Enrico Albertosi

Albertosi con la maglia del Milan (Getty Images)

Albertosi con la maglia del Milan (© Getty Images)

 

La parabola del “cow-boy”

Pontremoli, alta Lunigiana: nel cortile dei Salesiani si gioca a pallone su un campo in cemento; l’Italia del dopoguerra è un paese con le pezze ai pantaloni che cerca di risollevarsi sudando e sognando con le canzoni di Sanremo, i film del neorealismo e quella benedetta palla che nemmeno durante la guerra ha mai smesso di rotolare. Tra i ragazzini in campo, a guardia della porta, anche lui, Enrico Albertosi. Suo padre fa il portiere nella squadra del suo paese e lui passa le domeniche a guardarlo per rubarne i segreti.

Quando viene il suo momento si capisce subito che il ragazzo è destinato a palcoscenici più importanti, e così nel 1954 a soli quindici anni è già un giocatore dello Spezia. Il padre vorrebbe continuasse a studiare, la madre gli dice: «Vai pure».

La cittadina ligure dista poco dal paese natio, ma arrivare puntuali agli allenamenti non è mai stata la specialità di Enrico, così alle volte è il vecchio Edo, massaggiatore della squadra, a doverlo andare a prendere a casa.

Nel 1958 la Fiorentina decide di investire su quell’acrobata dal riflesso felino e se lo porta a casa per farlo crescere con calma alle spalle di Giuliano Sarti. Si racconta che al Campo di Marte durante gli allenamenti Enrico giocasse a provocare il più famoso collega e lui lo apostrofasse: «Guarda che tanto il titolare sono io».

Ma il ragazzo di Pontremoli il 15 giugno 1961 esordisce in Nazionale, nella vittoriosa gara interna contro l’Argentina terminata 4-1 per gli azzurri, quando addirittura è ancora riserva di Sarti. L’anno seguente viene convocato per i mondiali in Cile.

Sarti capisce di aver fatto il suo tempo ed allora accetta la corte dell’Inter e lascia campo libero al giovane rivale, che dalla stagione 1963-1964 inizia la sua avventura di titolare in serie A.

La partita del secolo

Un salto di dodici anni, la TV in bianco e nero, le immagini e la voce del telecronista Nando Martellini che arrivano da un paese lontano, una partita che tiene incollati alla televisione milioni di italiani: siamo al 17 Giugno 1970, l’Italia supera per 4-3 nella semifinale dei Campionati Mondiali di calcio la Germania Ovest, in quella che entrerà nell’immaginario collettivo come la partita del secolo, ed Albertosi è il portiere azzurro, quello che sbraita per incoraggiare i compagni, quello che li rimprovera per aver concesso a Karl-Heinz Schnellinger di riacciuffare il pareggio oltre il novantesimo minuto, quello che insulta Gianni Rivera abbracciato al palo, reo di non essere  riuscito a deviare la debole incornata di Gerd Müller, e lo spaventa al punto da indurlo, secondo la leggenda, ad andare a segnare il gol della vittoria per evitare le sue ire; è anche quello che si erge a barriera dei tiri tedeschi e vola, vola a deviarne gli insidiosi tentativi. Enrico a 31 anni entra definitivamente nella storia.

E’ una bella rivincita per lui che nel 1966, al suo secondo Mondiale, aveva dovuto mandar giù il boccone amaro del gol del coreano Pak Doo-Ik, costato l’eliminazione alla Nazionale di Edmondo Fabbri; lui che nel 1968 dopo il passaggio, non voluto, al Cagliari, aveva visto i vecchi compagni della Fiorentina vincere subito lo scudetto senza di lui, che nel frattempo si era anche dovuto ricostruire una credibilità, per difendersi dall’attacco di quel giovane friulano, di nome Dino Zoff, suo sostituto nei vittoriosi Europei del 1968. C’era voluto un campionato con il Cagliari del “bomber” Gigi Riva, nella stagione 1969-1970, e uno scudetto vinto con soli undici gol subiti in trenta partite, ed una serie di miracoli in grande stile, per convincere di nuovo il commissario tecnico azzurro, Ferruccio Valcareggi, ad affidargli la maglia di titolare alla vigilia dei Mondiali in Messico: adesso aveva finalmente dimostrato a tutti di che pasta era fatto.

Albertosi in azione nel corso di Italia-Germania 4-3

Albertosi in azione nel corso di Italia-Germania 4-3 (© Getty Images)

 

Era un uomo di talento che non si arrendeva mai, uno sceriffo dell’area di rigore che parava la vita a mani nude guardandola in faccia, come faceva coi palloni che usciva a bloccare sui piedi dei giocatori.

Tornò a Cagliari, nel frattempo diventata la sua reggia, e riprese la vita di sempre: calcio, sigarette, cavalli, amici e tanto pallone. Guascone, spettacolare negli interventi, goliardico, di grande personalità, attore sempre protagonista nel bene e nel male di ogni recita che lo riguardasse, Ricky, questo il soprannome con cui da sempre Enrico veniva chiamato, amava dire: «Il portiere non deve mai ammettere l’errore». Ecco perché urlava ai compagni anche quando la colpa era sua.

Alla corte del Diavolo

Dopo il Mondiale in Germania nel 1974, a cui aveva assistito dalla panchina, e che sancì il tramonto della generazione dei “Messicani”, all’età di trentacinque anni, per alcuni già sul viale del tramonto, Enrico sentì che era venuto il momento di lasciare l’isola. Cedette alle lusinghe  rossonere e si trasferì a Milano. Il Milan di quegli anni però non era certo lo squadrone che con Nereo Rocco aveva fatto incetta di trofei, anzi per dir la verità portava ancora addosso la ferita del campionato 1972-73, perso all’ultima giornata con il 5-2 subìto nella fatal Verona. Soprattutto, dall’addio del leggendario Ragno Nero, Fabio Cudicini, ancora andava cercando un portiere all’altezza.

San Siro, stadio di palato fine e tribune esigenti, non ci mise molto ad innamorarsi di quel suo nuovo inquilino, dei suoi maglioni gialli, di quel suo incedere dinoccolato da cow-boy, come lo definì Sandro Ciotti, e ben presto scoprì di non poter più fare a meno della sua rassicurante presenza.

Nel Campionato 1976-1977 il Milan naviga in zona retrocessione,  rischia l’inverosimile, si parla persino  di retrocessione, ma in porta c’è lui, che a trentotto anni suonati con i capelli e i baffi nel frattempo diventati lunghi, vola come un angelo, con l’entusiasmo intatto di quando al Campo di Marte a Firenze cercava di strappare il posto a Giuliano Sarti.  Gli avversari sono spesso annichiliti dalla sua personalità, dal quel colpo di reni che ancora lo fa inarcare in aria fino a disegnare parabole assurde; il suo fisico è quello di un superman indistruttibile che sfida le leggi del tempo e della gravità. Albertosi è il salvagente di quel piccolo Milan e la tifoseria lo erige a idolo della curva.

Il Milan di Albertosi festeggia lo scudetto della stella

Il Milan di Albertosi festeggia lo scudetto della stella (© Getty Images)

 

Sono gli ultimi bagliori prima del tramonto di capitan Gianni Rivera, la bandiera rossonera, e per fortuna al capezzale della squadra meneghina arriva Nils Liedholm, che amalgamando la saggezza di qualche vecchio con la baldanza di alcuni giovani interessanti riesce a centrare il decimo scudetto, quello che vale la sospirata stella. L’onta del 1973 è finalmente lavata, tutto il popolo rossonero è in festa: è l’estate del 1979, Albertosi va per i quarant’anni.

La sera del 3 ottobre 1979 il Milan disputa finalmente una gara di Coppa dei Campioni dopo tanti anni di attesa: la squadra avversaria è il Porto, i tifosi non stanno nella pelle, a un tratto però un tiro maligno di un certo Duda sfugge alle braccia del portierone rossonero, sorprende lui e sorprende chi osserva, e, finendo inopinatamente in fondo alla rete, sancisce la prematura fine  di un sogno, la definitiva eliminazione dalla competizione continentale. Qualcosa si rompe per sempre nel rapporto d’amore tra Ricky e la tifoseria, è l’inizio  di una stagione che non porterà nulla di buono.

Un errore fatale

Arriva una disgraziata domenica del 1980 e le manette scattano ai suoi polsi: otto giorni recluso nel  carcere di Regina Cœli, e l’umiliazione di passare per un ladro, un furfante. Ma cos’era davvero successo?

È una brutta storia di corruzione, di soldi da far avere alla Lazio perché il Milan vincesse la partita contro i biancocelesti: Albertosi avrebbe avuto il torto di riferire l’offerta indecente alla dirigenza rossonera, che poi l’avrebbe accettata. Nella stagione in cui esplode lo scandalo del calcioscommesse, Albertosi verrà radiato.

«Se la prendono con me perché sono vecchio» dichiarerà lui agli organi di stampa, ma ormai non c’è più niente da fare. In pochi sono disposti a credergli. Così, nell’estate del 1982, quando ormai tutti sembrano essersi dimenticati di lui, l’Italia guidata da capitan Zoff si laurea Campione del Mondo in Spagna e la Federazione Italiana Gioco Calcio decide di conseguenza di concedere l’amnistia a tutti gli squalificati ed ai radiati.

Albertosi ha quarantatré anni, ma decide di tornare in campo nelle file di una squadra marchigiana di C2, l’Elpidiense, dove resterà solo per due stagioni. Darà l’addio al calcio giocato all’età di quarantacinque anni. Il calcio che conta non cercherà mai di riabbracciarlo, di usufruire della sua immensa esperienza e popolarità, lo lascerà un po’ ai margini, come si fa con quei parenti che si preferirebbe non avere, e lui, uno dei portieri più forti della storia, dopo qualche anno da allenatore dei portieri nelle giovanili della Fiorentina, si ritirerà a vita privata.

Oggi è un signore in pace con sé stesso, innamorato della sua sera, che si gode il mare di Forte dei Marmi, l’amore della sua compagna e del  figlio, lontano anni luce dal calcio dei riflettori e delle televisioni.

Marco Tonelli
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