Giuseppe Meazza

Giuseppe Meazza

Giuseppe Meazza

 

Le stagioni del Balilla

Il nome è lì, inciso a grandi caratteri sulla lastra bianca, lettere che si offrono allo sguardo distratto delle folle di tifosi di passaggio pronti a invadere le tribune per acclamare, incoraggiare, inveire.

Sono forse pochi quelli che ancora gli dedicano un’occhiata: una targa commemorativa, in fondo, appare come un cenno funereo in un ambiente palpitante di vita.

Ora solo il nome, lettere anonime e regolari, per ricordare l’uomo, Giuseppe Meazza. Se solo potesse parlare quante storie racconterebbe: allora tutti i passanti si arresterebbero rapiti ad ascoltare e capirebbero che il calcio non è soltanto la partita disputata in quel campo illuminato da luci iridescenti. Eppure la lastra bianca tace, non ci svela antefatti, semplicemente recita così: «A Giuseppe Meazza, espresso dal suo cuore generoso, il popolo di Milano intitola questo glorioso stadio più volte illuminato dalle sue gesta di atleta».

Meazza in azione

Meazza in azione

 

Gli hanno offerto un posto d’onore, nel tempio del calcio italiano che ha ereditato il suo nome, un rettangolo per continuare a osservare le imprese che hanno fatto la sua vita. Calciatore di tutti gli italiani: i suoi colori sono passati dalle gradazioni nerazzurre a quelle rossonere per poi approdare a quelle bianconere; una fede così universale, quella che lo legò al calcio, da non conoscere barriere di sorta. Un talento incommensurabile come il suo non poteva essere imbrigliato nei confini di una squadra: Giuseppe Meazza è stato il fiore all’occhiello dell’Italia, orgoglio di tutti i tifosi che in lui vedevano il simbolo della propria nazione.

Il ragazzo di Porta Vittoria

Una nazione che raccoglie le sue forze, a fatica, per sfidare il mondo agli albori della Grande Guerra. Il piccolo Peppìn portava tutti i segni della sua epoca: un fisico gracile, mingherlino, testimone di grandi ristrettezze, e quella mania di giocare a piedi scalzi per la strada pur di non rovinare il paio di scarpe buone, quelle belle, comprate da mamma Ersilia con i risparmi racimolati vendendo frutta al mercato. Scorrazzava per le vie del quartiere popolare di Porta Vittoria assieme ad altri bambini denominati “i maestri campionesi”, affannandosi con loro dietro un pallone di stracci in un gioco privo di tecnica, basato su scatti fulminei e rapidi lanci. Si era conquistato il ruolo di centromediano, una posizione privilegiata da cui dare libero sfogo alla sua inesauribile sete di gol.

Fonda una squadra, la Costanza, iniziando così a giocare nei primi tornei serali e, già ammaliato da grandi prospettive, sogna di trionfare nel Milan, la squadra del suo idolo Luigi Cevenini, detto Zizì. Quella guerra, però, che gli strappò il padre in tenera età, si è insinuata nelle sue ossa, nella sua struttura fisica: agli osservatori rossoneri appare un tredicenne gracile, denutrito, dai polmoni deboli, non ne intuiscono la stoffa e lo scarto è inevitabile.

Meazza contro la Grecia nel 1934

Meazza contro la Grecia nel 1934

 

Non sanno che sotto quelle spoglie di apparente fragilità si nasconde un fuoco destinato ad avvampare, la stessa volontà di riscatto di un’Italia ferita che ricerca nelle sue ceneri la forza necessaria per risorgere. Giuseppe è nato in quest’Italia, umiliata ed offesa, ne conserva le stesse potenzialità: nelle sue vene scorre il sangue del figlio della guerra, di chi sa scorgere fra le macerie non solo calcinacci, ma mattoni utili a ricostruire.

Alla corte di Weisz

I suoi sogni non verranno infranti, le aspettative non saranno deluse. Fra le file di spettatori, Fulvio Bernardini lo osserva giocare nel Campionato ragazzi e consiglia il suo nome al tecnico dell’Inter, Árpád Weisz, perché venga inserito in prima squadra. Al principio Weisz è restio ad accogliere il giovane, ma la pressione di Bernardini è insistente ed infine lo piega. Quella decisione sancisce l’inizio di un lungo sodalizio fra i due: Weisz si impegna ad allenare Giuseppe per rimediare alle sue carenze, come il colpo di testa, imponendogli di palleggiare per ore contro il muro del carcere di San Vittore, scelto perché in grado di imprimere traiettorie irregolari alla palla. Un destino contraddittorio quello dell’allenatore ebreo che fece trionfare la sua squadra nello scudetto del 1930 per poi svanire nella scia delle sei milioni di vittime dell’Olocausto. Trovò la morte ad Auschwitz, dove fu deportato con la moglie e i due figli. Ora anche il suo nome è inciso su una lastra commemorativa nello stadio dedicato a Giuseppe, un altro tassello per rammentare una storia che fra le luci di San Siro si ricompone, tratto dopo tratto, ricongiungendo le persone dei cui respiri si era nutrita.

In quel lontano 1929 Peppìn, nel frattempo ricostituito con abbondanti dosi di bistecche, esordiva tra i nerazzurri ricoprendo il ruolo di centravanti. La sua giovane età era spesso oggetto di scherno per chi ancora non conosceva le sue capacità: un giocatore dell’Inter, Leopoldo Conti, sarcasticamente lo accolse esclamando: «Adesso andiamo a prendere i giocatori perfino all’asilo! Facciamo giocare anche i balilla!» Giuseppe smentì clamorosamente quell’affermazione disputando una partita eccelsa contro l’U.S. Milanese, segnando i tre gol che avrebbero condotto la squadra alla vittoria. Da quell’istante conquistò l’ammirazione dei compagni di squadra, tuttavia il soprannome “balilla” gli restò in qualche modo incollato addosso.

Dopo quel trionfo Meazza inanellò una serie di successi inarrestabili: il campionato del 1930 fu vinto dall’Inter (allora Ambrosiana, in ossequio all’autarchia fascista) proprio grazie a lui che, nella partita decisiva per l’assegnazione del titolo, compì uno straordinario recupero siglando tre reti nel secondo tempo. Una rimonta capace di consentire il pareggio con il Genoa altrimenti già avviato verso la vittoria con un lapidario 3 a 0.

Leggenda azzurra

Appena diciannovenne, Giuseppe entra a far parte della Nazionale e da subito si rivela la punta di diamante della squadra. L’11 maggio 1930 a Budapest gli azzurri annientano l’Ungheria con uno schiacciante 5 a 0: tre dei gol che decretarono la vittoria furono segnati dal Balilla. Ormai la sua straordinaria tattica di gioco stava diventando oggetto di emulazione; le sue punizioni dette “a foglia morta” attraverso cui aggirava la barriera avversaria erano temute dai portieri, ancor più i gol con cui Meazza vinceva la sfida contro la sua smarrita vittima di sempre – il portiere, così definito da Gianni Brera – costringendola a uscire dai pali della porta per poi dribblarla e gettare senza esitazione la palla in rete.

Meazza nella Nazionale italiana nel 1938

Meazza nella Nazionale italiana nel 1938

 

Le sue partite forniscono un repertorio di avventure mirabolanti degne di un’antologia narrativa: clamorosi furono, a loro tempo, i tre gol segnati contro la Roma in appena tre minuti di gioco. E ancora, finte degne di un genio criminale, come quella realizzata contro i terzini austriaci pronti a prendere possesso della palla, che lui evitò magnificamente bloccando d’improvviso il pallone sotto la suola e facendo scontrare gli avversari. Così, mentre quelli rovinavano a terra, lui continuava la corsa e realizzava senza indugi un altro gol. Naturale che la folla, guardandolo, sfiorasse il delirio.

La figura di Giuseppe, tuttavia, divenne leggendaria con i Mondiali del 1938: contro il Brasile Meazza condusse la squadra in finale compiendo un’impresa a metà fra il ridicolo e l’eroico. Al faccia a faccia decisivo con il portiere Walter, la violenza della rincorsa spezzò l’elastico dei pantaloncini di Peppìn. Seguirono istanti imbarazzanti fra lo stupore del pubblico e lo sconcerto del portiere, ma Mezza ruppe ogni indugio e, senza rallentare la corsa, segnò il gol di fine partita trattenendo i pantaloni con la mano.

A tanta grandezza doveva necessariamente seguire il declino. Soltanto un anno dopo questo memorabile trionfo Giuseppe cominciò ad avvertire dei dolori al piede sinistro. Si trattava di un’embolia e il fenomeno venne denominato “piede gelato”. Dopo un anno di inutili cure si rese necessario l’intervento chirurgico che sancì un allontanamento forzato dal mondo del pallone. In seguito a questo infortunio terminò l’indimenticabile stagione del Balilla con la sua squadra di sempre, l’Inter: al suo ritorno in campo Peppìn indossò la maglia rossonera.

Fu il principio di un periodo travagliato: la degenza aveva consumato le forze del grande fuoriclasse, che dopo due stagioni giocate con il Milan passò alla Juventus. Firmò il contratto con i bianconeri dopo aver interrotto un allenamento davanti al Comunale, sdraiandosi sull’erba per scrivere meglio: la trasparenza del gesto indicava la sua scarsa formalità o forse già la sua stanchezza. La sua prima partita con la Juve non sortì gli effetti sperati, fu una grigia sconfitta per 5 a 2 contro il Torino. Inaspettatamente, però, più tardi sarebbe arrivata la riscossa: Meazza disputò ventisette partite su ventotto regalando alla Juventus una serie di successi, perfino contro la sua vecchia squadra, l’Inter. Giunse poi la guerra a cancellare il campionato, la vita assunse un nuovo corso.

Tramonto di un campione

La scintillante stella di Meazza stava lentamente andando spegnendosi. Giuseppe disputò il Campionato di Guerra, nel 1943-44, con il Varese e per un breve periodo entrò nell’Atalanta di cui fu anche allenatore. Il talento, tuttavia, non s’insegna, questo il Peppìn lo capì presto. Starsene dietro le quinte a pilotare il gioco non gli dava soddisfazione: lui era stato unico ed era difficile dimenticare il fascino di quell’unicità, accettare che quel tempo fosse perduto.

Meazza sta per andare a segno

Meazza sta per andare a segno

 

La sua epoca d’oro era terminata, lui non era più il calciatore invincibile amante della bella vita che tanto faceva penare gli allenatori con le sue scorribande, avendo comunque la certezza di essere sempre perdonato perché miracoli come i suoi non li compiva nessuno. Una volta addirittura si era presentato allo stadio cinque minuti prima dell’inizio della partita, proprio quando tutti si disperavano su come rimediare alla sua assenza: giovane scanzonato qual era si cambiò in pochi minuti e con naturalezza entrò in campo. Mise a segno una tripletta e nessuno fra il pubblico ebbe ragione di sospettare quel ritardo, persino i dirigenti dell’Inter decisero che quella notte goliardica di donne e champagne poteva tranquillamente essere dimenticata.

Questi ricordi Giuseppe iniziò col tempo a sfogliarli fra le pagine della sua memoria, pur restio ad accettare che parte della sua gloria fosse svanita. Lo chiamavano ancora il Balilla, ma gli anni avevano gettato un’ombra su quel nomignolo facendolo apparire fuori luogo, come l’araldo di una gioventù ormai perduta.

La sua morte, avvenuta nell’agosto del 1979, segnò il termine di un’epoca per tutti coloro che erano cresciuti sotto la luce abbagliante delle sue imprese. Avevano visto il loro campione sbocciare e poi sfiorire lentamente, una lenta agonia da cui lui cercò di risparmiare i più allontanandosi a poco a poco dal mondo. La malattia lo colse impreparato ad accettarla, quasi imbarazzato all’idea di ammettere che fosse giunta la fine.

Rimane quel nome inciso sulla lastra bianca nel tempio di acciaio, lo stadio milanese di San Siro, dove un tempo si erano levati dei cori in suo onore.

Alice Figini
© Riproduzione Riservata

 

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