Davide Uboldi

Davide Uboldi

Davide Uboldi

 

Il traguardo del millennio

 

I trofei sono in ogni angolo, talmente tanti che non si possono contare. Coppe di ogni dimensione e forma, così diverse fra loro da far pensare ad articoli in vendita fra cui un acquirente indeciso può indugiare a lungo prima di lanciarsi nella scelta. Alcune sono alte quanto una persona e altrettanto massicce, altre a prima vista paiono piccine, ma uno sguardo più attento rivela subito che il loro valore non è inferiore. Non si tratta di semplici sculture belle a vedersi né di premi di consolazione, ciascuno di questi trofei segna un podio importante. Si sono succeduti uno dopo l’altro come il naturale conseguimento di un percorso già destinato al trionfo; vent’anni di corse siglati da una sfilza inarrestabile di vittorie e non ancora conclusi, anzi, già avviati verso il traguardo del prossimo decennio. Le targhe di riconoscimento riportano un solo nome, il suo: Davide Uboldi, ripetuto nelle grafie più svariate a svelare l’identità di un campione, l’intestatario indiscusso di ciascun premio. Fra il mondo della pista e quello dei motori di distanza ce n’è poca: qui sicuramente ancora meno, le automobili in esposizione fiancheggiano degnamente i titoli vinti, senza lasciare margine di dubbio su quale sia la merce in vendita.

La concessionaria Fiat Autoalberta si è tramutata nella vetrina esclusiva del suo proprietario, ne diffonde l’immagine vincente al di fuori del cosmo dei circuiti dove Uboldi è unanimemente riconosciuto come il pilota comasco. In una teca di vetro sono conservati otto caschi: uno in fila all’altro segnano l’evoluzione della sua carriera sportiva. Protagonisti in prima linea, possiedono lo stesso valore dello scudo per il cavaliere, formano un tutt’uno con la tenuta da corsa per accompagnare il loro pilota sulla griglia di partenza di ogni competizione. Costituiscono una protezione irrinunciabile ed il punto di vista costante; una volta calata la visiera gli occhi si restringono in quella fessura sottile che permette di guardare soltanto avanti. Attraverso lo schermo di quei caschi Davide Uboldi ha visto arrivare, sempre più vicino, il traguardo di tutte le gare vissute.

«Questi caschi sono come un marchio. Ricordano più di ogni altra cosa la mia evoluzione nel mondo delle piste», racconta Davide a Storie di Sport «soprattutto i cambiamenti che ho affrontato nel corso degli anni. Uno ad uno scandiscono le tappe della mia carriera, i cambi di categoria e di vettura. I trofei celebrano le vittorie, qui invece è racchiuso il cammino affrontato, la lotta contro il cronometro per arrivarci».

Uboldi in gara

Uboldi in gara (@Aci Sport Italia)

 

Sei cresciuto in un’auto-concessionaria, respirando l’odore delle gomme e della benzina. Praticamente si può dire che la passione per i motori è derivata come un’ovvia conseguenza?

«Invece no, per niente! Quand’ero bambino per me non esisteva altro sport al di fuori del calcio. Ho iniziato a giocare a sei anni ed ero assolutamente convinto di diventare un calciatore. Non mi era mai passato per le mente, per nessun motivo, di fare il pilota. Certo, ho sempre avuto affinità con le automobili. Fin da piccolo guidavo le auto della concessionaria; adesso sembra una storiella buffa da raccontare. Venivano i clienti e credevano che le macchine si muovessero da sole, perché io ero talmente basso che neanche mi si vedeva al posto di guida. In famiglia è sempre stato mio padre, Gaudenzio, il vero appassionato di circuiti e motori. Per quanto mi riguarda pensavo solo al calcio». 

Allora com’è avvenuta la conversione dal campo alla pista?

«A causa di una delusione nel calcio quando avevo vent’anni. Semplicemente mi sono accorto che quello non era più il mio mondo, varie discussioni all’interno della squadra mi fecero perdere la passione con cui avevo iniziato. Ho detto basta e così è stato. Se dovessi guardarmi indietro rimpiango solo di non essermi avvicinato prima alle auto da corsa, ma si sa che con i se e i forse si risolve poco. Questo doveva essere un passaggio obbligato, ora la penso così. A volte le cose accadono perché devono accadere, a me è capitato. Entrare nei circuiti non è stata una scelta, piuttosto un’occasione che mi è venuta incontro. In quel periodo degli amici mi proposero di provare una macchina da corsa, da lì è iniziato tutto. Ho capito di essere bravo, capace, questa sensazione mi riempiva di orgoglio e, insomma, da calciatore mi sono reinventato come pilota».

La vettura Osella di Davide

La vettura Osella di Davide (@Aci Sport Italia)

 

Una scelta che ti ha dato la fama di vincente. Cosa ricordi dei tuoi esordi nel mondo delle corse?

«Ho iniziato a gareggiare nel 1994, partendo dalla prima categoria, la Formula Junior. Il mio primo anno di gare è stato lo stesso della morte di Senna, ma la coincidenza non mi ha scoraggiato. Fu a suo tempo una grande tragedia che colpì tutti molto profondamente, appassionati e non. Per quanto mi riguarda, quella notizia mi toccò in modo particolare, stimavo da sempre Senna eppure per tutta la mia infanzia e adolescenza avevo avuto la testa lontana dai circuiti di gara, in quel momento invece mi accorsi di esserci dentro. Fu una sensazione forte, ma di certo non mi spinse ad abbandonare la pista. Stavo già raccogliendo le mie soddisfazioni, l’anno dopo conquistai il mio primo titolo di campionato».

Due anni dopo c’è stato il passaggio in una categoria importante: la Formula 3. Si tratta di una meta piuttosto ambita dai piloti perché costituisce la prerogativa essenziale per l’approdo in Formula Uno…

«Già, dopo la Formula 3 seguirebbe la Formula Uno come passaggio obbligato, ma per arrivare a quei livelli la bravura e il talento non sono sufficienti, servono anche molti soldi e sponsor importanti. Ho gareggiato in Formula 3 per quattro anni, spinto dal gusto di vincere e fare una buona gara. Per me sono stati traguardi importanti, mi sono fatto le ossa diventando un pilota più esperto. Nel 2000 ho vinto il titolo che mi ha consacrato come primo campione italiano del millennio, mentirei se dicessi di non andarne orgoglioso».

C’è un podio di quel periodo che ti è rimasto impresso in modo particolare?

«La mia prima volta in gara sul circuito di Montecarlo, nel 1997. È fra i circuiti più importanti e il semplice fatto di trovarmi lì mi dava una scarica di adrenalina fortissima. Ero al mio debutto assoluto con la Formula 3, ripensandoci adesso mi rivedo come un novellino, ancora inesperto, ma l’emozione che provai me la ricordo bene. È uno di quei casi in cui davvero si può dire che la corsa alla vittoria contò più del risultato».

I risultati comunque non ti sono mancati, negli anni ne hai fatta molta di strada. Avevi già conquistato dei titoli importanti, guadagnato la nomina di campione, eppure non ti sei fermato. Hai continuato a vincere in un’altra categoria, dimostrando che un pilota non si giudica dalla vettura. Com’è nata la decisione di passare al Campionato Prototipi?

«Veramente avevo deciso di smettere di correre, nel 2001. Dopo la Formula 3 avevo sperimentato la Formula 3000, in quel momento mi sentivo appagato dei risultati e decisi di prendermi una pausa. Pensavo di supportare i piloti, trasferirmi da buon veterano nel backstage della gara, ma questa idea non durò a lungo. Mi mancava troppo il brivido della corsa contro la velocità, così ho staccato il casco dal chiodo e ho deciso di lanciarmi in un’avventura con il Campionato Prototipi che per me costituiva una novità». 

Spiegaci come si svolge il Campionato Prototipi. Quali sono le peculiarità delle vetture in gara in questo genere di competizione?

«L’ho scelto per una ragione precisa: è il campionato più agguerrito. Avevo provato anche il Gran Turismo, ma posso garantire che non dà la stessa scarica di adrenalina. Nei prototipi la battaglia per un titolo è all’ultimo sangue. Il regolamento è diverso rispetto a quello delle Formule, meno rigido, in queste gare i tamponamenti sono permessi e si verificano di continuo. C’è un ingrediente in più ed è il rischio. La composizione stessa della vettura da corsa è diversa: si tratta di una monoposto con le ruote coperte. Non dico che siano auto più difficili da guidare rispetto alle Formule, ma di certo sono più pericolose».

Il podio da vincitore

Il podio da vincitore (@Aci Sport Italia)

 

Il tuo palmarés conta sei titoli italiani, di cui ben quattro vinti in questo campionato. Come pilota ti sei affermato in diverse competizioni, ma nella categoria prototipi sei diventato il campione indiscusso. Oltre ad essere sprezzante del rischio e amante della velocità, qual è la qualità necessaria per vincere?

«Mi manca un solo titolo per diventare campione assoluto in questa categoria, naturalmente si tratta del mio prossimo obbiettivo. Il problema di queste gare è che non si concludono al traguardo, ma spesso si prolungano a causa di cavilli giudiziari. La qualità necessaria per vincere è la pazienza. Io ho dovuto aspettare quattro anni per vedermi riconosciuto un titolo del 2010. Uno dei miei rivali storici, Ivan Bellarosa, aveva fatto ricorso alla Federazione aggrappandosi al pretesto di un’irregolarità nella mia vettura, anche se in realtà si trattava di un’invenzione meschina per strapparmi il titolo. La nostra è sempre stata una rivalità molto accesa, considerando che abbiamo anche la stessa età e, purtroppo per lui, io ho sempre vinto lasciandogli la seconda posizione. A causa di questo ricorso il verdetto continuava a slittare, sapevo che la vittoria era mia, ma l’attesa della proclamazione ufficiale è stata davvero snervante».

Anche quest’anno la disputa per il titolo non si è conclusa all’ultima bandiera scacchi. Clamorosa la squalifica del vincitore Jacopo Faccioni a fine gara. È stata riscontrata un’irregolarità nella sua vettura e tu hai ottenuto il gradino più alto del podio. I vostri duelli in pista sono sempre stati molto combattuti, questa è una vittoria che ha il sapore di un riscatto?

«L’anno scorso posso dire di aver regalato il titolo a Faccioni, per me è stato un colpo durissimo considerando che avevo la vittoria in pugno. Ero primo in gara quando sarebbe stato sufficiente arrivare sesto per conquistare il titolo del campionato. Al secondo giro sono stato tamponato da un pilota, Fabio Francia, che oltretutto non si batteva nemmeno per il podio. E’ stata una mossa davvero meschina, ancora adesso se ci ripenso mi prende il nervoso, Francia non ha rispettato il suo ruolo. Con quel tamponamento mi ha forato una gomma buttandomi fuori dalla gara. Con me fuori gioco è stato facile per Faccioni conquistare il titolo, ma quest’anno toccava a me strappargli una vittoria irregolare. La faccenda in realtà non è ancora conclusa, naturalmente Faccioni ha presentato ricorso aggrappandosi ai soliti cavilli formali. Da parte mia mi sento fiducioso, questo campionato me lo sono guadagnato onestamente e non ci saranno problemi a verificarlo. Tanto ormai ci sono abituato, le gare dei prototipi si concludono spesso così fra polemiche e reclami». 

Vent’anni di corse e non hai alcuna intenzione di smettere, cosa ti tiene legato alla pista?

«Mille ragioni. Quando vado in pista non penso a niente, mi sento proiettato in un’altra dimensione. Dico sempre che si tratta di un micro-macro cosmo: micro perché una gara non dura a lungo e macro per l’importanza che assume. Così è il mondo delle corse e più passano gli anni più il piacere di correre cresce. In particolar modo mi dà soddisfazione aprire la gara correndo con il numero uno, come vincitore dell’anno precedente. Finché percepisco questa sensazione, finché dura questa euforia, non ci penso proprio a mollare».

E non ti preoccupa l’idea di competere con i piloti più giovani?

«Il mio obbiettivo è essere sempre il migliore e l’esperienza, posso assicurare, aiuta. Non temo il confronto, piuttosto sono gli avversari ad aver paura di me. Ho già dimostrato di poter battere piloti di quindici anni più giovani, anche queste son soddisfazioni».

Un campione che ha già vinto tanto e non teme la competizione con i rivali, come può trovare nuovi stimoli?

«Di traguardi da raggiungere ne ho ancora molti. Il primo della lista è vincere l’ultimo titolo per diventare campione assoluto nella categoria prototipi. Poi sono sempre pronto a mettermi in gioco. Guardando al futuro penso alle 24 ore di Le Mans, una nuova sfida a cui ambisco».

Davide in tenuta da pilota

Davide in tenuta da pilota (@Aci Sport Italia)

 

Per ora ci sono otto caschi allineati nella teca di vetro, degni testimoni dei chilometri percorsi, che sembrano raccontare una storia non ancora conclusa.
Un vero pilota sa di dover volgere lo sguardo sempre avanti dove il traguardo appare ancora lontano. Ad ogni gara si parte come se fosse la prima volta, perché non è la destinazione la prova che affascina, ma il viaggio che si deve affrontare. Le ruote solcano l’asfalto, il piede premuto sull’acceleratore ingaggia la sfida di sempre contro il cronometro. Sentire la velocità fin sotto la pelle, mentre i battiti del cuore aumentano fino all’insostenibile nell’ansia di arrivare, poi quando e dove non si sa. Correre, è questo che conta.

Alice Figini
© Riproduzione Riservata

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