Louis Zamperini

Louis Zamperini

Louis Zamperini

 

Il combattente indomito

C’era una ragione per cui Louis si era avvicinato alla corsa ed era la stessa che lo spingeva a non demordere. Correre significava resistere. Aveva imparato bene a spingersi oltre il limite, ad andare avanti perfino quando il fisico stremato gli imponeva di fermarsi: non si trattava semplicemente di una questione di allenamento, ma di sana disposizione mentale. Il trucco era semplice, ogni volta pensare di poterci riuscire ed ogni volta obbligarsi a compiere lo sforzo che lentamente, falcata dopo falcata, non appariva più tale.

Anche per vivere bisogna resistere; questo credeva di saperlo eppure, quando correva, non l’aveva ancora imparato davvero. Allora era solo un ragazzo che cercava di ritagliarsi il suo posto nel mondo, spesso nel modo sbagliato, perché la vita con lui non era mai stata generosa. Aveva un sorriso da guascone e la mano lesta, credeva di saperla lunga e il suo solo modo per dimostrarlo era farla franca con ciascuna delle sue birbanterie. Fu la corsa a concedergli l’opportunità di un riscatto, fornendogli al contempo la tempra coriacea che gli avrebbe permesso di sopravvivere. Fannullone, svogliato, vivace, non aveva mai conosciuto la piacevole carezza di una lode, solamente lo schiaffo degli insulti. Straniero in terra straniera, prima di iniziare a correre non era nessuno, nessuno lo chiamava per nome e lui combatteva, con il furore di chi si vuole distinguere, per strapparsi di dosso il mantello dell’invisibilità. Correva e, non solo tutti lo riconoscevano, facevano pure il tifo per lui, mentre i giornali locali titolavano «Zamperini. Il ragazzo che vola!».

Il tornado di Torrance

Un cognome il suo che in America suscitava parecchi problemi di pronuncia, sottolineando una diversità mal vista da gran parte del vicinato.
I genitori erano immigrati italiani, originari di Castelletto di Brenzone in provincia di Verona. In casa Zamperini si mangiavano gli gnocchi e si parlava esclusivamente italiano, di conseguenza il piccolo Louie aveva non poche difficoltà ad integrarsi con il mondo sconosciuto fuori dall’ovattato nido familiare. I suoi coetanei lo prendevano in giro e fin da subito Louis si abituò a correre veloce, sempre più veloce, per sfuggire alle grinfie dei suoi aguzzini. Il padre Anthony era stato un pugile in gioventù e pensò bene di educare il figlio a difendersi, ma quella strategia non funzionava affatto: il piccolo Zamperini era gracile, minuto, molto più agile nell’arte della fuga che nell’attacco. Si trasformò così in un ladruncolo impenitente, che cercava di attirare l’attenzione con ogni genere di malefatte. A portare il ribelle sulla retta via ci pensò il fratello Pete, studente modello e atleta dilettante che neppure sospettava la metamorfosi a cui avrebbe dato atto con quel tentativo. Presto nessuno osò più prendere in giro Louis Zamperini. Divenne una piccola celebrità nella cittadina di Torrance, in California, dove tutti ora lo conoscevano con un nome che ricordava quello di un supereroe “Il Tornado”. A sedici anni Louis aveva compiuto la sua personalissima trasformazione: correva il miglio in 4 e 42 secondi, lasciando letteralmente senza fiato gli altri concorrenti e il pubblico sugli spalti. Anche Pete dovette arrendersi all’evidenza quando il fratellino lo distaccò di cinquanta miglia ai campionati studenteschi: non solo non sarebbe più stato lui il pupillo di casa, Louie “la canaglia” sembrava destinato a grandi successi.

4 minuti, 21 secondi e 9 decimi con questo tempo Louis siglò il nuovo record nazionale, che sarebbe rimasto imbattuto per i successivi vent’anni. Era il 1934 e il giovane Zamperini gareggiava ai campionati studenteschi con un paio di pantaloncini neri ricavati dalla gonna della madre; già si distingueva, con quel colore insolito, dall’uniforme bianco indossato come una divisa dagli altri concorrenti in gara. Era quel nero inchiostro l’unico elemento che permetteva di riconoscerlo mentre distanziava tutti gli altri con una rapidità fenomenale.

Louis con il fratello Pete

Louis con il fratello Pete

 

Due anni dopo sotto l’afa estiva di New York, sfidando quei quaranta gradi apocalittici che mieterono varie vittime, Zamperini superò la prova dei cinquemila metri piani valida per le qualificazioni olimpiche. Tagliò il traguardo spalla a spalla con il campionissimo Don Lash. Un finale quasi in parità che non lasciò adito ai dubbi: il ragazzo italiano sarebbe partito alla volta di Berlino.

L’ultimo giro

Aveva solo diciannove anni, Louis. Era il più giovane mezzofondista entrato nella squadra olimpica degli Stati Uniti. Visse quell’esperienza come un’avventura, ardendo di inconsapevolezza, con emozione e sfrontataggine. Possedeva l’esuberanza spontanea, tipica di quell’età, di chi ritiene ogni occasione di gioia un fatto dovuto.

Rimase ammaliato dal clima sfarzoso e solenne che caratterizzava i Giochi del Führer; sembrava di trovarsi al centro del mondo in quella calda estate a Berlino. Per la prima volta nella sua vita gli veniva riservato un trattamento d’onore, ne fu completamente conquistato, in particolare lo impressionò il ricco buffet quotidiano; un’oasi proibita per lui abituato a mangiare sempre poco.

Il 7 agosto 1936 Louis si trovava ai blocchi di partenza con lo stesso spirito di sempre, frastornato dall’emozione, ma sicuro delle sue capacità. La gara questa volta non andò come le precedenti; dopotutto lui era un novellino e si trovava d’improvviso a competere con i migliori atleti del mondo. Di sicuro l’incoscienza della gioventù non giocò a suo vantaggio; Zamperini aveva grande talento e poca esperienza nel gestirlo. Non si distinse durante la gara, piuttosto nel finale. Quando si accorse che il finlandese Hockert, già oro olimpico, aveva distanziato tutti i concorrenti con un vantaggio decisivo si accese in lui la scintilla della competizione e cominciò a recuperare terreno. Si classificò ottavo, in compenso risultò il più veloce dell’ultimo giro: lo completò in soli cinquantasei secondi, un record. La sua accelerazione improvvisa conquistò il pubblico e non solo. Hitler in persona si congratulò con lui, dopo la stretta di mano di rito osservò compiaciuto: «Allora è lei il ragazzo del finale veloce».

Louis in azione

Louis in azione

 

Louis in seguito rivelò di essere stato lusingato da quel complimento, a quel tempo si intendeva poco di politica. Ancora non immaginava che presto quel piccolo uomo avrebbe scatenato l’inferno in cui lui stesso sarebbe stato risucchiato, suo malgrado.
Non vinse nessuna medaglia, ma quell’ultimo giro divenne leggenda, in patria lo festeggiarono come eroe nazionale. Louis credeva di avere ancora tempo per vincere, guardava già al suo prossimo obbiettivo: le Olimpiadi di Tōkyō. E a Tōkyō arrivò prima del previsto, inaspettatamente non in veste da atleta.
Era esplosa la guerra a sconvolgere i suoi piani.

Sotto il fuoco giapponese

In seguito all’attacco di Pearl Harbor Zamperini fu arruolato come bombardiere, assegnato alle isole del Pacifico per combattere contro i giapponesi. A bordo del B-24 Super Man visse i momenti più duri della guerra rispondendo agli attacchi della flotta nemica, convivendo istante dopo istante con il rischio di essere abbattuto. Il peggio però si verificò in un momento imprevedibile. Louis ed il suo equipaggio furono assegnati ad una missione di soccorso, incaricati di cercare un aereo scomparso; un compito apparentemente privo di rischi, eppure, mentre sorvolavano l’oceano con la complicità di uno splendido sole, accadde l’inimmaginabile. A causa di un guasto meccanico l’aereo precipitò nell’oceano: otto degli undici membri dell’equipaggio morirono sul colpo. Solo tre i sopravvissuti: Zamperini con i compagni Russell Allen “Phil” Phillips e Francis “Mac” McNamara. Si ritrovarono soli in balia delle onde con l’unico supporto di una scialuppa di salvataggio. Un uomo diverso non ce l’avrebbe mai fatta, ma Louis era abituato a correre, le prove di resistenza non lo intimorivano. Passarono quarantasette giorni in mare, mentre dal cielo infuriavano gli attacchi aerei giapponesi, continuamente tormentati dagli assalti degli squali e dalle frequenti tempeste. Parlavano fra loro per non impazzire: Louis ricordava i momenti gloriosi delle gare, gli gnocchi prelibati preparati da mamma Louisa e invitava gli amici a non scoraggiarsi perché dopotutto la vita era così grande, così forte, meritava di essere vissuta. Il trentatreesimo giorno McNamara morì, restarono solo in due sospesi nel mezzo dell’oceano in attesa di salvezza.

La salvezza arrivò quando raggiunsero la terraferma, quattordici giorni dopo. La scialuppa si arenò sulle Isole Marshall; non si trattava, tuttavia, di un approdo sicuro. I due naufraghi si ritrovarono a rimpiangere i giorni d’incertezza e speranza trascorsi nell’oceano. Catturati dalla marina giapponese furono internati nel campo di Öfuna.
Il calvario non era ancora terminato.

Il campo di Ofuna

Fu in quel campo, dove tutti erano spogliati della propria identità, che Louis Zamperini si ricordò di essere un atleta. Ora che tutto era cambiato, dopo tutto quanto accaduto, sembrava impossibile essere ancora quello stesso ragazzo che sorrideva gioioso sulla pista delle Olimpiadi. I suoi aguzzini, però, sapevano chi era e gli imposero di correre, per gioco, per tirannia, per gusto della sofferenza. Sei un atleta, dunque corri: questo era il motto. Louis pesava trentacinque chili, privo di forze, stremato, correva improbabili sfide contro i soldati giapponesi che volevano arrogarsi il vanto di aver battuto un atleta olimpionico. Lui e l’amico Phil rimasero internati nel campo per tre anni, fino al termine della guerra. Malnutriti, torturati, trattati come bestie.

Un'immagine tratta dal film "Unbroken"

Un’immagine tratta dal film “Unbroken”

 

Il passato divenne un compagno scomodo per Louis che giorno dopo giorno si trovava a fare i conti con la sua antica immagine vincente che lo rendeva ancora più odioso agli occhi dei giapponesi, specialmente a quelli del caporale Mutsuhiro Watanabe. Quell’uomo era soprannominato “L’uccello” per la sua ferocia, non aveva pietà per coloro che definiva «nemici del Giappone». Terminata la guerra Watanabe venne incluso nella lista dei più pericolosi criminali di guerra, ma non scontò mai la sua pena.

Il ritorno in patria

In America Louis Zamperini era considerato un uomo morto, in realtà avevano anticipato di settant’anni la sua scomparsa. Louis infatti si spense un anno fa nella sua casa di Los Angeles, quando era ormai un vecchio signore sulla soglia dei cent’anni. Aveva avuto ormai tutto il tempo per raccontare la sua storia fin nei minimi dettagli e ritrovare la pace perduta. La sua vita divenne un best-seller scritto da Laura Hillenbrand, dal titolo “Unbroken-Sono ancora un uomo”. Portato poi sul grande schermo con la pellicola omonima “Unbroken” diretta da Angelina Jolie con la collaborazione dei fratelli Coen.

Il lieto fine è scritto. Louis Zamperini riuscì a riabbracciare la famiglia ed assaporare ancora per molte volte gli adorati gnocchi di mamma Louisa. Convolò a nozze con l’amata Cynthia Applewhite, una donna forte, capace di stargli accanto per oltre cinquant’anni di matrimonio sorreggendolo sempre, nonostante i momenti difficili e le crisi dovute allo stress post-traumatico. Louis fu perseguitato a lungo dal ricordo dei suoi aguzzini, soprattutto dall’incubo del terribile boia Watanabe. Cynthia lo salvò dai suoi demoni indicandogli la via della fede, fu così che, convertitosi al cristianesimo, Louis imparò a tendere la mano ai suoi nemici. Fu l’atto estremo di coraggio, quello che più di ogni singolo istante della sua storia di resistenza descrive l’inestimabile grandezza del suo animo. Zamperini si recò nella prigione di Sugamo, dove erano internati i soldati giapponesi che avevano compiuto crimini nel corso della guerra. Con l’aiuto di un interprete Louis spiegò il suo messaggio di perdono e abbracciò tutti quanti lo avevano riconosciuto, senza tirarsi indietro.

Louis con la moglie Cynthia

Louis con la moglie Cynthia

 

A ottantun anni realizzò il suo  grande sogno di partecipare alle Olimpiadi in Giappone, quando fu chiamato come tedoforo ai Giochi Invernali di Nagamo. Correva con il sorriso sul volto in quel paese dove aveva subito ogni genere di ingiustizie, senza serbare rancore. Aveva un ultimo desiderio ma, al contrario di tutti gli altri, questo non fu mai esaudito. Voleva incontrare Watanabe e tendere anche a lui la mano, per chiudere definitivamente il cerchio del male. Il caporale, però, fuggì. Saturo del suo odio, si rivelò incapace di presentarsi a quell’appuntamento con il passato.

Alice Figini
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