Roger Bannister
Il miglio dei miracoli
Ci sono immagini che entrano nella storia; istanti irripetibili che in uno scatto vengono fermati per sempre. Eccolo, il momento, l’occhio del fotografo coglie l’immagine perfetta e la cattura nel corso del suo svolgersi prima di permettergli di svanire. Allora avviene qualcosa che fa dire: è accaduto adesso, proprio ora, e non si ripeterà mai più.
Quella che ritrae Roger Bannister mentre taglia il traguardo del miglio è una di queste.
Una fotografia d’epoca, in bianco e nero, oggi ha ancora il potere di portare chiunque la osservi indietro nel tempo. D’improvviso è di nuovo quel lontano 6 maggio 1954 a Iffley Road, Oxford.
In primo piano c’è un ragazzo, un atleta in abiti da gara, che porta sul petto il numero 41. Il suo corpo sembra essere in movimento, benché la sua figura non sia sfuocata, forse ce lo suggerisce la posizione disarticolata delle braccia, l’inclinazione surreale della testa, la gamba sinistra che appare in procinto di muovere un passo. L’altro piede è fermo, invece. È forse l’elemento più immobile di tutta la fotografia: tutto pare muoversi attorno, tranne quel piede. Stabile, fisso, sulla linea del traguardo.
Sul viso del ragazzo traspare lo sfinimento, è un’espressione difficile da definire: quasi un sorriso che sta per trasformarsi in pianto. Oppure un sospiro, un tentativo di prendere quanta più aria possibile, a pieni polmoni.
Intorno a lui il mondo esplode. Gli spettatori lo fissano ammirati, increduli. Un giudice con la pipa in bocca annota il risultato e, poco distante, un cronometrista blocca il suo strumento e lo fissa sbalordito.
Alle spalle del ragazzo una folla in tumulto lo insegue, un’allegra brigata di giovani corre sparsa sull’erba pronta a festeggiarlo.
Che aveva mai fatto di tanto straordinario quel Roger Bannister? L’impresa sta racchiusa tutta in una cifra, pronunciata ad alta voce dal giudice di gara Norris McWhirter, poco dopo quella scena epica. Al poveretto non fu dato neppure il tempo di terminare l’annuncio, nessuno volle ascoltare i decimi di quel risultato e neppure i millesimi. Fu sufficiente il primo numero: tre. Un’esplosione di urla festose e uno scroscio di applausi coprì il responso ufficiale: 3’59”4. Quella cifra nell’immagine manca, ma la sua impronta sembra essere ovunque: ce n’è traccia nei volti commossi, entusiasti, sbalorditi degli spettatori e in quello pallido, segnato della fatica di Roger Bannister.
«Signore e signori, questo è il risultato della gara numero 9, il miglio: primo, il numero 41, Roger G. Bannister dell’Amateur Athletic Association e già studente dei college Exeter e Merton, con un tempo che rappresenta un nuovo record della pista e del meeting e che, dopo esser stato sottoposto a ratifica, sarà un nuovo record inglese, britannico, su suolo britannico, europeo, dell’Impero britannico e del mondo…»
Nuovo record inglese, su suolo britannico, ma non solo: record europeo e del mondo. Era stato scientificamente provato che un essere umano non fosse in grado di percorrere un miglio in meno di quattro minuti. Quel giorno Bannister aveva dimostrato che le teorie, i calcoli erano validi fino ad un certo punto, finché non si scontravano con la forza di volontà. Una virtù, questa, tutta umana.
Una giornata uggiosa
Pensare che Roger Bannister il mattino della gara aveva creduto di non farcela, era arrivato sul punto di desistere. Gli era tornato in mente il fallimento ai Giochi di Helsinki, due anni prima, e lo perseguitava come un presagio di sventura. Era arrivato quarto, ad Helsinki, scalzato dal podio nella finale dei 1500 metri, quando tutti lo davano per favorito. C’era chi aveva scommesso sulla sua vittoria, addirittura, credevano valesse l’oro. Ma non era andata così.
La mattina di quel fatidico giorno lo assalì la paura del fallimento, pensò che non avrebbe sopportato una seconda sconfitta. Poi c’era il tempo, che non prometteva niente di buono. Una giornata così ventosa non favoriva la corsa. Il colore plumbeo del cielo minava il suo umore e il freddo, nonostante il mese quasi estivo, gli entrava nelle ossa. Era ad un passo dal suo obbiettivo e stava per rinunciare.
Roger Bannister non si definiva un atleta, era un dilettante. All’epoca della gara era uno studente di venticinque anni a sei settimane dalla sospirata laurea in medicina. Amava correre fin da quando era bambino e si dedicava agli allenamenti nei ritagli di tempo tra lo studio e la routine del giro visite. Lui e i suoi compagni di corso si allenavano soprattutto durante la pausa pranzo, oppure di notte dopo le lezioni. I loro esercizi erano calcolati alla perfezione; la mente scientifica Roger la applicava anche alla corsa. Conosceva alla precisione il tempo che doveva fare per battere il record: aveva calcolato di poterci riuscire in 3’56, era quello inizialmente il suo intento. Per migliorare la sua capacità di resistenza trascorse giornate intere sulle montagne scozzesi, in compagnia dell’amico Chris Brasher. Assieme si sottoposero a prove di forza bruta, soffrirono il freddo e la fame, scalarono le vette; quella che doveva essere una tabella di allenamento si trasformò in una questione di sopravvivenza. Quando la situazione iniziò a diventare pericolosa, i due tornarono a casa.
Al ritorno Roger, con una caviglia rotta e qualche chilo in meno, si accorse di aver migliorato il tempo sul miglio.
La gara
Il 6 maggio 1954, sembrava una giornata come tutte le altre. La mattina Roger aveva effettuato il consueto giro visite al Paddington Hospital, dedicandosi alle occupazioni che scandivano il suo tirocinio.
L’unica differenza rispetto al solito era stata la sosta nel laboratorio dell’ospedale. Lì aveva arrotondato le punte delle sue scarpe da corsa, grattandole con della grafite per migliorare l’aderenza con il terreno. Uno specializzando che passava da quelle parti lo osservò divertito e gli domandò: «Non credi che farà qualche differenza, vero?»
Alla stazione, in attesa del treno che l’avrebbe condotto ad Oxford, Roger era assalito da dubbi. La paura dell’insuccesso era tangibile, gli annebbiava la mente. Ormai era convinto di rinunciare alla gara, ma un incontro fortuito gli avrebbe fatto cambiare idea. Per una curiosa coincidenza a bordo di quello stesso treno c’era Franz Stampfl, il suo allenatore storico. Stampfl era un uomo temprato, un austriaco imbevuto di letture di Freud, che, tra le altre cose, era sopravvissuto perfino ad un naufragio.
Seppe dire al timoroso Roger le parole giuste. Gli disse che credeva in lui, nelle sue capacità. Aggiunse che se non avesse partecipato a quella gara non se lo sarebbe perdonato per il resto della vita. Ed era sempre meglio avere rimorsi piuttosto che rimpianti. Quel discorso fece riflettere il giovane Bannister che, giunto sulla pista di Iffley Road, aveva riguadagnato un po’ della motivazione perduta.
Intanto i suoi compagni di squadra, Chris Chataway e Chris Brasher, lo interrogavano sul da farsi. Roger fissava la bandiera issata in cima alla chiesa di St George che oscillava al folle vento. Quando la bandiera smise di oscillare erano le sei del pomeriggio del 6 maggio 1954, Bannister si rivolse agli amici e disse: «Let’s do it», «Facciamolo». Erano tre ragazzi e un sogno. Lo starter sparò il colpo d’avvio e la gara ebbe inizio. A Bannister toccava correre l’ultimo giro, Brasher aveva fatto una falsa partenza e Chataway era stato lento, troppo lento. A proposito di quel record incredibile non resta che ripetere quello che, ancora oggi, l’anziano Roger Bannister sostiene quando parla di quei momenti: «Ce l’ho messa tutta».
Tagliò la linea del traguardo e poi svenne, in quello sforzo aveva concentrato tutte le sue energie. La fatica della corsa l’aveva addirittura accecato: «Non vedevo più nulla», ha raccontato Bannister «mi bruciava tutto il corpo».
Oggi a Iffley Road, in quel punto preciso, potete trovare una targa a sfondo blu, che ricorda: «Qui il primo miglio sotto i 4’ venne corso il 6 maggio 1954 da Roger Bannister».
La vita dopo il record
Quel record leggendario, paragonato da alcuni alla scalata dell’Everest e al primo passo dell’uomo sulla luna, durò appena quarantasei giorni. Bannister aveva dimostrato che i limiti dell’uomo potevano essere superati, aprendo così la porta ad una lunga sfilza di competizioni volte al miglioramento del record.
Così il 21 giugno l’australiano John Landy, uno dei maggiori corridori dell’epoca, fece un miglior tempo in 3’57”9. Aveva battuto il record, ma non Bannister. I due si incontrarono faccia a faccia l’anno successivo a Vancouver, in occasione dei Giochi del Commonwealth, e Roger poté prendersi la sua rivincita, ma quella fu la sua ultima corsa. Decise di ritirarsi dal mondo dello sport per dedicarsi all’attività a cui ha consacrato la sua vita: la neurologia. Ancora oggi nel suo cottage nel Sussex, in mezzo ai quadretti in acquarello dipinti dalla moglie Moira è possibile distinguere qualche fotografia che cattura lo sguardo: un giovanotto che stringe la mano a Churchill, oppure fianco a fianco con il presidente Kennedy.
Eppure quel giovanotto, che oggi ha più di ottantasei anni, mostra con orgoglio il premio conferitogli dall’Accademia americana di neurologia. Si definisce un neurologo, non uno sportivo, nella corsa si ritiene ancora un “dilettante”.
In realtà il dottor Bannister non ha mai smesso di correre, per anni ha portato i suoi quattro figli ogni mattina a fare jogging al Kensington Gardens di Londra. Ha continuato, con leggerezza, ad amare la corsa come quando era bambino, senza la febbre della competizione. Ripensa al suo passato sportivo quasi con imbarazzo, ma senza nascondere un certo compiacimento. A volte quando non lo vedevano nei corridoi dell’ospedale gli infermieri mormoravano: «Dov’è il dottor Bannister? Non sarà ancora in qualche stadio».
Roger ha saputo esistere al di fuori delle gare, ma non ha rinunciato del tutto allo sport. Il suo record ha dato una grande lezione al mondo e da quell’esempio Bannister ha tratto uno stile di vita: la sua immagine è diventata uno strumento motivazionale e lui continua a sfruttarla per promuovere lo sport come veicolo di salute e solidarietà.
L’uomo che ha corso il miglio in meno di quattro minuti e ha dedicato la sua vita alla cura del cervello, oggi, per un paradossale scherzo del destino, si muove a fatica, rallentato dal Morbo di Parkinson. È una battaglia, però, che Roger Bannister non ha intenzione di perdere. Per questo motivo ha venduto all’asta le sue scarpe da corsa, quelle che l’hanno accompagnato nella sua impresa storica.
«Sono grato a queste scarpe, perché mi hanno aiutato a raggiungere uno scopo nobile». Ha detto Bannister «Ora sono l’ultimo legame tangibile che mi rimane del record. Ma credo sia arrivato il momento di separarsene».
Il ricavato andrà alla Autonomic Charitable Trust (ACT) un’associazione per la ricerca neurologica.
Così il campione ha stretto la mano al medico, nel tentativo di vincere una sfida ancora più importante.
Alice Figini
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