Marco Pantani
Una vita da Pirata
Serata maledetta. Te ne stai tranquillo in casa di parenti a Firenze, e cincischi tra i canali in attesa del sonno. Dalla tivvù ti aspetti solo storie tipo Baci Perugina, che a San Valentino i buoni sentimenti si sprecano. Più che altro per vendere qualcosa agli innamorati o ai coniugi in cerca di perdono… Vogliamoci bene tutto l’anno, e non solo oggi, gente, che è meglio. In ogni caso, pazienza, tanto tra due ore è finita. Per 364 giorni, anzi 365 perché l’anno è bisesto, non ci si pensa più.
Invece la notizia ti arriva dritta e letale come un calcio nello stomaco.
Morto. Il Pirata è morto. No, eh, ragazzi. C’è un errore, vi siete sbagliati. I pirati non muoiono. Al massimo, perdono un occhio, una mano o una gamba (il Panta poi, di gambe deve averne una scorta, tante ne ha già cambiate). Morire però no, quello non lo fanno.
E invece sì. È morto davvero, Marco Pantani, classe 1970 da Cesenatico, Riviera Romagnola. Morto più solo di un clochard, in una camera di albergo, lui che ai bei tempi aveva attorno decine di persone. Anche se poi pure allora era da solo.
Nessun errore, mondo boia. La salita stavolta era troppo dura anche per la sua bicicletta. Gli occhi si riempiono di lacrime. Perché il Pirata lo abbiamo amato tutti.
Lo abbiamo amato tutti, il Pirata. Anche quelli che ora ci vanno giù duro e giurano di aver sempre diffidato delle sue vittorie. Simon Pietro ha fatto scuola a un bel po’ di umanità, ma lui era San Pietro e poteva permetterselo. Nell’Italia del Duemila a rinnegare sono le mezze calzette.
Lo abbiamo amato sin dal Giro del 1994, quel tizio un po’ buffo, modello Mastro Lindo per capirci, con una coroncina di capelli attorno al cranio calvo e due orecchie a sventola da far invidia a Dumbo. Pomeriggi primaverili a scappare dal lavoro e fiondarsi davanti allo schermo, per vederlo inerpicarsi sino a Merano e poi all’Aprica. Ad esaltarsi per quelle due ruote che salivano verso il cielo, e l’asfalto parevano morderlo, tanta era la grinta che ci metteva il ragazzo. Adriano De Zan che urlava, i bar pieni di fumo e gente ai tavoli, perché il Giro era il Giro, ed era dai tempi di Moser-Saronni-Battaglin che non ci si divertiva così. A guardarlo salire sul podio, ci siamo pure commossi, che sembrava così spaurito e strizzava gli occhi marroni, e poi li spalancava ad osservare la scena, incerto se ridere o piangere. Aspettiamo il prossimo Giro, e vedremo. Stavolta lo abbiamo trovato davvero, chi metterà a posto Berzin e Indurain.
Mai fare i conti senza la sorte, però. Si sa, la fortuna è cieca e la iella al contrario ci vede benissimo. E in virtù di questo, un incidente d’auto gli nega il Giro 1995. Al Tour tuttavia, seppure in forma approssimativa, qualche soddisfazione sulle Alpi e sui Pirenei se la leva. Pazienza, il 1996 sarà migliore.
Macché. Uno scriteriato con un fuoristrada viaggia in senso inverso durante la Milano-Torino, il 18 ottobre 1995 – a fine stagione cioè -, e fra tutti ti investe proprio lui, Marco Pantani. Tibia e perone distrutti. Forse è già la fine, dicono i medici.
Neanche per idea, solo chi cade può risorgere. Cinque mesi dopo, cinque mesi di inferno, il Panta torna in sella, a preparare la stagione successiva, quella del riscatto, si spera.
Inizia male, il 1997, con una terrificante caduta al Giro. Ci si mettono anche gli animali, ora, sotto forma di un innocente micio che gli taglia la strada e lo costringe al ritiro. Chepperò è un tipino alla Nuvolari, il Pantani, e rinasce come rinasce il ramarro. Due mesi dopo, al Tour, è l’incontrastato signore delle montagne. All’Alpe d’Huez e a Morzine straccia tutti, e mette una paura folle a Jan Ullrich. Il quale alla fine vince, d’accordo, ma solo grazie alle lunghe cronometro. Il Pirata (ora Marco ha conquistato, grazie alla bandana e agli orecchini ad anello, il suo soprannome definitivo) è sul podio. Finalmente.
1998, la grande annata. L’anno del Pirata. In forma strepitosa, annichilisce gli avversari. A maggio, Alex Zülle e Pavel Tonkov ci provano, a fermarlo. Nulla però è possibile, contro il fuoriclasse scatenato. A Selva di Val Gardena si veste di rosa, e non cambia d’abito sino Milano. Alpe di Pampeago e Plan di Montecampione. Nomi legati per sempre ad imprese epiche, con il romagnolo che sembra raggiungere il cielo per lasciare gli altri a scontrarsi tra loro sulla terra.
Al Tour ci va tra i favoriti, adesso, e sono trentatré anni, dai tempi di Felice Gimondi, che la corsa gialla ci sfugge. A dirla tutta, non parte bene, Marco. Come sempre, il cronometro gli ticchetta contro. Ha quasi cinque minuti dal solito Ullrich, dopo dieci tappe.
A questo punto accade il miracolo. La bandana vola via dalla testa di Marco, nel gesto che ormai tutti riconoscono come l’avviso dell’attacco, ai piedi di un monte mitico. Ai piedi del terribile Galibier. È una sinfonia, anzi un assolo. Ullrich manco lo vede, il Panta che se ne va per la sua strada senza neanche il tempo di un saluto. All’arrivo a Les Deux Alpes, dopo cinquanta chilometri di fuga, il tedesco si becca nove minuti, un abisso. Il Tour è del Pirata, il re è lui. Purtroppo, in una terra dove i re fanno spesso una brutta fine. Così, se ora il romagnolo è nell’Olimpo degli dei delle due ruote, la caduta verso gli inferi non è lontana.
Il Giro del 1999 sembra predestinato. Sul Gran Sasso d’Italia è già in rosa.
Il 30 maggio è un giorno storico. Per Pantani e per il ciclismo. Nella tappa di Oropa, la sorte riapre il suo conto con il Pirata. Ai piedi dei 1200 metri del monte del Santuario, la catena della bicicletta gli salta. Tappa e forse Giro tornano a rischio.
Sembra una nuova tragedia, invece è l’inizio di una impresa di cui si parlerà per decenni. Di quelle da raccontare ai figli e da ricordare nelle serate in compagnia. La bandana finisce sul bordo della strada, gettata con una rabbia sconfinata (chissà mai chi l’ha recuperata e può godere oggi di un cimelio così prezioso). Ora Marco sale con una andatura che nessuno può sostenere. I pedali si cambiano in due stantuffi di motore. I polmoni quasi trasmutano in energia pura l’aria frizzante delle Alpi. Un processo non più fisico, quasi alchemico. Un mistero che solo nel ciclismo può avverarsi. Anzi, non nel ciclismo: nelle favole.
Non ha la leggiadria sublime dell’immenso Fausto, Marco. Dell’Airone che si levava nell’aria e oscurava con le sue ali tutto il resto. Né possiede la potenza terribilmente sontuosa (o sontuosamente terribile) di Ginettaccio Bartali. Marco è Marco, e arrampica sbuffando, a bocca aperta. Rughe scavate sulla fronte come solchi sulla corteccia, gocce di sudore ad imperlare il cranio nudo. Ma gli altri, tutti gli altri, paion fermi ad aspettarlo. Pare che il vento stesso della montagne sospinga le sue grandi orecchie come vele di una nave. Va su, il Pirata, e nessuno dei tanti che lo vedono volare può trattenerlo nel suo volo. Verso un traguardo che nessuno gli può più negare. Verso l’immortalità sportiva.
Frammenti di un sogno. Sull’Alpe di Pampeago e a Madonna di Campiglio, il romagnolo concede ancora di sé, della sua classe innata.
Ma la fiaba, come tutte le fiabe, ha una fine. E non è una fine lieta, per Marco Pantani.
La fine arriva proprio lì, nella Madonna di Campiglio dell’ultimo trionfo. 5 giugno 1999, un sabato. Alle 10,10 i medici dell’UCI rendono noti i risultati dei controlli sul sangue dei primi dieci della classifica. In quello del Pirata il tasso di globuli rossi supera il 50%. Come dire che Marco Pantani potrebbe aver adoperato sostanze proibite, tipo l’Epo. Esclusione dalla corsa, quindici giorni di squalifica. Sgomento generale. E incredulità. No, non lui, non il Panta.
L’angoscia delle sue frasi smozzicate, quasi sussurrate nei mille microfoni che lo attorniano: «Provo tante cose, ma sarebbero parole in più. Dopo una lezione di questo tipo, anche a malincuore devo dire che se succede questo ad uno sportivo come me che ha dato tanto a questo sport, viene da pensare. Avevo già la maglia rosa, avevo 46 di ematocrito e oggi mi sveglio con questa sorpresa… credo che c’è sicuramente qualcosa di strano. Mi sono rialzato, dopo tanti infortuni, e sono ripartito. Questa volta, però, moralmente abbiamo toccato il fondo. Rialzarsi sarà per me molto difficile».
Accidenti, ma vuole mica dire che smette col ciclismo, che si ritira? Oddio, no. E noi che oggi lo aspettavamo a volare sul Tonale, a librarsi sul Gavia e sul Mortirolo. Tre salite da urlo. Tre salite da Pantani. Lo aspettavamo all’Aprica, oggi. Il suo traguardo, dove il suo mito è nato.
No, non si ritirerà, ma non sarà mai più lo stesso. Non volerà più, il Panta. Certo, qualche acuto ancora, l’Izoard e il Mont Ventoux, perché la classe non è acqua. La tappa di Courchevel, alla Grande Boucle del 2000. Il tempo della bandana però è finito. Inizia il tempo della lotta per la vita.
Il campione se n’è andato, resta l’uomo.
Un uomo controverso, Marco. Angelo o demone chissà. Nessuno dei due, probabilmente, perché queste categorie non si addicono a Pantani. O tutti e due, magari. Non lo sapremo forse mai, noi comuni mortali, se la gloria del Pirata fu vera gloria, come mamma Tonina tenacemente grida ancora oggi al mondo. Importa poco, in fondo. Perché, alla faccia dell’Epo, il suo ciclismo era poesia, era emozione, era passione. Era una pagina, l’ultima forse, di un racconto romantico e inarrivabile, fatto di sudore e di sacrificio, ma anche di fascino senza tempo.
Un uomo solo, Marco. Sicuramente. Solo come quando era al comando, quando la sua pelata rifletteva la neve dello Stelvio o il sole dell’Alpe d’Huez. Quando gli avversari gli arrancavano dietro, e lo guardavano da lontano salire più in alto, sempre più in alto. Ora il Pirata è ancora solo, ma non ci sono più le telecamere e i microfoni. Non ci sono più i fiori e il bacio delle Miss a fine gara. E quelli che gli arrancano dietro non sono più avversari leali. Sono profittatori e falsi amici, e i pochi amici veri possono poco. Solo, in corsa verso un San Valentino tragico. Quando Marco Pantani tornerà sulle prime pagine, ma non per l’ennesimo trionfo.
Chissà se nel posto dov’è ora riservano uno spazio alle biciclette. Ché allora Marco c’è di sicuro, a giocarsela con l’Airone e con Ginettaccio, con Anquetil l’ombroso e con Fuente, con Ocaña e con Girardengo l’Omino, in una gara che ha per strada l’infinito e dove il doping non getta la sua ombra infame.
Corri in pace, lassù, grandissimo Pirata. Che tanto i pirati non muoiono mai.
Danilo Francescano
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