Azzurra

Azzurra

Azzurra (© Y.C. Costa Smeralda)

 

La barca che fece strambare l’Italia

Nel 2013, proprio mentre nelle acque di San Francisco si combattevano per le selezioni della Coppa America avveniristici catamarani dalle immense rande alari a dalle forme più simili ad astronavi che a barche, da un capannone di Porto Cervo, dove era restata abbandonata per anni, è stata tirata fuori una barca a vela che aveva fatto strambare l’Italia nel 1983. Azzurra, restaurata e festeggiata, compiva i suoi trent’anni. Da alcuni anni un’altra Azzurra ne aveva preso il posto in gran parte delle regate internazionali, ma quella barca, un 12 metri stazza internazionale, era un pezzo di storia dell’Italia in Coppa America. Prima del Moro di Venezia di Raul Gardini e di Luna Rossa di Prada Azzurra aveva aperto un mondo e segnato un’epoca.

L’Italia si avvicina alla Coppa

Agnelli ci aveva già pensato nel 1962. Voleva lanciare la Millecento negli USA, e quale vetrina migliore della competizione velica più importante del mondo. Nella Coppa America dal 1851 si scontravano uomini, barche, tecnologie e campagne di marketing aggressive. Era un match race, un duello quasi di tipo medievale in cui ci si scontrava uno contro uno, come cavalieri in armatura, per l’onore del proprio Paese e per l’interesse dei propri lord (armatori) e dei loro castelli (gli Yacht Club).  La Coppa America aveva già portato fortuna a Thomas Lipton con il suo tè e al barone Marcel Bich con le sue biro, a Ted Turner per le sue televisioni e a Alan Paker per i suoi giornali.  Ma in quegli anni la sfida era da sempre un affare privato tra l’America che la vecchia Brocca aveva vinto alla prima regata a Cows nel 1851 e l’Inghilterra che voleva, ma senza successo, riportarla a casa. Il seme dell’idea tuttavia era stato piantato.

Azzurra vista dall'alto

Azzurra vista dall’alto

 

Quello che era impensabile negli anni Sessanta diventò più concreto negli Ottanta. I dodici metri stazza internazionale, le barche con cui si regatava dal dopoguerra erano una classe diffusa con cui anche i progettisti nostrani potevano confrontarsi. Inoltre la Coppa non era più un affare privato tra americani e inglesi, ma era diventato un grande evento con selezioni non solo tra i difensori ma anche tra gli sfidanti (dall’edizione del 1970 a sfidare i detentori della coppa ci sono più club che regatano tra loro per scegliere chi avrà l’onore di combattere per la Coppa). Un circo mediatico di vaste proporzioni dentro il quale la visibilità è assicurata. I velisti Italiani, che fino ad allora avevano visto ben pochi onori oltre alle medaglie olimpiche di Agostino Straulino sulla Star, cominciavano a farsi notare anche in importanti appuntamenti internazionali. Era tempo di tentare.

La Costa Smeralda lancia la sfida

Nel marzo 1981 la sfida italiana alla Vecchia Brocca partì. Famosa la frase con cui il patron della FIAT, l’Avvocato Agnelli, sponsor principale dell’evento, congedò l’appena nominato lo skipper di Azzurra, Cino Ricci: «Mi raccomando, non andiamo a fare la figura dei cioccolatini». Ma se pure non erano partiti per vincere come invece fu per il Moro di Venezia nel 1992 o per Luna Rossa dal 2000 fino all’ultima edizione del 2013, i ragazzi della prima sfida italiana volevano fare una buona figura. E la fecero. Al di sopra delle aspettative di tutti.

Fu lo Yacht Club Costa Smeralda a lanciare la sfida. Negli anni Ottanta il sogno del ricco principe arabo Karim al-Husainy Aga Khan  era già una fruttuosa e famosa realtà con venti anni di vita alle spalle. Il principe avevo preso uno dei luoghi più belli e selvaggi del Mediterraneo e ne aveva fatto il cuore pulsante del jet set, aveva costruito dal nulla un finto villaggio “di pescatori” fatto in realtà di ville di lusso. Era ormai tempo di far conoscere la Sardegna ai ricchi turisti americani. Lo Yacht Club Costa Smeralda di Porto Cervo era nato nel 1967 e nel 1972 aveva già organizzato le sue prime regate internazionali diventando in breve uno dei più importanti promotori della vela agonistica in Italia. I venti delle Bocche e la bellezza delle acque avevano fatto da subito apprezzare il campo di regata, attirando partecipanti da tutto il Mediterraneo. Perché non tentare con l’altra parte dell’Atlantico?

Gianni Agnelli e l'Aga Khan

Gianni Agnelli e l’Aga Khan

 

Gianni Agnelli e il principe Karim riuscirono a raccogliere attorno all’idea dell’Italia in Coppa America un bel numero di sponsor: diciassette aziende, dall’IVECO all’Alitalia, dalla San Pellegrino al Banco di Roma, dalla Barilla alla Cinzano. Per Cino Ricci cominciò il duro lavoro della selezione dei velisti e degli allenamenti. Il dodici metri stazza internazionale non era una barca facile da portare, imponeva un sincronismo perfetto nell’equipaggio (Conner lo aveva capito e allenava i suoi trecento giorni l’anno). Ci volevano undici uomini capaci di lavorare insieme alla perfezione, senza sbavature, senza attriti e con una sola testa. Vincere.

Allora i regolamenti erano rigidi: le barche sfidanti dovevano essere realizzate nel Paese d’origine. Tutto, dall’equipaggio alle materie prime doveva essere made in Italy. Lo studio Vallicelli progetta e realizza il suo 12 metri stazza internazionale, Azzurra, varata il 19 luglio 1982, a Pesaro. La barca era bella, aveva un nome splendido e portava con sé un sogno. Il dado era tratto.

Oggi, sia a terra sia a bordo, la Coppa America è appannaggio di professionisti, spesso molto ben pagati, il meglio che offre il mercato internazionale. Allora le cose erano diverse. il professionismo era di là da venire, la vela sportiva era fatta da dilettanti, la Coppa America di Azzurra schierava ragazzi appassionati, determinati, infaticabili e… non pagati.

Incredibilmente in molti, moltissimi avevano risposto di sì e avevano lavorato: oltre novecento ore in mare. I timonieri in lizza erano due, Flavio Scala, gardesano, campione della classe Star, più maturo e posato e un giovane, aggressivo, biondo e da un decennio campione indiscusso della classe Finn: Mauro Pelaschier. Azzurra fu “sua” solo tre giorni prima dell’inizio delle regate tra gli sfidanti che da quell’anno furono battezzate Louis Vuitton Cup.

La Louis Vuitton Cup

Sette Yacht Club in rappresentanza di cinque nazioni avevano lanciato contemporaneamente la sfida alla XXV edizione della Coppa America. Era stato studiato così un formato di regata che prevedeva gironi (i Round Robin) in cui, a due a due, gli sfidanti si scontravano, accumulando punti per poter arrivare a definire quale avrebbe potuto affrontare il Defender.

Louis Vuitton, il colosso della moda francese, si fece avanti diventando lo sponsor ufficiale di questa manifestazione che ormai aveva quasi altrettanta visibilità internazionale della stessa America’s Cup. Il più bravo degli sfidanti, uscendo vincitore da questa estenuante selezione, oltre al diritto di gettare il guanto per conquistare la Vecchia Brocca (così Lipton aveva soprannominato la Coppa America nel 1920), si sarebbe aggiudicato la Louis Vuitton Cup, un bel trofeo d’argento dal moderno design.

CIno Ricci

CIno Ricci

 

Tra gli sfidanti c’erano tre barche australiane: Australia II di Aland Bond, Advance di Syd Fisher e Challenge Twelve. C’è una barca inglese, Victory 83, una canadese Canada e una francese, France 3. Il 18 giugno 1983 iniziarono le selezioni. Nessuno sulle prime fece una grande attenzione alla matricola italiana, ma Azzurra vinceva. Vinse ventiquattro regate su quarantanove: superò i due scafi australiani meno quotati e umiliò i francesi, molto più avanti degli italiani nei pronostici e con ben cinque partecipazioni alle spalle. Ebbe persino la fortuna di vincere una volta Australia II (che poi incerà addirittura la Coppa America) e nelle semifinali non riuscì a battere Victory per un soffio.

A quel punto la barca di Ricci e Pelaschier aveva già fatto “strambare” l’Italia. La RAI seguiva le regate, gli sponsor erano al settimo cielo. Azzurra stava diventando il nome di bambine, negozi e pizzerie.

Nella regata per le semifinali Pelaschier concentratissimo e determinato riuscì a superare gli inglesi all’ultima boa. Sembrava fatta, Ma a poche centinaia di metri dalla linea d’arrivo ad Azzurra si ruppe lo strallo di poppa. La barca inglese passò il turno per poi venire sconfitta nella finale della Louis Vuitton Cup da Australia II per quattro a zero. «Sono soddisfatto», dichiarò un sorridente Cino Ricci alla TV. «Non mi aspettavo nulla di più e niente di meno. Il terzo posto è buono. Buonissimo. Certo all’inizio mi aspettavo di meno, ma poi si sa, l’appetito vien mangiando…».

Gli eroi di Azzurra

Al ritorno i ragazzi di Azzurra furono accolti da eroi. Fu un’ubriacatura di successo, fama, aspettative.

«Quando il DC 10 dell’Alitalia ci depositò in Sardegna direttamente da Boston alla fine di agosto tutto cambiò», ricorda Pelaschier, con un pizzico di amarezza. «Ho realizzato di essere stato in Coppa America quando hanno cominciato ad assillarmi i giornalisti quasi fossi una star. Non ho mai capito perché si ostinassero a raccontare di noi invece che delle regate», aggiunge polemico. «Eravamo partiti tutti uguali e al ritorno non lo eravamo più, tutti i riflettori erano puntati su di me e su Ricci. E fummo noi a cominciare a straorzare»  (da N. Salvatori, Coppa America, Felici Editore).

Mauro Pelaschier

Mauro Pelaschier

 

Ma l’intero Paese era cambiato con loro: l’Italia aveva per la prima volta seguito uno sport da ricchi, imparato o storpiato termini nautici, discusso al bar di virate e strambate, di spinnaker e di tattiche di partenza. Ricci e Pelaschier aggiungeranno ai loro straordinari palmarès velici tanti altri trofei e partecipazioni, ma ancora oggi, trent’anni dopo, sono e restano “quelli di Azzurra”, padri del sogno italiano di andare con il vento.

La XXV edizione della Coppa

Proprio nell’anno di Azzurra, il 1983 la Coppa America virò di bordo. Dopo centotrentadue anni di vento a favore la fortuna girò. Gli australiani alla loro quarta presenza da sfidanti ce la fecero. Strapparono la Coppa dalla teca del New York Yacht Club e la portano dall’altra parte del mondo, nel Royal Perth Yacht Club. Australia II aveva vinto le selezioni della Louis Vuitton portandosi dietro una scia di polemiche e un segreto: quella della efficacia (e della correttezza) della sua misteriosa chiglia con due piccole ali applicate alla opera morta.

Fece la differenza? Nessuno può dirlo per certo, sicuramente a livello psicologico esacerbò gli animi e tolse concentrazione alla barca americana, Liberty con al timone l’asso Dennis Conner.

Ali o non ali Dennis Conner all’inizio non si smentì. Ma sul 3 a 1 (si gareggiava al meglio delle sette regate) le cose cominciarono ad andare storte. Australia era più veloce e il suo equipaggio aveva una gran voglia di vincere. Come era successo ad America 132 anni prima era la barca giusta, al posto giusto, con gli uomini giusti. Il suo recupero fu spettacolare. Il giorno dell’epica disfida, il 26 settembre 1983 le due barche erano 3 a 3. Sull’acqua quel giorno si giocava tutto: il trofeo più antico della storia della vela, l’orgoglio americano, il mito dell’invincibilità dei difensori. Fu la regata del secolo.

In una competizione dove scorrono fiumi di soldi, si provano tutte le tecnologie a disposizione, si impiegano i velisti migliori e anche i migliori avvocati alla fine l’unico elemento che alla fine contò fu il più imponderabile: il vento. Proprio come succede in ogni regata di circolo. Un buco di vento favorì gli australiani. Dennis Conner fu il primo skipper americano ad aver perso la coppa. Dall’altra parte del mondo un intero continente fece festa. L’Australia, che ai tempi prima sfida per la Coppa delle Cento Ghinee (1851) era ancora una colonia inglese dove sua maestà Britannica scaricava gli indesiderati e i criminali, si era presa la sua rivincita.

Nicoletta Salvatori © Riproduzione Riservata

 

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