Enrico Bovone
Campione per caso
«Cosa fai nel tempo libero?».
«Mi piace fare dei lunghi giri da solo in macchina quando piove».
Queste parole lette nel 1970 in un’intervista uscita sui Giganti del Basket mi sono tornate subito alla mente una mattina di trent’anni dopo, quando, scorrendo la pagina sportiva di un quotidiano, ho trovato quella maledetta notizia: “Enrico Bovone, 55 anni, azzurro di basket per ben sessantacinque volte, si è tolto la vita sparandosi un colpo di pistola nella tarda serata di lunedì nelle campagne senesi”.
In quelle parole di tanti anni prima c’era già il ritratto di un campione e di un uomo fuori dalle righe, non fosse altro perché mandava a quel paese un bel po’ di stereotipi e di luoghi comuni sugli eroi – o presunti tali – dello sport. Uno di quei tipi che tutti frequentano per anni, ma che poi in realtà nessuno conosce veramente. Sembra strano a dirsi per un omone alto due metri e dieci, ma l’impressione è quella di trovarsi davanti a una sorta di gigante invisibile, nonostante sia stato nel bene e nel male protagonista nel basket italiano per una quindicina di anni.
Testimone di un’epoca
Dopo la tragica fine del 2001 Enrico Bovone, che era nato a Novi Ligure nel 1946, è finito subito nel dimenticatoio. Il mondo dello sport non ama queste storie senza lieto fine che rischiano di metterne in discussione le fondamenta, spesso costruite con panna montata. Certi atleti problematici sono complicati da gestire quando sono in attività, figuriamoci quando decidono di salutare la compagnia e di togliere il disturbo. Bovone poi, tanto per non disturbare, si è risparmiato pure i saluti. E poi il personaggio era di difficile collocazione. È molto probabile che nessuno sapesse bene dove metterlo quel tipo strano, che rideva di rado, poco portato ai gesti eclatanti, ai proclami ai tifosi e con quell’aria sempre un po’ annoiata.
Eppure, volente o nolente, Enrico Bovone è uno che in un certo senso ha segnato un’epoca. Non fosse altro per il fatto di essere stato il primo due e dieci del basket italiano, anzi, per citare il mitico telecronista della RAI Aldo Giordani, il primo Gigantissimo, tanto che fu al centro di una singolare sfida automobilistica tra i dirigenti di Simmenthal e Ignis, accorsi a Novi Ligure per accaparrarsi la giovane promessa. Le cronache narrano che Cesare Rubini rimase bloccato in un ingorgo sull’autostrada e così Bovone finì a Varese.
Siamo nei fatidici anni Sessanta che sono stati favolosi anche per la pallacanestro in Italia. Quello che fino ad allora era stato uno sport decisamente minore, con un pubblico formato per lo più da qualche amico e qualche fidanzata, diventa lo sport dei giovani, i palazzetti si riempiono, le squadre italiane sfidano il Real Madrid e la leggendaria Armata Rossa per la supremazia in Europa. Era cominciato il cosiddetto basket boom e alla maggior parte dei tecnici dell’ambiente cestistico sembrava proprio che con Bovone l’Italia avesse trovato anche il primo vero pivot moderno, l’uomo destinato a trascinare la Nazionale, il giocatore faro, il leader in tutti i sensi, l’uomo simbolo del movimento. Tanto per capirci, quello che poco tempo più tardi sarebbe diventato in tutto e per tutto Dino Meneghin.
A Enrico Bovone, invece, mancavano troppe cose, sotto tutti i punti di vista. Un po’ lento nei movimenti, poco atletico, non è mai diventato quel crack assoluto che molti auspicavano, anche se dal punto di vista tecnico è via via migliorato con il passare degli anni, costruendosi, tra l’altro, un gancio che non sarà stato il gancio cielo di Kareem Abdul-Jabbar, ma che non era affatto male.
Dopo gli esordi varesini, dove conquistò nel 1967 una Coppa delle Coppe in finale contro il Maccabi di Tel Aviv, il passaggio a Milano, sponda All’Onestà, senza mai convincere fino in fondo, poi con la maglia arancione della Snaidero Udine a fianco dell’americano Joe Allen, centocinquanta chilogrammi di ciccia e di tecnica sopraffina, sembra finalmente lasciarsi alle spalle tutte le insicurezze una volta per sempre, tanto che nella stagione 1971-72, con ventuno punti e quindici rimbalzi a partita, risulta il primo marcatore e rimbalzista italiano del campionato.
Infine, nel 1973, l’approdo a Siena nella Mens Sana di Ezio Cardaioli, per formare con Carl Johnson una coppia di lunghi unica per quei tempi e dove visse ancora delle buone annate. Una volta chiusa la carriera da giocatore, nel 1979 veste per una sola stagione il ruolo di direttore sportivo della società senese. Quanto basta per rendersi conto che di basket ne ha ormai abbastanza.
Le ultime notizie dicevano che si era stabilito definitivamente a Siena, dove si era trovato bene e aveva messo su anche famiglia. Poi il silenzio. Conoscendo il personaggio, tutto lasciava pensare che il rientro nell’anonimato fosse più che gradito, ma alla luce del triste epilogo della sua storia evidentemente le cose non devono essere andate per il verso giusto.
Quel che è sicuro è che il pubblico non lo ha mai amato veramente. I tifosi avversari lo bersagliavano con cori di sfottò «Bovone, Bovone, sei lungo e…», quelli della sua squadra lo vedevano come un mercenario, uno che giocava solo per i soldi e che non aveva il famoso attaccamento alla maglia. In quegli anni alla guida degli azzurri c’era Giancarlo Primo, grande cultore della difesa e del lavoro duro in palestra, e tra i due la scintilla non è mai scattata. Fatto sta che anche in Nazionale, nonostante le sessantacinque presenze (tra cui una partecipazione olimpica a Città del Messico, nel 1968), Bovone fu un eterno incompreso. D’altra parte il cestista piemontese in tutta la sua carriera è stato sempre visto come uno che avrebbe potuto spaccare il mondo e fare sfracelli e che invece si limitò a fare il compitino.
Il fatto è che a lui di spaccare il mondo e fare sfracelli non importava un bel niente. Sì perché, per sua stessa ammissione, non ha mai avuto il sacro fuoco per il basket. Anzi, per dirla tutta fino in fondo, senza quei duecentodieci centimetri che si portava dietro, Enrico Bovone non avrebbe mai messo piede in un palazzetto né da giocatore, né tantomeno da spettatore. Potete stare tranquilli che non gli è mai passato per l’anticamera del cervello di fermarsi un minuto di più al termine dell’allenamento per partecipare a una di quelle sfide di tiro tra compagni, abbastanza comuni a quei tempi, così tanto per vedere a chi sarebbe toccato pagare l’aperitivo.
Un uomo indimenticabile
Chi lo ha visto giocare dal vivo non lo può dimenticare. Dinoccolato, vagamente assente, dava l’idea di trovarsi in mezzo a un campo di basket più per caso che per volontà. Prendendo a prestito un termine teatrale, potremmo definire il suo modo di giocare estraniato. Che segnasse un canestro o che gli venisse fischiato un fallo contro, magari ingiusto, aveva sempre stampata in faccia un’espressione languorosa e impenetrabile alla Buster Keaton. Nessuno mi toglierà mai dalla testa che il vero, autentico, Enrico Bovone era quello che nel frastuono assordante dei tifosi durante i time out se ne stava lì impalato ad ascoltare l’allenatore, le mani sui fianchi, una gamba leggermente piegata, con quell’aria un po’ così e quell’espressione un po’ così… L’impressione era che si stesse annoiando moltissimo e avrebbe voluto essere da tutt’altra parte.
Magari – chissà? – a fare un lungo giro da solo in macchina, mentre fuori piove.
Silvano Calzini
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Riceviamo e volentieri pubblichiamo una toccante testimonianza del famoso scrittore e saggista Mauro della Porta Raffo:
“Sono capitato nel vostro sito per caso, cercando notizie su Enrico Bovone e trovando l’ottimo articolo che gli ha dedicato Stefano Calzini.
Ho conosciuto Bovone nei suoi anni varesini.
Non che mi sia riuscito di essergli amico, no.
Se ne stava volentieri per conto suo.
Di quando in quando, ci trovavamo in treno, Ferrovie Nord verso Milano.
Frequentava ingegneria, se ben ricordo.
All’epoca, giovane davvero, non gli riusciva ancora – se mai gli riuscirà dopo – di sopportare l’attenzione che i suoi due metri e dieci suscitava e, soprattutto, le frasi cretine che gli venivano rivolte.
Ricordo in particolare la fastidiosissima, guardando alla smorfia che faceva, domanda “Che aria tira lassù?”.
In uno sport nel quale più si era lunghi e più si ‘doveva’ essere bravi e possibilmente ‘decisivi’, lui, il più lungo, non ebbe mai a sfondare.
Una certa naturale lentezza, certo.
Ma anche una una sottesa insofferenza dettata da una qualche riflessione interiore che lo aveva portato a concludere che non gli andava d’essere considerato solo per l’altezza, quasi fosse un fenomeno da baraccone.
E deve avere sempre sofferto se è vero che a solo quarantasei anni si è tolto la vita.
Appresa la brutta notizia, come m’accade invariabilmente in questi casi, mi sono chiesto se non fossi in qualche modo, sia pure in piccolissima parte, responsabile di quel definitivo gesto.
Chissà?, ho pensato, come sarebbe andata la sua vita se non l’avessi trascurato?
Se avessi coltivato quel nostro rapporto così da trasformarlo in amicizia?
Sono sempre, almeno in parte, colpevole, lo so!”
Mauro della Porta Raffo
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Riceviamo e volentieri pubblichiamo in calce all’articolo una toccante testimonianza del famoso scrittore e saggista Mauro della Porta Raffo.
Io invece ho conosciuto Enrico più di qualsiasi altra persona tanto che mi bastava vedere di sfuggita uno spezzone della Domenica Sportiva per sapere come sarebbe stata la settimana successiva, tanto che quando nel 1980 ho saputo che gli era nata una bimba sapevo già che nome le avrebbe dato prima ancora che me lo dicesse… Ci siamo conosciuti per caso esattamente 44 anni fa e subito in una lunga conversazione sulla sua Seicento sotto casa mia ci siamo capiti e ci siamo sentiti simili. Da quel giorno di dicembre del 1969 ci siamo visti o allontanati, ma sempre quando ci vedevamo anche dopo mesi o anni era proprio come ci fossimo parlati solo poche ore prima:una fratellanza, un’amicizia, un’empatia come non ho vissuto con nessun’altra persona. È vero, non sempre aaveva voglia di raccontarsi, ma con me lo ha fatto spesso ed è l’unico che capiva molte cose di me, anche solo dal tono della mia voce al telefono: nel 1992 mi sentì una volta molto triste per una mia questione sentimentale e subito mi “ordinò” di andare il giorno successivo in ufficio a chiedere le ferie per andare a Siena da lui perché non voleva che restassi sola a Milano così giù di morale. Questo era Enrico Bovone, un uomo unico al di là del suo carattere riservato ma non certo egoista e chiuso in se stesso. Non lo sentivo da un po’ quando ho saputo della sua scelta di uccidersi e quindi non so perché lo ha fatto, anche se penso di aver capito, come negli anni avevo capito le cose che ai più sembravano strane ed invece non lo erano nell’uomo Bovone. Avevo da poco cambiato numero di telefono ed era invisibile. Se lo avesse avuto mi avrebbe chiamato e qualcosa sarebbe cambiato nelle sue scelte? Quando aveva divorziato dalla prima moglie ed aveva problemi con la figlia era venuto da me a parlarne: forse lo avrebbe fatto anche questa volta ed a volte penso a quel numero di telefono cambiato… accanto ad un rimpianto mai sanato resta però l’impressione che cmq Enrico ci sia, nei miei pensieri e nella mia realtà quotidiana. “Che cosa vuol dire che tra un uomo ed una donna ci può essere qualcosa di più importante dell’amore? Quest’amore si chiama carità. Ma se l’altra persona scompare? Possiamo amare noi stesso sparito?” scriveva cesare Pavese in un libro che avevo regalato ad Enrico. Io la risposta ce l’ho per quel che riguarda noi due: Enrico è morto ma non sparito sino a quando ci sarà qualcuno che lo ha conosciuto davvero e lo ricorda come fosse ancora qui.
semplicemente… grazie
Dopo quasi quarantanni che ho interrotto l’attività agonistica, mi è venuta voglia di scrivere un libro, attualmente ancora non terminato, su quello sport che allora si chiamava solo “pallacanestro”.
Uno dei capitoli già scritti è dedicato ad Enrico, nato a pochi chilometri da Tortona, la mia città, nella quale giocò il primo campionato allenato da colui che lo porterà a Varese alla corte di Borghi, cioè Nico Messina, uno dei precursori della pallacanestro nella zona .
Ebbi occasione di giocare con Lui alcuni tornei, tra cui l’allora prestigioso Trofeo Melchionni di Alessandria del 1967, che vincemmo grazie a Bisson, Rusconi e Villetti, oltre che a Lui .
Nel mio libro, se mai verrà pubblicato, di Enrico si leggerà:
Un ultimo ricordo
Ho lasciato per ultimo Enrico Bovone: voglio riportare le belle parole che proprio di Enrico scrisse Silvano Calzini :
“…..un campione ed un uomo fuori dalle righe, non fosse altro perché mandava a quel paese un bel po’ di stereotipi e di luoghi comuni sugli eroi – o presunti tali – dello sport. Uno di quei tipi che tutti frequentano per anni, ma che poi in realtà nessuno conosce veramente. Sembra strano a dirsi per un omone alto due metri e dieci, ma l’impressione è quella di trovarsi davanti a una sorta di gigante invisibile, nonostante sia stato nel bene e nel male protagonista nel basket italiano per una quindicina di anni.
Dopo la tragica fine del 2001 Enrico Bovone, che era nato a Novi Ligure nel 1946, è finito subito nel dimenticatoio.
Il mondo dello sport non ama queste storie senza lieto fine che rischiano di metterne in discussione le fondamenta, spesso costruite con panna montata. Certi atleti problematici sono complicati da gestire quando sono in attività, figuriamoci quando decidono di salutare la compagnia e di togliere il disturbo.
Bovone poi, tanto per non disturbare, si è risparmiato pure i saluti. E poi il personaggio era di difficile collocazione. È molto probabile che nessuno sapesse bene dove metterlo quel tipo strano, che
rideva di rado, poco portato ai gesti eclatanti, ai proclami ai tifosi e con quell’aria sempre un po’ annoiata. “
Anche io non avrei infatti saputo dove inserirlo, se nei compagni od avversari, avendo giocato con o contro di Lui solo in qualche torneo: forse avrei potuto metterlo tra i campioni, anche se Lui era un anti-eroe per eccellenza ed infine mi sembrava anche poco adatto inserirlo negli amici che mi hanno lasciato, non avendo avuto più modo di vederlo per tanti anni.
Recentemente Gabriele Grandi, un grande amante della pallacanestro, gli ha scritto un rinnovato saluto che si conclude così:
“Ciao Enrico, gigante buono e fragile, spero che nell’azzurro dove sei adesso tutto sia come tu avevi immaginato che fosse quando ci hai detto che saresti partito.”
Il 3 maggio 2001, nella campagna intorno a Siena, fu trovato il suo corpo senza vita .
In quei giorni ero all’estero per lavoro e seppi della Sua morte solo al rientro a casa: Loredana infatti mi aveva conservato i pochi articoli di giornale relativi al fatto.
Quel giorno, dopo averli letti due, tre volte, piansi: piansi di tristezza per aver perso un amico e non averlo potuto accompagnare in quell’ultimo viaggio, piansi di dolore per come era morto, ucciso, a poco più di cinquant’anni, da un colpo di pistola sparato dalla troppa solitudine, ma soprattutto piansi di rabbia, leggendo di quanta poca gente fosse presente al funerale, perché tanti, anzi troppi, si erano scordati di Lui.
Non potevo credere che potesse essere stato dimenticato colui che il grande Aldo Giordani aveva definito il primo Gigantissimo del nostro Basket: Enrico aveva vinto scudetti, Coppe europee, partite in Nazionale, aveva segnato un’epoca, insomma era stato un campione !
Eppure questa è stata la tragica realtà dei fatti.
Addio Enrico, posso solo augurarTi di aver trovato lassù degli amici più disponibili a darTi quanto un uomo buono e fondamentalmente solo si è meritato.
Grazie, Mauro, per la tua sentita testimonianza. Tienici informati sul tuo libro.
ho visto Bovone giocare a Udine, nella Snaidero basket senza americano-tale Nelson- che dopo 4 partite rientro’ negli USA. Il vero americano era Bovone:fece un grandissimo campionato.L’anno dopo, invece , deluse.
Non sapevo fosse morto cosi’.Mi spiace, era una persona solitaria e introversa, purtroppo.
il grande enrico per due anni amico e ospite della stessa pensione a udine dove studiavo
un simpaticone triste e felice ma con un cuore fantastico
mi sei mancato DUCA
un giorno andremo a far bisboccia lassu nelle pizzerie