Johan Cruijff

Johan Crujff in azione

Johan Cruijff in azione

 

Il campione totale

Riposte le divise stirate e profumate di fresco negli armadietti degli spogliatoi, la signora Nel, lavandaia dell’Ajax, si avvicinò al responsabile del settore giovanile. «Posso portare qui mio figlio?» provò a chiedere. «Adora giocare a pallone». Il ragazzino allampanato che pochi giorni più tardi varcò i cancelli del club olandese, una carriera dopo avrebbe potuto asserire: «Non penso che arriverà il giorno in cui, quando si parla di me, la gente non saprà di chi si stia parlando». Si chiamava Johan Cruijff. Sarebbe diventato il profeta del calcio totale.

A Johan, nato ad Amsterdam il 25 aprile 1947 e cresciuto all’ombra dello Stadion De Meer, nel quartiere popolare di Betondorp, non parve vero di indossare la maglia biancorossa. Ogni pallone lanciato contro i palazzi di via Tuinbouw era stato un calcio agli stenti e alle difficoltà della sua vita, segnata dalla prematura scomparsa del padre Manus, e un passo verso il sogno di sempre: la magia di giocare in un vero campo.

Eppure è grazie alle partitelle improvvisate sull’asfalto – quel voetbalstraat (in italiano calcio da strada) un tempo laboratorio di fantasia, scatto e controllo di palla – che Johan, quando entra nella società della sua squadra del cuore – l’Ajax, appunto – , è in grado di arrivare fino a centocinquanta palleggi consecutivi. In controluce, un fisico di cristallo che lui stesso aveva invano cercato di irrobustire allenandosi con le tasche della tuta cariche di sacchetti di zavorra.

Un talento precoce

Per sua fortuna non è l’epoca del calcio atletico: il talento conta più dei muscoli e Rinus Michels, nuovo coach dell’Ajax, riconosce in Johan un fuoriclasse. La crescita del ragazzo è esponenziale: Cruijff – numero quattordici sulle spalle, in omaggio all’età in cui ha vinto il suo primo torneo – mette al servizio della squadra le sue straordinarie doti tecniche: il dribbling secco, la velocità d’allungo e soprattutto una disarmante versatilità tattica, che gli permette di scorrazzare con disinvoltura per tutto il campo. Il suo gioco universale diventa l’incarnazione della filosofia sportiva di Michels: ogni gara è una guerra e tra i Lancieri (così sono noti – ma solo in Italia – i giocatori dell’Ajax) non sono ammessi che soldati semplici, pronti a scambiarsi i ruoli per sdoganarsi l’un l’altro verso la porta avversaria, nella convinzione che la miglior difesa sia l’attacco. È una rivoluzione: la beat generation nel calcio ha i capelli lunghi e i piedi d’oro di Johan e compagni.

Un giovanissimo Cruijff con il suo allenatore Michels

Un giovanissimo Cruijff con il suo allenatore Michels

 

A partire dalla stagione 1965-66 l’Ajax conquista tre campionati nazionali consecutivi e una Coppa d’Olanda. Nel 1969 potrebbe addirittura addentare il boccone più ghiotto, la Coppa dei Campioni, se in finale non si imbattesse nel Milan di Nereo Rocco. È una gara senza storia, con la classe di Gianni Rivera e la verve di Pierino Prati a eclissare un Cruijff paralizzato dalla marcatura di Giovanni Trapattoni. Finisce 4-1 per i rossoneri, ma i Tulipani impareranno la lezione.

Due anni dopo, sul tetto d’Europa saliranno loro, aggiudicandosi un’edizione avvincente nonostante l’assenza delle più blasonate squadre continentali.

Il 2 giugno 1971 è per l’Ajax il giorno della verità, l’occasione per capitalizzare il lavoro di anni: a Wembley, contro il Panathinaikos, il club di Amsterdam passa grazie a un gol di Dick van Dijk al 5′ e a un autogol del terzino greco Anthimos Kapsis nel recupero. Più che i numeri di Cruijff (che in finale spegne l’estro delle sfide precedenti), a impressionare il pubblico è soprattutto l’incessante movimento sulle fasce di Wim Suurbier e Johan Neeskens, ma ciò non impedisce a Johan di conquistare quell’anno il primo dei suoi tre Palloni d’oro.

Nel 1971-72 sulla panchina dell’Ajax siede il rumeno Stefan Kovács, che sviluppa il gioco di Michels – sedotto dalle pesetas del Barcellona – portandolo verso la perfezione assoluta. Cruijff è il capitano, l’anima, di una squadra che semina vittorie in campionato e travolge Olympique Marsiglia, Arsenal e Benfica in Coppa. Alla resa dei conti, gli olandesi trovano sulla loro strada un’altra italiana, l’Inter di Sandro Mazzola. La finalissima sarà un capolavoro.

Suona la carica Ruud Krol, colpendo un palo che fa tremare i nerazzurri, a cui risponde Roberto Boninsegna sfiorando il vantaggio. Poi inizia lo show olandese. L’Inter è schiacciata nella propria metà campo, in un assedio che non lascia respiro: non è calcio, signori, è arte. Nella notte stellata di Rotterdam, Giacinto Facchetti e i suoi devono arrendersi alla tela di gioco biancorossa. Cruijff è il mattatore dell’incontro, realizzando due reti e vanificando così il pur pregevole lavoro difensivo di Gabriele Oriali. Di nuovo campione d’Europa (e pochi mesi più tardi anche del Mondo, grazie alla vittoria contro l’Independiente nell’Intercontinentale), stavolta il numero quattordici non viene però insignito del Pallone d’oro, assegnato al tedesco Franz Beckenbauer.

Cruijff nell'azione in cui sigla il gol contro l'Inter

Cruijff sigla il gol contro l’Inter nella finale di Coppa dei Campioni

 

Torna a riceverlo l’anno dopo, quando tocca alla Juventus – ancora una squadra italiana – inchinarsi alla supremazia dell’Ajax. A Belgrado, ventimila tifosi bianconeri assistono impotenti alla vittoria dei ragazzi di Kovács, che difendono con i denti il vantaggio siglato dal giovane Johnny Rep dopo appena quattro minuti di gioco.

Ma se Dino Zoff e Roberto Bettega tornano a casa a mani vuote, Cruijff a casa propria non torna che per qualche settimana: nell’estate del 1973 le sirene catalane di Michels lo convincono a suon di soldi (mezzo miliardo il suo ingaggio, un miliardo e trecento milioni la cifra record sborsata agli azulgrana) a lasciare l’Ajax per il Barça, con cui trionfa in campionato infliggendo al Real Madrid un umiliante 5-0 al Santiago Bernabeu.

La delusione di Monaco

Baciato dai successi nelle competizioni per club, Cruijff non è altrettanto fortunato in nazionale. Anzi, la sua avventura inizia con un’espulsione alla seconda apparizione in maglia oranje, che gli costerà una squalifica di un anno da parte della Federazione. Con l’Olanda, ai Mondiali del 1974 Cruijff declina su scala mondiale il calcio totale dell’Ajax: i Tulipani arrivano in finale in scioltezza, regalando ad ogni gara un saggio del loro brillante gioco corale. Ma nell’epilogo della manifestazione la fantasia olandese cede il passo alla solida precisione della Germania Ovest, che vince 2-1 davanti al pubblico amico di Monaco. Per Cruijff non ci sarà più un’altra chance: sensibile alle cause democratiche, ai Mondiali del 1978, che si disputano nell’Argentina della dittatura militare, Johan si rifiuta di giocare, respingendo persino l’appello della regina Giuliana.

Tra un’esperienza in America e il ritorno in Olanda – prima nell’Ajax, poi tra i rivali di sempre del Feyenoord – si chiude la carriera del Pelé bianco (così lo definì Gianni Brera), che tuttavia prima di lasciare definitivamente il mondo del pallone si cimenta nel ruolo di allenatore, aggiudicandosi con il Barcellona quattro campionati, una Coppa dei Campioni e una Coppa delle Coppe.

Oggi Cruijff – impegnato nelle iniziative della Fondazione a lui intitolata che promuove lo sport tra i bambini disabili – a parte il ruolo di sporadico commentatore per la televisione olandese, non ha più tempo per il voetbal. Resta, però, una pietra miliare del calcio. È il richiamo al fiatone di una corsa per sventare una rete, allo slancio di una fuga in porta, alla poesia di una prodezza: un calcio che appare tragicamente d’altri tempi, nonostante sia modernissimo.

La totalità di Cruijff, in fondo, non è stata che questo: aver creduto che il cammino verso il gol valesse almeno quanto il gol.

Graziana Urso
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