Valeria Pessina

Valeria Pessina

Valeria Pessina

 

La ragazza che arbitra sull’acqua

In quel mondo costituito dall’acqua come elemento primario ed essenziale, lei può dire di esserci nata: per tutta l’infanzia ha assistito a sfide a colpi di remi, fissando le lunghe barche dirette verso un traguardo, ammirando quegli uomini abituati a portare sulle braccia il peso della fatica. Un battesimo ricevuto ancor prima di averne consapevolezza, in grado di segnare come pochi altri riti il cammino di una vita.

Valeria ricorda bene i pomeriggi passati con il naso incollato al vetro che la separava dalla vasca voga dove si svolgevano gli allenamenti dei canottieri, e la certezza che un giorno in quella vasca ci sarebbe stata anche lei: proprio come il suo bisnonno Ambrogio, detto Zin, pluri-campione italiano di canottaggio, nell’ombra del cui mito stava crescendo. Nel grande salone della Canottieri Lario, le foto d’epoca a ricordarne la gloria: simili trofei, si sa, accendono di un fuoco speciale la mente di un bambino.

Il cammino era già tracciato: le prime gare fino all’agonismo, la partecipazione ai Campionati Italiani. Una passione inesauribile da coltivare anche negli anni dell’Università con la Società CUS Milano, poi la decisione di abbandonare l’attività agonistica per l’impossibilità di proseguire gli allenamenti in modo sistematico. Valeria, ormai prossima a una laurea in Economia, si ferma; ma in quell’ambiente si sono insediate le sue radici, conosce da tempo i trionfi, gli ostacoli e gli sforzi che richiede, ed ha imparato ad amarli.

Valeria Pessina

Valeria Pessina

 

Una visione del canottaggio a trecentosessanta gradi, una fortuna che possono vantare in pochi. Il Presidente della Canottieri Lario, Enzo Molteni, se ne rende conto subito e avanza una proposta che rivoluzionerà il rapporto fra Valeria e lo sport: un nuovo ruolo, non più canottiere, ma arbitro.

Un lungo tragitto da percorrere: un esame suddiviso in due stage formativi, due anni di tirocinio in qualità di aspirante giudice arbitro prima di rivestire la carica effettiva che lei definisce come il suo “riscatto sportivo” e racconta con ironia e naturalezza descrivendone pro e contro con un sorriso, rispondendo alle domande senza risparmiarsi mai.

Avevi mai considerato il ruolo dell’arbitro prima di dedicarti a questa attività?

«Sinceramente no, la ritenevo una figura di sfondo che contribuiva alla svolgimento della gara. È un po’ come il tecnico che si trova dietro le quinte e non sul palcoscenico, quando stai gareggiando pensi alla competizione, vedi solo le luci. Quello che conta di più sono i consigli del tuo allenatore, non capisci l’importanza del meccanismo che regge la competizione, è come se fossi solamente tu la parte attiva, invece c’è un’intera unità che collabora per l’esito finale».

Quanto incide l’arbitro nella riuscita di una gara?

«La presenza dell’arbitro è fondamentale e rappresenta una garanzia per i partecipanti. Nell’ambito dell’arbitraggio esistono diverse funzioni che gli ausiliari di volta in volta sono incaricati di svolgere, equamente distribuiti lungo tutto il percorso di gara. Innanzitutto il Giudice di Controllo ai pontili di sbarco, che può essere definito una specie di poliziotto, dato che si occupa di supervisionare le imbarcazioni prima della partenza e di verificare l’identità degli atleti che scendono in acqua; poi entra in gioco il Giudice di Partenza, il cui compito è fare l’appello dei concorrenti, controllare il corretto allineamento delle barche e dare il via. Durante la gara i canottieri sono seguiti direttamente dal Giudice di Percorso in motoscafo, la cui funzione è quella di controllare che le barche non devino il loro percorso. Infine il Giudice di Arrivo, che accerta l’ordine con cui i concorrenti tagliano il traguardo. Tutte queste figure interagiscono tra loro per tutta la durata della competizione, i loro compiti non si esauriscono in una sola fase».

Quale di questi ruoli preferisci?

«Il Giudice di Percorso, senza dubbio! Si trova proprio nel cuore della gara, condivide con i canottieri la corsa  verso il traguardo, vive le loro ansie. Sono del parere che si debba essere un po’ “polipi” per fare gli arbitri: è davvero faticoso reggere tutti gli strumenti: la bandiera rossa, la bandiera bianca, il megafono e la radio walkie-talkie per comunicare con gli altri giudici. Si tratta di gestire un abile gioco di incastri per sostenere il tutto,  tenendo conto che nel frattempo bisogna avere sempre sott’occhio il programma di gara e aggrapparsi alla corda del motoscafo per mantenere l’equilibrio. Nelle competizioni di più alto livello, naturalmente, il motoscafo è abbastanza evoluto da sostenerti, ma non sempre si ha questa fortuna. Il Giudice di Percorso indirizza le imbarcazioni proprio durante la gara, come se le guidasse verso il raggiungimento del traguardo; supervisiona il tutto da un punto di vista che ai concorrenti sfugge perché loro puntano verso la meta e non riescono a tenere le loro rispettive posizioni. Se questa figura venisse a mancare, i partecipanti sarebbero lasciati allo sbaraglio, si perderebbe ogni logica».

 

Valeria Pessina (in alto al centro) con altri giudici

Valeria Pessina (in alto al centro) con altri giudici di gara

 

C’è stato un momento in cui hai incontrato difficoltà nell’arbitrare?

«Paradossalmente le difficoltà non le ho riscontrate durante lo svolgimento della gara, ma nei momenti che la precedevano o la seguivano. Ho iniziato ad arbitrare a venticinque anni, e mi trovavo in una posizione scomoda, considerando che molti miei coetanei e amici gareggiavano. All’improvviso c’è stato una specie di ribaltamento: io, che fino a poco prima mi trovavo in mezzo a loro, ora ero in una posizione opposta, chiamata a esercitare una forma di controllo sulle loro prestazioni. All’inizio è stato difficile da accettare per entrambi, sembrava davvero insolito. A partire da problematiche sciocche, come la richiesta del documento per verificare l’identità dei concorrenti; a volte capitava che qualcuno che conoscevo l’avesse dimenticato e con quale autorità potevo impedirgli di gareggiare? Ho dovuto lavorare parecchio sul mio carattere: il Presidente Molteni mi aveva proposto di avvicinarmi al ruolo di arbitro perché mi considerava una persona pacata e diplomatica, ma non potevo limitarmi ad essere pacata. Ho dovuto conquistare polso e fermezza nelle decisioni per farmi rispettare anche di fronte ai miei amici che ora mi vedevano sotto una luce diversa. Allo stesso tempo, era dura prendere altre decisioni come quella di sospendere una gara o escludere dei concorrenti, ma fortunatamente queste non erano scelte che spettavano solo a me, venivano prese di comune accordo da tutta la giuria di gara».

Il momento che invece ti è sembrato più emozionante?

«Sono i bambini a darti le maggiori soddisfazioni, quando arbitri le gare dei giovanissimi ti ritrovi ad avere un approccio totalmente diverso con lo sport. Spesso non sanno cosa fare, dove andare, per errore invertono i numeri di gara, ed il più delle volte sono talmente agitati da ricordarsi a stento il loro nome. Fanno davvero tenerezza, soprattutto quando ti fissano con gli occhioni sgranati e domandano: «Signor giudice, dove devo andare?» Perché è così che devono chiamarmi, «signor giudice», e le prime volte che lo dicevano mi faceva davvero effetto, invece ora mi sono abituata. Quando avevo iniziato da poco ad arbitrare mi capitò di trovarmi in una situazione particolare: in quel momento mi spaventò quasi, mentre adesso se ci ripenso sorrido. Ero nella postazione del giudice Marshall in partenza, e a un certo punto sento una vocina che mi chiede: «Signor giudice, cosa dobbiamo fare?» Mi volto e vedo una cinquantina di bambini, di poco più di dieci anni, schierati alle mie spalle in attesa di indicazioni.  Sembrerà strano, ma a volte serve più sangue freddo con i bambini che con gli adulti, perché in quella confusione c’è stato un momento in cui credevo che non sarei più riuscita a raccapezzarmi. Ho preso il programma di gara e ho cominciato a chiamarli per nome, perché alcuni non si ricordavano nemmeno il cognome o il nome della società di appartenenza!».

Valeria Pessina in veste di atleta

Valeria Pessina (a sinistra) quando gareggiava

 

Non hai paura che il tuo spirito competitivo venga mortificato dal ruolo che svolgi?

«Sono sempre stata molto competitiva e, nel bene e nel male, non smetto mai di esserlo: perfino se sto facendo jogging nel parco e all’improvviso vedo qualcuno correre più veloce di me provo subito l’impulso di superarlo. Ormai è una mia caratteristica e non penso che il ruolo dell’arbitro la annulli, perché dopotutto non si tratta di una figura passiva. A volte credo di aver smesso di praticare il canottaggio agonistico perché mi sembrava di non riuscire bene come volevo in quell’attività e forse avevo bisogno di un incentivo in più, di rivestire un ruolo a cui mi sentissi più affine. Ora che sono arbitro non mi mancano gli obbiettivi da raggiungere: lo scorso settembre ho partecipato ai Campionati Europei ed è stato meraviglioso far parte di una giuria internazionale. Lo spirito di squadra era amplificato, tutti sentivano con intensità di collaborare per un unico intento. Quell’esperienza mi ha stregato, adesso il mio sogno sarebbe arbitrare le Olimpiadi, ma credo che sarà necessaria ancora parecchia gavetta prima di arrivarci».

Hai dei bei ricordi del periodo in cui gareggiavi? Un istante a cui vorresti tornare?

«Al canottaggio sono legate tutta la mia infanzia e la mia adolescenza. Ricordo un’estate di quando avevo undici anni e mi stavo allenando al lago di Pusiano. Ero alle mie prime esperienze su un singolo: tutto dipendeva da me e non c’era più una compagna esperta a tenere in equilibrio la barca. Il timore di finire in acqua era grande, anche perché leggende metropolitane dicevano che il lago fosse infestato da pantegane. Mi ribaltai tre volte quel giorno e per due volte il mio allenatore Marco Marzorati fu costretto a recuperarmi; dopo avermi messo in barca mi diceva: «Hai solo sbagliato, riprova». La terza volta mi sorrise e disse: «Direi che oggi non è giornata». Sono tanti ricordi così, fallimenti e successi che mi hanno aiutata a farmi le ossa. Non potrei mai dimenticare il singolo color fucsia con cui avevo cominciato, volli a tutti i costi usarlo ai Campionati Italiani, anche se il mio allenatore me lo sconsigliava perché avrei dovuto utilizzarne uno più performante. Io volevo solo quello, credevo mi portasse fortuna e non riuscirono a farmi cambiare idea. Naturalmente era tutto mio, nessuno aveva la minima intenzione di rubarmelo, i compagni maschi si vergognavano addirittura ad utilizzarlo. Il campionato non fu un successo, ma sono stata contenta di aver usato il “mio” singolo fucsia».

Era già un anticipo di ciò che saresti diventata: un arbitro che stabilisce le regole della gara.

Sì, si potrebbe pensare così. In effetti è proprio quello di cui mi occupo ora, seguire la gara passo per passo, traghettare i canottieri verso la vittoria, che non rappresenta necessariamente lo scopo dell’impresa, ma solo la fine di un percorso».

Alice Figini
© Riproduzione Riservata

 

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