Zeno Colò

Zeno Colò nella libera di Oslo

Zeno Colò nella libera di Oslo

 

Il Falco con gli sci di legno

Due minuti, trenta secondi e otto decimi. 62 km all’ora. Il tempo di fumare una sigaretta, per percorrere i 2435 metri della pista di Norefjell, Norvegia, sabato 16 febbraio 1952.

Zeno Colò, che proprio le sigarette ci hanno portato via con sensibile anticipo, il 12 maggio di vent’anni fa, e che a lui avevano portato via un polmone, si mise al collo l’oro olimpico di discesa libera con quel tempo.

Se  lo mise in un’epoca affascinante. Un’epoca senza casco integrale. Un’epoca dagli sci di legno.

Il giorno di Olimpia

Prova tecnicamente ineccepibile, la sua, cesellata su una pista difficilissima e al limite della praticabilità. 700 metri di dislivello, ghiacciati da una temperatura gelida di 13 °C  sotto lo zero e da un impietoso vento artico.  Gli inverni scandinavi non sono teneri.

Due chilometri e mezzo che dopo un primo, lungo tratto obliquo, incastonato tra radure e corridoi di un bosco che pareva uscito da una fiaba nordica, e dove quasi ti aspettavi di veder sbucare gli elfi, nell’ultimo quinto si trasformavano  di colpo in un inferno bianco.

Un precipizio fatto di gradoni scoscesi, resi ancor più temibili dal centimetro di neve caduto nella notte e subito gelato.  Chi c’era, raccontò di atleti che sembravano librarsi in aria su quegli scalini viscidi e infernali, cosparsi di buche traditrici e fiancheggiati da alberi centenari. Uno scenario da bolgia, che oggi nessuna giuria prenderebbe neanche per un istante in considerazione per una gara.

Pure Zeno quella pista a volte larga e a volte strettissima la percorse senza un’esitazione, senza un solo errore. Lamine Bilgheri Mittel, solette sciolinate da 0 a 4 °C, l’ultima Nazionale Super strappatagli proprio al cancelletto dal medico di gara. Uscì dai pali col numero 5 sulla pettorina. Già lanciato al massimo, per sfruttare sino in fondo il maggior strato di neve del primo tratto. Per consentire alla sua tecnica superiore di emergere in tutta la sua efficacia. Giunto alla curva che immetteva negli ultimi, terribili 500 metri, Colò, velocissimo, dovette dar fondo alla sua abilità per non uscire dal tracciato. La frenata con gli sci paralleli, a strappare, lo portò sino quasi addosso al pubblico, che si ritrasse spaventato.

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Un’altra immagine della discesa olimpica

 

Una poderosa spinta di reni per riprendere abbrivio, e via per la discesa. Posizione a uovo alto, con il baricentro leggermente spostato all’indietro, con il dorso più diritto e le gambe piegate solo in parte.

Sull’ultimo muretto, cosparso di punte ghiacciate taglienti come lame, Zeno passò diritto, con una buona dose di sconsideratezza, e si infilò quasi volando sul tratto finale.

Tagliò il traguardo e non ci fu neppure bisogno di aspettare il tempo. Tutti sapevano già che il vincitore era lui, che l’oro di Olimpia non poteva avere un altro padrone.

Gli avversari gli arrivarono ad un abisso di distanza, il più vicino a un secondo e due decimi. Una vittoria mai in dubbio, quella di Zeno.

Una vittoria che, nella sua regalità, non era certo figlia del caso. Per andare a prendersi la medaglia più ambita, il Falco di Oslo (come subito venne ribattezzato) aveva studiato minuziosamente la pista, risalendola a piedi e facendo la conoscenza di ogni singolo sasso o ostacolo di sorta che potesse frapporsi tra lui ed il successo.

Del resto era nel suo stile. Ancora oggi Doris Zucchetti, che ebbe la ventura di allenarsi a volte con lui in quegli anni, ricorda con nostalgia che «Zeno controllava ogni particolare dei percorsi e osservava con attenzione estrema le discese degli avversari, per comprenderne lo stile e impararne i segreti, se ne avevano». Che poi, a parlare con questa signora dai capelli candidi come le nevi su cui gareggiava, par di vederli, Zeno, Celina Seghi, Vittorio Chierroni e gli altri grandi di uno sci che la distanza e il progresso han reso leggenda, fiondarsi giù per discese privi di protezione, senza altra tutela che la propria classe cristallina e il proprio coraggio temerario.

Zeno Colò, Celina Seghi e Vittorio Chierroni (Foto Goiorani - Abetone)

Zeno Colò, Celina Seghi e Vittorio Chierroni (© Goiorani – Abetone)

 

Un uomo accorto e con un cuore grande come una casa, ma modesto e semplice, il Falco. Il quale, vestito con una maglia di nylon blu lucida che le cronache del tempo descrivevano come aderentissima (e magari per i tempi lo sarà stata davvero)  e pantaloni scuri e stretti, ancora con il fiatone e distrutto dalla fatica dopo la terribile prova, trovò la forza per una frase smozzicata ai giornalisti che lo circondavano: «Beh, mi pare di avercela ancora fatta! Sono contento, sono contento… è stata dura…»

Poi, man mano che gli avversari più quotati scendevano e gli finivano alle spalle, il suo pensiero andò a casa, alla famiglia e alla montagna toscana che lo aveva visto bambino e lo aveva allevato allo sci: «Sono contento anche per la mia famiglia. Chissà come saranno felici lassù all’Abetone… Ho avuto fortuna!»

«Pas de fortune…  Vous êtes Zenò», lo contraddisse subito il campione francese James Couttet, sorridendogli e stringendogli la mano. Un tributo alla classe, un tributo al migliore, un tributo alla superiorità di un fenomeno.

La stretta di mano tra  Couttet e Colò (Archivio L'Unità)

La stretta di mano tra Couttet e Colò (© Archivio L’Unità)

 

Il chilometro lanciato

Un fenomeno che con gli sci di legno ai piedi aveva già compiuto un’altra impresa di quelle che entrano nella storia. Aveva stabilito il record assoluto sul chilometro lanciato, un po’ come il record dell’ora di ciclismo o quello sui 100 m in atletica. La folle scommessa con l’austriaco Leo Gasperl, un altro che sugli sci sapeva volare, andata in scena sul Piccolo Cervino, l’aveva vinta lui per tre centesimi di secondo, toccando i 159.292 km/h.

Che a guardarli oggi sembrano pochi, d’accordo. Gli aostani fratelli Origone, Simone ed Ivan,  hanno valicato la soglia dei 250 all’ora, e i 251.40 km/h di Simone sono l’attuale record del mondo. Le loro attrezzature però sono di prim’ordine, e tecnologicamente lontane anni luce da quelle utilizzate dal pioniere Colò.

Il quale con quei quasi 160 all’ora avrebbe conservato per vent’anni il primato mondiale assoluto di velocità per un bipede su sci. Era il 1947, e Zeno aveva appena ripreso a gareggiare dopo un decennio d’assenza dalle competizioni. Perché questo figlio di boscaiolo, cresciuto in simbiosi con le nevi dell’Abetone, in Nazionale a quindici anni, si trovò a dover affrontare un avversario ben più ostico di qualsiasi altro sciatore: la guerra. Arruolato nel corpo degli alpini, rifiutò in seguito di aderire alla Repubblica Sociale, lasciando l’Italia.

«C’era stata di mezzo la guerra. Avevo disputato qualche gara in Svizzera, dove ero riuscito a rifugiarmi. Correvo con il soprannome di Blitz, lampo in italiano perché i miei non avessero noie…» dichiarerà anni dopo, a proposito di questa lunga parentesi della sua carriera vissuta sulle montagne di Interlaken.

Non era certo facile, in un dopoguerra povero e colmo di incognite per un paese uscito in ginocchio dall’immenso incendio, occuparsi di sport.

Solo personaggi fuori dagli schemi, fuoriclasse in grado di incendiare la fantasia e l’anima potevano ricondurre tutto un popolo a pensare a medaglie e podi. Gino Bartali e Fausto Coppi, Adolfo Consolini e Giuseppe Tosi,  i conquistatori del K2, l’invincibile 4 Senza Moto Guzzi, il Grande Torino… Nomi e formazioni mitiche. Nomi tra i quali Zeno Colò brilla come una stella in una notte invernale, come il principe bianco di uno sport che l’Italia aveva solo potuto sognare sino al suo arrivo.

Una carriera inimitabile

Perché il Falco non si limitò ai due lampi leggendari, il  chilometro lanciato e la prima medaglia d’oro italiana nello sci alpino ai giochi olimpici invernali (ad oggi ancora l’unica nella discesa libera). In realtà, nella sua inimitabile carriera, Zeno ottenne uno spropositato numero di vittorie: 28 medaglie ai campionati italiani, 19 delle quali d’oro. Sino ai trionfi nei mondiali di Aspen, nel 1950, quando gli enta erano a un passo. Le nevi statunitensi lo videro dominare la discesa libera (una delle  più drammatiche e rischiose gare di tutti i tempi, che da sola meriterebbe un racconto) e lo slalom gigante, per lasciare al resto del mondo il solo slalom speciale. Qui si accontentò (si fa per dire) dell’argento, per tre decimi di ritardo nei confronti di Georges Schneider.

In quell’occasione, aveva attraversato l’oceano per la prima volta, su un aereo alla volta del Colorado. Fosse stato per gli americani, sarebbe anche stata l’ultima: un campione del genere non volevano farselo scappare. Gli offrirono di rimaner lì, a insegnare lo sci, strapagato. Lui ringraziò cordialmente, e tornò sui suoi monti a preparare l’Olimpiade norvegese.

Non poteva del resto prevedere che quella di Oslo sarebbe stata la sua ultima vera gioia agonistica. Ormai famoso, commise la leggerezza di dare il proprio nome a in modello di scarponi e ad una giacca. Venne squalificato: fu incolpato di essere diventato un professionista. Un’accusa infamante al tempo del CIO duro e puro di Sigfrid Edström  e poi di Avery Brundage.

Come apripista col secondo miglior tempo (ma qualcuno dice il primo) ad Åre, nei mondiali svedesi del ’54, e come tedoforo a Cortina due anni più tardi i suoi ultimi due impegni ufficiali. Poi, disegnò piste ed insegnò lo sci.

1956: Zeno Colò sta per entrare a Cortina con la fiaccola olimpica (CIO)

1956:  Zeno Colò sta per entrare a Cortina con la fiaccola olimpica (© CIO)

 

Indimenticabile, quindi indimenticato. Della sua parabola sportiva e umana si conservano commoventi testimonianze nell’amato Abetone, che ha voluto omaggiarlo, nel 2002, di una targa commemorativa per i cinquant’anni dal successo di Oslo.

La sua leggenda continua tutt’oggi. La compagnia teatrale L’Asina sull’Isola, nel 2010, ha portato in scena L’incoscienza di Zeno, scritto da Paolo Valli e Katarina Janoskova. Omaggio a Colò ed ai suoi colleghi, Celina Seghi, Vittorio Chierroni e gli altri, conterranei e contemporanei, che sugli sci seppero regalare emozioni irripetibili alla gente toscana e ad una nazione intera.

Danilo Francescano
(ha collaborato Antonio Giusto)
© Riproduzione Riservata

 

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