Rubens Barrichello
La dignità del “numero due”
Tifare per Barrichello è sempre stato un rischio folle, una sofferenza votata al martirio, un coraggio che sfiorava l’incoscienza. Un po’ come facevano i buffi avventurieri del film Il soldato di ventura – protagonista Bud Spencer – che, per sbarcare il lunario, cercavano un ingaggio in qualche guerra di frontiera schierandosi con i più deboli. «Che gusto c’è a mettersi dalla parte dei più forti? Sarebbe troppo facile».
Perché Barrichello non è mai stato un “numero uno” e quelle poche volte che ha tagliato il traguardo davanti agli altri lo ha fatto dopo aver sputato sangue per tutta la gara. I suoi undici Gran Premi vinti hanno tutti avuto un sapore bellissimo, quasi romantico.
Il debutto
Romantica – e promettente – sembrava anche l’alba della sua carriera: Rubens Barrichello, detto “Rubinho”, nato a San Paolo il 23 maggio del 1970, debuttò giovanissimo in Formula 1 nel 1993. La sua Jordan era una macchina di scarso livello, ma in molti avevano intravisto in lui un grande talento e la giusta voglia di spaccare il mondo.
Il primo maggio del 1994, però, Ayrton Senna morì durante il Gran Premio di San Marino. L’avvenimento trascinò tutti i brasiliani in un vortice di sconvolgimenti emotivi che, in qualche modo, segnarono il destino del giovane pilota.
Con il grande campione – che aveva più volte espresso parole di affetto e stima verso il giovane Rubens – Barrichello aveva infatti condiviso alcune esperienze. Nell’ambiente, così, qualcuno cominciò a utilizzare nei suoi confronti degli scomodi imperativi: «Barrichello deve essere l’erede di Senna». «Barrichello deve colmare il vuoto». «Barrichello deve diventare un campione». Insomma, «Barrichello deve vincere sempre».
Inutile girarci intorno, Rubens non è riuscito a emulare il suo connazionale. Eppure la sua carriera, spalmata in due decenni di curve e rettilinei, da un punto di vista sportivo ha un grande valore. Tante cose di lui restano impresse: la passione, la voglia di esserci e di combattere nonostante le sconfitte, la capacità di superare anche lazzi, insulti e sberleffi. Imperterrito, ha continuato a guidare e correre, anche quando sbagliava o qualche buontempone gli dava del tassista sfigato, dell’autostoppista o del barbiere. O quando, dopo che la moglie fu costretta a interrompere una gravidanza per un malore, un idiota osò scrivere: «Barrichello ha perso il bambino. Naturale, Barrichello perde sempre!».
Lui, semplicemente, se ne è sempre infischiato. E ha continuato a correre.
Dal 1997 al 1999 Rubens passò alla Stewart dove mise in mostra, nonostante un mezzo non trascendentale, un bagaglio tecnico di grande spessore: stile di guida pulito ed efficace, combattivo in prova e costante in gara.
Per lui una pole position e quattro podi, compreso il prestigioso – e sorprendente – secondo posto nel Gran Premio di Monaco del 1997, disputato sotto una pioggia battente che causò, tra i piloti, una feroce selezione. In quell’occasione, il brasiliano dimostrò una sensibilità da autentico Mago della Pioggia. Almeno sotto questo aspetto Rubens dimostrò di assomigliare al grande Ayrton.
All’alba del secondo millennio arrivò la sua grande occasione col passaggio alla Ferrari nel ruolo di seconda guida. Un traguardo meritato, che comportò tuttavia pressioni e responsabilità non indifferenti. Fu, senza alcun dubbio, il periodo migliore per “Rubinho”, che si confermò fra i grandi del lotto. Nella casa di Maranello il pilota brasiliano dimostrò anche un leale e costruttivo atteggiamento nei confronti della prima guida, Michael Schumacher.
Un ruolo difficile
In quegli anni, infatti, il teutonico collega stravinceva Gran Premi e classifiche mondiali, travolgendo tutto e tutti con insaziabile voracità. In quel periodo il popolo ferrarista non aveva occhi che per il tedesco, relegando Barrichello al ruolo di un anonimo comprimario.
Eppure, nonostante tutto, “Rubinho” non tolse mai il piede dall’acceleratore e, con grinta e tenacia, scrisse comunque pagine memorabili. Nove vittorie, compresa la leggendaria prima volta in Germania nel 2000 (dove era partito diciottesimo), podi a volontà e il fondamentale contributo alla vittoria della casa di Maranello in cinque campionati mondiali per costruttori.
Ma tutto questo non bastò mai a considerarlo un campione degno del rispetto che meritava. Le ingiustizie che subì sono entrate nella leggenda dell’automobilismo. Come quella volta, in Austria nel 2002, che fu costretto da un ordine di scuderia a farsi sorpassare da Schumacher all’ultima curva. Lui obbedì, nonostante avesse la vittoria in pugno. In altre occasioni ci si mise anche la sfortuna: in un Gran Premio del Brasile, davanti alla sua amata gente, due incredibili guai meccanici lo estromisero dalla corsa quando era nettamente in testa.
Barrichello è stato un campione? La questione è controversa. Certamente era uno che sapeva guidare. Dopo il Gran Premio di Gran Bretagna 2003 Niki Lauda e Frank Williams, due che se ne intendevano, dissero che al volante Barrichello era un fenomeno.
Di sicuro è stato un pilota a cui mancò poco per entrare nell’olimpo dei più grandi. Ogni qualvolta che c’era la possibilità di spiccare il volo, qualcosa infatti andava storto e tutto finiva in fumo. Come quella volta, nel 2009 – la stagione dei famigerati diffusori –, quando perse il duello mondiale a favore di Jenson Button alla penultima gara per colpa di una banale foratura.
C’è inoltre un altro aspetto da considerare nella valutazione complessiva della sua comunque notevole carriera: troppe volte, infatti, il pilota di San Paolo si è dovuto adattare a macchine – come la Honda o la Williams – che, per un motivo o per l’altro, non potevano garantirgli prestazioni sufficienti per aspirare alle prime posizioni.
Eppure l’amore per le corse non è mai venuto meno e lottare per un decimo o quindicesimo posto magari lo deludeva, ma di certo non ne mortificava l’abnegazione.
Dopo undici vittorie, sessantotto podi e trecentoventisei Gran Premi disputati, Barrichello ha lasciato il mondo della Formula 1, ma non quello delle corse. Oggi i suoi orizzonti sono per lo più le piste dei circuiti di Formula Indy e Formula Kart.
Barrichello è stato un campione? A ben pensarci la domanda ha poco senso. Ognuno, infatti, può cercare di trovare la risposta che meglio crede. Di sicuro il pilota brasiliano, sempre sorridente e disponibile, è l’unico che non ne ha bisogno.
«Io continuo a correre» ha detto di recente. «Sono nato per questo».
Lucio Iaccarino
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Ottimo articolo. Mi complimento con Lucio Iaccarino per aver saputo cogliere la vera essenza di questo grande campione di simpatia. E complimenti a tutti gli amici del sito: davvero bello e interessante
Ringraziamo a nome di Lucio Iaccarino! La nostra speranza è quella di dare un prodotto sempre migliore e provare a far conoscere gli aspetti più umani di ogni sport (La Redazione di SdS).
Questo pezzo e fantastico e scritto buono. Grazie. Se potete voglio altri così
Grazie… Ci occuperemo presto di altri grandi piloti, e anche di grandi sportivi brasiliani. (La Redazione)