane Wayne entrò sul ghiaccio una parte del pubblico, una parte della sua città, iniziò a fischiarlo sonoramente. E così i Gretzky traslocarono. Scelsero Toronto, una metropoli, dove la pressione sul ragazzo sarebbe stata minore e allo stesso tempo sarebbe stato più facile avviare la sua carriera di giocatore professionista. Da quel momento in poi nessuno riuscì più a mettere in discussione la simbiosi fra Wayne Gretzky e l’hockey. L’esordio nella National Hockey League (NHL) avviene con gli Edmonton Oilers nel 1979, a diciotto anni, e già alla fine di quella stagione, dove mette a segno 137 fra gol e assist, viene nominato miglior giocatore del campionato. Lo sarà anche per le sette stagioni successive. Vince quattro volte la Stanley Cup (il campionato di lega) con gli Oilers prima di passare alle squadre statunitensi di Los Angeles, St. Louis e New York (sponda Rangers). In vent’anni di carriera accumula ben sessantun record di lega.
Wayne Gretzky è considerato il miglior giocatore di hockey di sempre, per questo nessun giocatore della NHL potrà mai più indossare una maglia numero 99, per questo poco dopo il suo ritiro è entrato di diritto nella Hall of Fame del gioco che ha contribuito a rendere conosciuto in tutto il mondo, per questo sulla sua zona preferita del campo, quella dietro la porta, è riportato il suo numero di maglia. Ed è per questo che trovate le sue due statue di fronte a due dei più importanti palazzi dello sport del Nord America. Di sicuro Anton e Maria, mentre guardavano la loro fattoria di cetrioli nella campagna canadese, non pensavano che sarebbe successo tutto questo.
Florio Panaiotti
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