Tom Simpson
La tragedia di Mont Ventoux
Un uomo che procede a stento, cercando in sé una forza che ormai non sente neppure più di avere. Nei suoi ultimi istanti di vita Tom Simpson appare tremendamente solo, nonostante il chiasso e i tifosi e le bandierine svolazzanti in segno di incitamento. Una folla rumorosa di gente assiepata attorno e nessuno in grado di accorgersi del suo malessere, di quella fronte sudata, degli occhi dalle pupille spente che si sforzano per continuare a vedere. La bicicletta procede a zig-zag inerpicandosi per i sentieri del Mont Ventoux, sbanda paurosamente, i movimenti diventano incontrollati e le persone attorno cominciano ad allarmarsi.
Gli altri ciclisti gli offrono una borraccia per dissetarsi, ma Tom la rifiuta. Continua a pedalare, senza parlare, vuole solo andare avanti. Supera Lucien Aimar con uno scarto minimo, si tratta di una magra consolazione dato che la strada si profila ancora lunga. Mancano cinque chilometri alla fine. Lui la vede la cima da raggiungere, anche se è lontana, eppure è lassù, così netta, definita. Basta non distogliere lo sguardo e tenere il manubrio con una presa più salda.
Se lo separano dalla sua bicicletta è finita, lo sente. I suoi piedi si appoggiano ai pedali come ad un sostegno, sono l’unico motore in grado di far procedere il corpo perché il cuore, ogni tanto, sobbalza.
Gli spettatori sono diventati inquieti, d’un tratto lo guardano con altri occhi, quella scintilla d’entusiasmo incondizionato è sparita. Alcuni gli gridano di fermarsi, altri si fanno avanti e lo spingono aggrappandosi alla sella. Tom schiude le labbra sillabando poche parole strozzate: «On on on.»
Avanti avanti avanti.
L’incubo del Monte Calvo
Sulle pendici del Monte Ventoux soffia implacabile il Maestrale, raffiche violente che spazzano via qualunque germoglio cerchi di radicarsi alla terra, creando il vuoto attorno. Alla sua sommità la vetta, che con i suoi quasi duemila metri sovrasta la Provenza, offre una prospettiva da paesaggio lunare. Un deserto pietroso costituito da una bianca distesa di sassi, dove l’ossigeno è talmente rarefatto da impedire al più piccolo arbusto di sopravvivere in quelle condizioni. Perfino nella giornata più limpida il Gigante della Provenza, come lo chiamano i francesi, appare un temibile nemico con i suoi percorsi insidiosi.
Vanta numerosi appellativi e nessuno è lusinghiero: il Monte Calvo, il Colle delle Tempeste, fino al più minaccioso “Dio del Male” affibbiatogli dal filosofo Roland Barthes.
La fama del suo nome lo precede, tuttavia -malgrado il conosciuto epiteto- non spirava vento quel giorno: immortalato per sempre su una stele di pietra, collocata in un punto preciso. Evoca un presagio di morte la data che vi hanno inciso: 13 luglio 1967.
L’inizio della gara
Si sta per dare il via alla tredicesima tappa del Grande Boucle del 1967: si contano 215 chilometri per la tratta Marsiglia-Carpentras. Il Mont Ventoux, 1912 metri di altezza, rappresenta l’ostacolo più temuto dai ciclisti che si contendono il titolo: il percorso si prefigura aspro, ostile. E la colonnina di mercurio del termometro che sfiora i quaranta gradi di certo non aiuta. Le difficoltà climatiche accompagneranno i corridori lungo tutta la durata della gara, medici e assistenti si affannano per prevenire i rischi. La partenza è stabilita a Marsiglia, sotto il santuario di Notre Dame de la Garde; prima mattina e il caldo già si preannuncia soffocante. Gli organizzatori risolvono con un rimedio improvvisato: distribuiscono foglie di verza da posizionare sotto il cappellino a guisa di protezione. Fra i corridori schierati c’è anche quel briccone di Tom Simpson. Ha ventinove anni, grandi occhi azzurri vivaci in cui si riversa tutta la luminosità del sole di quella giornata. Quando sorride gli si formano delle fossette marcate attorno alle labbra tanto che il suo volto sembra avere una predisposizione naturale alla risata, l’allegria l’ha appiccicata addosso come se facesse parte di lui. Non appena gli passano la sua foglia di verza Tom sorride, la afferra con disinvoltura e la intinge nella borraccia estraendola tutta gocciolante. Gli altri divertiti chiedono cosa stia facendo, in tutta risposta lui agita quella foglia bagnata sopra le teste dei compagni: «Ma come, non lo capite? Vi sto dando la benedizione!» Ancora non immaginava di poter essere il solo ad averne veramente bisogno.
Titoli regali
Thomas Simpson, conosciuto a tutti come Tom, era stato il primo britannico ad indossare la maglia gialla del Tour de France. Nella scalata del Mont Ventoux si ritrovava a capo di una squadra, la Gran Bretagna, decimata di un terzo dei suoi componenti; sembrava destinato a rappresentare solo se stesso in qualunque impresa si cimentasse. Aveva trionfato nel Campionato del Mondo nel 1965, poi nel Giro di Lombardia quello stesso anno. Alle spalle aveva primi posti in tutte le gare classiche del ciclismo, come il Giro delle Fiandre e la Milano-Sanremo; nel suo palmarés poteva addirittura vantare una partecipazione olimpica con tanto di medaglia guadagnata , a soli diciotto anni. Un bronzo per la Gran Bretagna nell’inseguimento a squadre su pista, un successo senza precedenti che gli valse l’appellativo di The Lion of Yorkshire, il Leone dello Yorkshire.
La sua vittoria più prestigiosa, il campionato mondiale conclusosi nella città spagnola di Lasarte lo consacrò non solo alla fama, ma anche alle più alte onorificenze regali: Elisabetta II in persona lo omaggiò del titolo di Baronetto per meriti sportivi. Neppure una corona in capo sarebbe riuscita a distoglierlo dal suo obbiettivo, Sir Thomas Simpson praticava l’agonismo per pura passione, spinto dalla stessa allegria vorace che gli faceva perdere la testa per le auto sportive, le vacanze nel sud Europa e rincorrere le sue fémmes fatales.
Quel giorno si preparava a disputare la gara più difficile del Grande Boucle, scavalcare la pietraia del Mont Ventoux, sapendo bene che il suo futuro splendeva fulgido, al di là della riuscita in quella competizione. Da poco aveva infatti avuto notizia del suo prossimo ingaggio: la squadra italiana Ignis gli aveva proposto un trasferimento, proprio in quel Bel Paese da lui tanto amato che avrebbe potuto raggiungere con la moglie Helen e i bambini. La novità era ancora fresca, prima dei festeggiamenti Tom doveva superare l’ultima fatica; ma l’affrontava con il sole nel cuore, mille progetti prendevano forma nella sua mente man mano che il sogno appariva più vero.
Il vantaggio di Roger Pingeon in quella tredicesima tappa del Tour si annunciava schiacciante. A Simpson, in settima posizione, per scalare la classifica d’un colpo sarebbe servito un miracolo.
In fondo non era poi così necessario vincerla quella gara, a Tom bastava arrivare. O almeno, così si diceva.
I preparativi illeciti
Non tutti erano dello stesso parere, qualcuno pensava che Thomas Simpson dovesse vincere ad ogni costo. C’era in ballo troppo denaro, troppi soldi da guadagnare facilmente con i postumi di una vittoria per permettersi di gettare la spugna. Fu questo che il suo manager disse a Tom, presentandosi nella stanza la sera prima della gara. A detta del suo compagno di camera Colin Lewis, che assistette impotente alla scena, non si limitò a dirlo: i toni si scaldarono e la leggerezza con cui il ciclista soppesò la faccenda peggiorò la situazione. Senza mezzi termini, il manager concluse la sfuriata con un ultimatum: o Simpson tornava fra i primi cinque in classifica o per lui ci sarebbero state pesanti ripercussioni economiche.
Sarebbe rimasto semplicemente un alterco, dovuto all’eccessiva tensione del momento, se solo Tom non avesse cercato di trovare un rimedio, in silenzio e di testa sua, con una mossa scorretta quanto incosciente.
Lewis raccontò che in seguito due trafficanti italiani di anfetamine entrarono nella stanza, accolti da Simpson a braccia aperte. Terminate le trattative, Tom comprò una scatola di Mickey Finns sborsando ottocento sterline per l’acquisto, ignaro di dover ancora pagare il prezzo più alto.
Non furono quelle anfetamine ad ucciderlo, ne aveva ingerita solamente una compressa, accompagnandola con un fatale sorso di cognac. I tre tubetti furono trovati nella tasca dei suoi pantaloni mentre giaceva agonizzante sul selciato. Il fisico affaticato, i superalcolici, il caldo torrido uniti alle pasticche provocarono un collasso cardiaco inevitabile. Thomas Simpson non aveva alcuna intenzione di immolarsi al sacrificio, una fine così meschina non rientrava nelle sue previsioni: non si era fermato semplicemente perché il suo corpo non avvertiva la fatica. Le anfetamine gli avevano drogato la mente, impedendogli di sentire il limite dello sforzo. Nessuno fino a quel momento poteva sospettare un simile effetto, sarà il medico Pierre Dumas ad accertarsene con amara rassegnazione. Lo scoprì molto tempo dopo quegli attimi disperati, ricordando gli insuccessi di un massaggio cardiaco, della respirazione bocca a bocca, poi dell’ultimo estremo tentativo: quella maschera d’ossigeno premuta sul viso come a comandare «Respira!»
Il Leone dello Yorkshire chiudeva gli occhi per sempre, mentre Julio Jimenez tagliava per primo il traguardo della gara: il nome del vincitore sarebbe stato presto dimenticato, ma quello di Thomas Simpson ancora risuona su quelle alture. Si sarebbe bene impresso nelle coscienze quel nome, non soltanto nelle targhe commemorative a lui dedicate, sarebbe rimasto fermo e immutato come un ammonimento.
Per la prima volta il mondo tremava di fronte alla minaccia del doping, domandandosi inorridito perché un uomo dovesse morire a metà della corsa, salutando il traguardo come un miraggio lontano.
Alice Figini
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