Henriette D’Angeville

Henriette D'Angeville

Henriette D’Angeville

 

La Fidanzata del Monte Bianco

La montagna era vicina, eppure irraggiungibile. A fine settecento la natura appariva ancora come un’entità incontrollabile a cui l’uomo poteva lanciare la sua sfida di possesso o che poteva sottomettere alla propria ambizione sfrenata di conoscenza. In un’epoca in cui si acclamava a gran voce l’esperienza del sublime, il cosiddetto “orrendo che affascina,” secondo la definizione data da Edmund Burke, la natura nei suoi aspetti più terrificanti diventava la rappresentazione stessa del sublime: mari in tempesta, ghiacciai innevati, eruzioni vulcaniche destavano le emozioni più forti che l’animo fosse capace di sentire. In questo fervente clima culturale, ogni viaggiatore o viandante andava alla ricerca non di una meta, ma di un rischio nel vero senso del termine. E ben poche immagini possono rendere l’inferiorità fisica dell’uomo quanto l’imponenza della vetta di un monte.

Il Monte Bianco, in quell’epoca la montagna più alta d’Europa, divenne la conquista più ambita: tutti gli occhi erano puntati sulla sua cima e si inaugurò una vera e propria corsa all’oro, i suoi quattromila metri d’altezza. Fra scommesse, premi garantiti e poi smentiti, missioni fallite a causa di valanghe, gli uomini riuscirono nell’eccezionale impresa: era il 7 agosto del 1786. A coronare il sogno furono i francesi Michel Gabriel Paccard e Jacques Balmat. Un medico e un cercatore di cristalli, non veri e propri alpinisti, piuttosto intellettuali assetati di conoscenza. La scalata fu supportata con ogni mezzo e la sua riuscita venne acclamata come evento degno di nota e unico nella storia; peccato che, quando cinquant’anni dopo, una donna affermò di voler ripetere l’impresa con una spedizione guidata da lei sola, la proposta bastò a suscitare le più sonore risate.

Nell’estate del 1838 la contessa Henriette D’Angeville manifestò le sue intenzioni e, nonostante i pareri contrari, persistette nell’intento. L’animavano la passione per i romanzi d’avventura e una conseguente tendenza a credere nell’impossibile.

Una vetta tutta per sé

In realtà una donna in cima al Monte Bianco c’era già stata, nel lontano 1808. Il suo nome era Marie Paradis, e per dovere di cronaca è giusto citarla come prima scalatrice del gigante bianco. Di certo, però, la Paradis non può essere definita una pioniera dell’alpinismo: innanzitutto, la poveretta, fu convinta e quasi costretta da Balmat ad affrontare l’impresa, non si sottopose al calvario di sua spontanea volontà. Si trattava di una giovane cameriera di Chamonix giunta al vertice della vetta per puro miracolo, almeno a giudicare da quanto riportano le testimonianze da lei stessa rilasciate: «Mi trascinavano, mi spingevano, sbuffavo come una gallina spennata. Chiedevo di essere buttata in un crepaccio». Invece, a forza di spinte e strattoni, la malcapitata portò a termine la scalata inaugurando la leggenda del suo nome che si sarebbe modificato nel più noto Marie del Monte Bianco.

Henriette D’Angeville, al contrario, non intendeva essere portata da nessuno, fu lei stessa a reclutare sei guide e due portatori al suo servizio e organizzò, fin nei minimi dettagli, ogni particolare della spedizione: dagli approvvigiamenti all’abbigliamento necessario. Le malelingue non tardarono a parlare, soprattutto faceva discutere l’età avanzata dell’esploratrice: quarantaquattro anni erano troppi per dedicarsi a simili colpi di testa. «Ama il Monte Bianco,» insinuarono «perché non ha nient’altro da amare». Una nobildonna inglese le domandò sprezzante se avesse considerato i rischi della sua impresa, non per riguardo a se stessa, piuttosto pensasse alle guide che, a differenza di lei, avevano famiglia. Henriette non si scompose e subito ribatté, metodica, che in tal caso una valanga avrebbe provocato sei vedove e ventisette orfanelli.

Le critiche non guastavano la sua determinazione, malgrado i pregiudizi fossero molti e non si limitassero a semplici riserve: un’esaltata, dicevano, alla ricerca di una nuova carta da giocare nei salotti di Parigi. Perfino i medici si opposero alla sua idea, obiettando la teoria secondo cui il fisico di una donna non era concepito per sopportare simili quote e tra i vari rischi, non sapendo cos’altro inventarsi, dichiararono la condanna sicura alla sterilità.

Un ritratto di Henriette

Un ritratto di Henriette

 

Come tutte le persone incomprese Henriette cercava conforto nella solidità dei suoi ideali e, da donna colta qual era, non poté trovar rifugio che nella scrittura, in una pagina bianca in grado di accogliere il flusso dei suoi pensieri senza replicare, conservandone la memoria per quando la sua voce non fosse più bastata ad esprimerli.

Così la contessa D’Angeville si mise a scrivere sul suo Carnet vert; in quella fitta corrispondenza con se stessa registrava tutto, dai commenti velenosi ai suoi preparativi per la spedizione, il tutto condito con un’ironia sagace che, del resto, l’aveva sempre caratterizzata. Il filo conduttore di quelle pagine era la costante volontà che guidava i suoi giorni: la conquista del Monte Bianco. Spiegava questa sua missione con un linguaggio da vera letterata descrivendolo come un bisogno dell’anima.

Ancora non lo sapeva, ma, inconsapevolmente, stava per regalare al mondo il diario della sua scalata. La prima vera storia di alpinismo al femminile.

L’impresa

Henriette D’Angeville non era una sprovveduta, sapeva bene il fatto suo e, quanto a montagne, diciamo che se ne intendeva. In precedenza aveva scalato il Mont Joli, nei dintorni di Ginevra, e aveva raggiunto i 2700 metri del Jardin de Talèfre percorrendo la vallata del più esteso ghiacciaio del Monte Bianco, dal nome emblematico: Mer de glace. La contessa sapeva arrampicarsi sulle rocce esattamente come un uomo, la difficoltà della scalata non la allarmava, piuttosto la preoccupava il vestiario e non certo per pura vanità femminile. Nessuna donna prima di lei aveva affrontato un gelo simile ad alta quota, escludendo la fortunata Paradis salva per intervento provvidenziale. La D’Angeville non aveva nessuna orma da seguire, doveva inventare tutto da sé, compreso l’abbigliamento adatto.

Alla tenuta da viaggio dedicò un capitolo intero del suo diario, si trattava di una vera e propria armatura di stoffa studiata nei minimi dettagli: un abito in lana scozzese a quadri, ghette per infilare le scarpe, in testa una cuffia foderata di pelliccia, tralasciando i particolari dei singoli rivestimenti e dei mille accorgimenti che aggiunse in seguito. L’intera bardatura giunse a pesare sette chili netti, un peso più che ingombrante da trascinare in salita. Nel rifornire l’equipaggiamento non lasciò nulla al caso, si munì perfino di un fornelletto a spirito per preparare il tè e di un piccolo specchio per controllare gli arrossamenti della pelle.

L'equipaggiamento di Henriette

L’equipaggiamento di Henriette

 

Così acconciata, il 4 settembre 1838, con partenza alle due di notte, Henriette D’Angeville diede inizio alla sua avventura. Sfidando ogni pronostico l’impresa riuscì. Giunta all’apice della vetta Henriette brindò assieme alla sua squadra con bicchieri di champagne e, per assaporare quel momento unico, si fece sollevare sulle spalle di due uomini per ammirare meglio il panorama. Rimase così oscillante, appoggiata come su una sedia improvvisata, mentre il suo spirito si elevava alla stessa grandezza di quello spettacolo grandioso.

Un colpo di cannone celebrò la squadra al ritorno a Chamonix ed il giorno successivo vennero indetti i festeggiamenti. Henriette volle ad ogni costo che fosse presente anche Marie Paradis, all’epoca sessantenne, in veste di ospite speciale. L’animo nobile della contessa si mostrò perfino in quell’occasione: riconobbe il primato della Paradis e stabilì che la donna venisse raffigurata, in quanto personaggio irrinunciabile, nel dipinto commissionato per ricordare l’impresa.

I quaderni di Henriette

L’avevano definita pazza ed esaltata, ora che il suo intento stravagante era riuscito nessuno più osava criticarla, di certo però non mancava chi si affannava per sminuirla. Una guida di Chamonix al suo ritorno le disse: «Avete avuto il grande merito di andare sul Monte Bianco, ma bisogna convenire che il Monte Bianco ne avrà molto meno ora che anche le signore possono scalarlo». I suoi tempi non le riconobbero il pregio che meritava, era una pioniera dell’alpinismo, ma all’epoca appariva solo come una nobildonna un po’ sopra le righe. Henriette raccolse i suoi diari in un romanzo dal titolo La mia scalata del Monte Bianco e, con una scelta di inequivocabile buon gusto, ingaggiò dei pittori ginevrini perché lo illustrassero. Il manoscritto si prefigurava come un’opera unica, arricchito da oltre cinquantadue fra acquerelli e disegni, sarebbe risultato il resoconto più approfondito e affascinante dei tanti scritti dagli uomini; ma era venuto troppo presto, non era ancora il suo tempo. La D’Angeville non trovò nessun editore disposto a pubblicarlo e fu costretta a chiuderlo in un cassetto. Nel 1986 fu riscoperta la copia originale del diario da un editore francese che riconobbe il valore dell’opera, mentre la versione illustrata andò perduta, infatti solo alcuni degli acquerelli si salvarono dall’oblio.

Una recente pubblicazione del diario

Una recente pubblicazione del diario

 

La scalata di Henriette D’Angeville non passò alla storia come impresa rivoluzionaria, continuò a restare in secondo piano rispetto alla prima conquista della vetta da parte degli uomini. Rimase per sempre semplicemente il coronamento di un sogno, che non apportò modifiche sostanziali nemmeno alla sua vita. Le malelingue non cessarono di deriderla con note pungenti. Da parte sua, Henriette continuò ad arrampicarsi sulle montagne fino a età avanzata, senza più curarsi che qualcuno badasse alle sue avventure. Scalò oltre venti nuove vette e si dedicò con interesse anche ad attività di speleologia e alla ricerca di pietre e fossili, fondando un museo di minerali a Losanna.

Nel 1863, a sessantanove anni, compì la sua ultima ascesa sull’Oldenhorn nei Diablerets. Sfidò i ghiacci e la superficie nuda delle rocce per tutta l’esistenza, infischiandosene dell’opinione pubblica che non l’aveva mai capita. Le sue spiegazioni le aveva già scritte tempo prima, nel suo diario non pubblicato, quando ancora sentiva il bisogno di giustificare quell’inesauribile esigenza di libertà: «Non fu la fama meschina di essere la prima donna ad aver arrischiato quel genere di avventura a darmi quell’euforia; fu piuttosto la consapevolezza del benessere spirituale che ne sarebbe conseguito».

Non ebbe famiglia né figli, non ubbidì mai all’etica dei salotti, appartenne solo alle sue montagne e al sordo richiamo del vento che soffiava su quelle alture. La chiamarono La Fidanzata del Monte Bianco.

Alice Figini
© Riproduzione Riservata

 

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