Roland Ratzenberger
Il pilota dimenticato
Complice il nome impronunciabile, viene ricordato semplicemente come “l’altro”. Nominato in occasione di una ricorrenza e a quella strettamente associato, quanto accadde prima non serve a spiegare la tragedia e quanto venne dopo non fa alcuna differenza.
Era un pilota, ma le circostanze l’hanno tramutato in un’ombra, un presagio di sventura. Nemmeno con la morte ricevette la dignità che meritava; il suo funerale si svolse in sordina parallelamente a quello del campionissimo. Una cerimonia intima e raccolta in cui Niki Lauda, il suo eroe di sempre, pronunciò poche parole di commiato in onore della nazione che ad entrambi aveva dato i natali: l’Austria. Un fazzoletto di terra in confronto al Brasile che in quello stesso momento viveva il lutto nazionale per Ayrton Senna.
Non ci fu tempo per concentrarsi sul dramma personale di Roland Ratzenberger, solo per interpretarlo: e agli occhi di tutti apparve come un campanello d’allarme rimasto inascoltato. In realtà si trattò di una morte astutamente rimandata perché lo spettacolo del circus potesse continuare. Un decesso proclamato con una conferma tardiva, lontana dal circuito, in modo di non intralciare il percorso del vincitore. Non doveva spegnersi in pista, altrimenti l’autodromo sarebbe stato posto sotto sequestro e il Gran Premio tanto atteso rinviato.
Le condizioni si rivelarono subito critiche: frattura alla base cranica, Roland non sarebbe sopravvissuto. In extremis un massaggio cardiaco riuscì a rianimarlo giusto per il tempo del trasporto in ospedale. Una mossa che apparve ancora più subdola alla luce dei fatti, quando il sole del giorno seguente sorse per metterli sullo stesso piano, il vincitore di sempre e il vinto, tutti e due condannati a fermarsi prima del traguardo. Una comunione di destini che sembrò annunciata.
Trentaquattro anni entrambi, la stessa passione da inseguire per la vita; Senna era il primo della classe e Ratzenberger l’ultimo arrivato.
Il mondo lo pianse un solo giorno.
La passione per i motori
Testardo, soprattutto. Roland non smise mai di credere in un sogno che alimentò con il sudore della fronte, i risparmi raccolti tramite lavoretti improvvisati e una dedizione d’acciaio, così solida da non abbandonarlo mai. A tre anni già diceva che da grande avrebbe fatto il pilota. Iniziò facendo tutto da solo, da bambino costruiva delle vetture a spinta fantasticando sui suoi traguardi futuri.
Respirava l’aria del circuito di Salzburgring, poco lontano da casa, il coraggio di quei piloti presto gli entrò nel sangue: il rischio, la velocità incontrollata l’affascinavano quanto la messa a punto tecnica dei veicoli.
Crescendo non tradì mai quell’obbiettivo. Quando venne il momento di indirizzare i suoi studi scelse una scuola che gli permettesse di studiare progettazione delle auto e, per muovere i primi passi nel settore, si iscrisse ad un club di kart dove imparò a sperimentare sul campo. Sulla sua passione gravava solo il peso di non essere nato ricco; la sua famiglia, povera di mezzi, non poteva permettersi quelle spese spropositate. Per non chiedere soldi ai genitori, ancora ragazzino, iniziò a lavorare in una panetteria. I ritmi di lavoro serrati lo stancavano, a diciassette anni Roland decise di abbandonare gli studi e iscriversi al servizio militare. L’ultimo dovere prima di dedicarsi al suo sogno di sempre. In perfetta linea con quel suo ingenuo approccio alla vita le sue idee restavano grandiose, riscontrando poca aderenza con la realtà.
Giovanissimo, inseguiva la strada della passione e dell’indipendenza; per conquistare entrambe le mete pensò bene di ottenere per prima cosa un’auto tutta sua.
Accumulati i sudati risparmi comprò un maggiolone giallo, ma l’ardito acquisto minacciava di lasciarlo sul lastrico così Ratzenberger si trovò costretto dalla necessità a dividere costi e guida con l’amico Gerald Lachmayer. Intanto il 4 settembre 1979 esordiva nella sua prima gara da pilota al volante di una Formula 1600 Ford presa a noleggio. Il risultato fu deludente, ma ormai la strada era tracciata e Roland deciso a dedicarsi anima e corpo all’impresa. Lavorò come meccanico e istruttore di guida pagandosi con il suo stipendio la possibilità di gareggiare. Come collaudatore solcò anche le piste dei circuiti italiani dove tutti lo conoscevano con un nomignolo strano, che si rivelò essere la traduzione del suo difficile cognome: Topo di montagna. Oltre a correre si occupava personalmente della messa a punto tecnica della sua vettura, svolgendo due mansioni in una senza fatica. Ormai aveva un chiodo fisso nella testa da tempo immemorabile, sacrificarsi in nome della sua giusta causa non gli costava nulla.
Il padre Rudolf, ex dirigente pensionistico, dirà di non essere mai stato del tutto a favore della carriera del figlio, ma di non averlo mai ostacolato. Dovette presto arrendersi di fronte all’evidenza, quella fissa per le macchine non c’era modo di fargliela dimenticare: «Provateci voi a far cambiare idea ad un ragazzo che sin da quando aveva quattro anni vi ripete che farà il pilota.» Lui quella smania della velocità non la capiva, ma si rendeva conto che quando correva Roland era felice. E questo, si disse, bastava.
I primi successi
Nel 1985, in Gran Bretagna, Ratzenberger arrivò secondo nel prestigioso Brands Hatch Formula Ford Festival, una sorta di campionato del mondo delle specialità affrontato al volante di piccole monoposto. L’anno successivo la vittoria fu solo sua: salì sull’Olimpo tagliando il traguardo in testa agli oltre centoventisei concorrenti. Molti dei precedenti vincitori del Festival approdarono in Formula 1, per lui non giunse ancora quel momento. Nel frattempo ottenne buoni piazzamenti nella Formula 3 inglese, corse per quattro volte consecutive nella gara di LeMans, competizione in cui brillò nel 1993, celebrando la vittoria in C2 nel team con Mauro Martini e Naoki Nagasaka. La vera fortuna Ratzenberger dovette andarsela a cercare, precisamente nel paese del Sol Levante. In Giappone riuscì finalmente ad affermarsi e ottenere la fama che ancora l’Europa non gli riconosceva. Guadagnò il primo stipendio serio da pilota collezionando successi nella Formula Nippon e decise di tornare nel continente da vincitore. Qui giunse il contatto sperato: la Formula 1 gli proponeva il suo primo contratto con il team Jordan, una squadra appena nata, che per finanziarsi pretendeva un budget spropositato. Roland tutti quei soldi non li aveva, il suo sponsor si era appena ritirato, malvolentieri rifiutò l’offerta. Non sapeva che la grande occasione si sarebbe ripresentata a neppure un anno di distanza.
L’approdo in Formula 1
L’amarezza per quel contratto mancato non durò a lungo, con l’aiuto economico della manager Barbara F. Belhau, Roland venne ingaggiato dalla scuderia Simtek realizzando un sogno. Aveva trovato i soldi appena per cinque gare, le prospettive non erano tra le più rosee, ma Ratzenberger sentiva di vivere il suo momento di gloria. Si era pagato l’ingresso in Formula 1 a costo di sacrifici, che importava se giungeva sul circuito iridato in un’età in cui allora molti si ritiravano. A volte, è vero, un poco gli costava ammettere la data anagrafica 1960 e gli scappava un due di aggiunta, ma giusto così perché non è mai piacevole sembrare troppo vecchio in mezzo ai novellini. A quell’età Senna era già un campione affermato; il divario era notevole fra il mito che poteva contare dieci anni nella Grande Formula e lui che, invece, c’era appena arrivato dopo una gavetta che a riguardarla appariva infinita.
Proprio come Roland, la Simtek era alla sua prima esperienza in Formula 1, fino ad allora aveva prodotto solo macchine da cucire. Non poté offrirgli altro che una vettura acerba, lenta, difficile da controllare, destinata alle ultime file della griglia. Con la sua esperienza da meccanico Ratzenberger capì subito che si trattava di una “macchinaccia,” ma ai suoi occhi non faceva differenza. II bambino di Salisburgo era diventato un pilota da Gran Premio, presto sarebbe comparso anche il suo nome nella Guida Marlboro, dove venivano puntualmente registrate le statistiche di F1. Dopo quattordici anni e ben centottantasei gare alle spalle finalmente arrivava il suo momento. Riuscì a qualificarsi in quella che era stata la sua terra dell’oro, il Giappone, concludendo la gara con un’undicesima posizione che gli valse un biglietto per l’Italia.
A Imola riservarono alla sua scuderia l’ultimo box, proprio accanto al cancello che portava al paddock e all’infermeria. Una posizione scomoda, ma Roland non se ne curava, era troppo orgoglioso del suo casco nuovo e della tuta bianca e rossa, così fiammante. «Finora mi sono dovuto comprare tutto,» confessò Ratzenberger in un’intervista «appena arrivato in F.1 mi hanno dato tutto gratis. Si vede che è un’altra categoria». A preoccuparlo era solo il limite imposto da quelle cinque gare, desiderava correrne di più, per questo si affannava alla ricerca di sponsor, non voleva che il suo grande sogno finisse troppo presto. Assaporata tanta felicità lo assaliva un unico sgomento: non permettere a quell’emozione così grande, assoluta di svanire.
L’incidente
Quel 30 aprile era una giornata di sole, un tumulto di sorrisi e bandierine rosse da sventolare. A Imola si svolgevano le qualificazioni per il Gran Premio di San Marino, l’aria era elettrica nell’attesa del giorno successivo. Anche Roland sognava quel traguardo, nel suo cuore vibrava la stessa attesa impaziente, si trattava del suo primo Gran Premio e non voleva lasciarselo sfuggire.
Forse fu questo desiderio incontrollabile a bruciare la prudenza. Durante le prove Ratzenberger uscì di pista alla chicane delle Acque Minerali senza nessuna conseguenza, un breve controllo non rivelò problemi e lui decise di proseguire anziché rientrare al box per gli accertamenti dovuti. Le lancette del cronometro gli ticchettavano in testa, doveva qualificarsi, non poteva permettersi di perdere tempo. Concluso il giro ne iniziò un altro, ignaro di aver appena danneggiato un supporto dell’ala anteriore che presto cedette infilandosi fra le ruote e rendendo impossibile il controllo della vettura. Ad una velocità di 315 chilometri orari c’era ben poco da fare, difficile sterzare, di frenare neanche a parlarne. La Simtek numero 32 si tramutò in una scheggia impazzita, andò dritta, non svoltò, schiantandosi contro il muretto della curva intitolata a Gilles Villeneuve, un altro pilota tradito da uno scherzo infame del destino.
Tre ruote saltarono schizzando in ogni direzione, restò solo la Simtek blu rimbalzata in pista a girare come una trottola. Il rumore a pieni giri del motore e l’impatto fecero calare un silenzio oscuro tutt’attorno: gli spettatori assistettero impotenti alle acrobazie spettacolari dell’auto che pareva non fermarsi mai come un cavallo imbizzarrito. Poi le ruote rimaste smisero di girare, quel movimento convulso cessò. Rimase solo quella vettura irriconoscibile ferma in un silenzio attonito. Dall’abitacolo distrutto spuntava il casco rosso e bianco di Roland. Ciondolava piano avanti e indietro come lo stelo di un fiore reciso.
In seguito all’incidente di Ratzenberger fu sviluppato il dispositivo Hans (Head and Neck Support) una protezione in fibra di carbonio oggi indossata da tutti i piloti. Avvolge completamente il collo, ancorandolo al corpo del pilota e non alla vettura. In caso di urto l’energia dell’impatto viene trasferita alle spalle e al torace, anatomicamente più solidi e in grado di reggere il colpo.
Accorgimenti tecnici tardivi che furono sviluppati in seguito a quel weekend di dolore. Più controlli, più sicurezza per ridimensionare un lutto incomprensibile, per sventare la colpa e dare un senso all’accaduto. Soltanto il sacrificio di Senna avviò un cambiamento significativo nella soluzione ai problemi di sicurezza, ma quel momento doveva ancora venire. Tutto questo accadde il giorno prima, il 30 aprile 1994.
In soli cinquantatré giorni si compì e sfumò un sogno: tanto durò la carriera di Roland Ratzenberger in Formula 1. Il 1 maggio sarebbe stato il momento atteso da una vita, ma per lui non arrivò mai.
A pochi chilometri dalla griglia di partenza si profilava lo stop definitivo per un ragazzo, un pilota, che amava correre.
Alice Figini
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Articolo strepitoso.
Grazie Alice Figini.
Flavio