Mario Kempes

Mario Kempes ai Mondiali 1978

Mario Kempes ai Mondiali 1978

 

El Matador

È il Natale del 1977, estate, e in Argentina esce Star Wars, il primo film (primo in ordine di produzione, quarto in ordine cronologico) di George Lucas della fortunata saga fantascientifica che conoscerà immediato successo planetario. Verrà poi rinominato Episodio IV: una nuova speranza. Sei mesi dopo dalla prima argentina, nel celebre talk show di Mirtha Legrand – andato in onda in Argentina fino alla stagione 2011, sempre guidato dalla bella attrice ormai 83enne ma sempre vitale, elegante e ricoperta di gioielli -, è ospite un giovane calciatore dai capelli lunghi, dal piglio serio e il sorriso scanzonato. Indossa una felpa con stampati tutti i personaggi di Star Wars e, ignaro ambasciatore della propria felpa, è lui che incarna, quell’inverno, la nuova speranza argentina.

I Mondiali di calcio del 1978

Nel momento oscuro che attraversa il Paese, Mario Alberto Kempes, miglior marcatore del Mondiale di calcio del 1978 con 6 reti segnate (due alla Polonia, di cui uno di testa, due al Perù e altrettante alla finale contro l’Olanda), è l’ideale figura che si contrappone a quella del dittatore Jorge Rafael Videla. Nella dualità della terra argentina il giovane Kempes, soprannominato “el Matador”, il volto dell’euforia nella prima vittoria mondiale della “Selección”, è l’altra faccia argentina di Videla, “el genocida”, il volto responsabile delle sofferenze di un intero popolo sottomesso alla dittatura militare. Colui che con la capigliatura al vento regala tramite le sue azioni in campo brandelli di speranza effimera a una competizione (e a molte persone) il cui epilogo sembrava già scritto. È una vittoria controversa, quella degli albicelesti al Mondiale del 1978. La prima nella storia del calcio argentino. Grande l’assenza di “el Lobo”, “il lupo”, Jorge Carrascosa, capitano e cuore della nazionale argentina, pupillo del commissario tecnico César Luis Menotti. A lui, nell’eventualità, sarebbe toccato alzare la Coppa del Mondo al cielo. Invece all’ultimo momento sigla la sua convocazione con una frase e poi si chiude in silenzio, abbandonando il calcio giocato: «Io, il campionato del mondo non lo gioco». Mario Kempes arriva dalla Spagna, è l’unico convocato nella Selección a fare base fuori dall’Argentina, nella squadra del Valencia. Gli organizzatori nella prima fase arrivano secondi dietro alla nazionale degli Azzurri, ritrovandosi a fronteggiare nel secondo girone Brasile, Perù e Polonia. Nei primi tre match disputati a Buenos Aires, Kempes non riesce a infilare alcun gol. Nella trasferta verso Rosario, dove si sarebbe giocata la quarta partita, il ct Menotti, un po’ per ridere e un po’ per scherzo, gli dice: «Tagliati i baffi, vedrai che segni».

Mario Kempes con i baffi

Mario Kempes con i baffi

 Casualità o meno, l’Argentina vince 2-0 contro la Polonia, con doppietta di Kempes (e un fallo di mano che costerà un rigore prontamente parato dal portiere argentino). La Selección pareggia poi 0-0 con il Brasile e arriva alla partita decisiva contro il Perù a parimerito con la Selecao, anch’essa reduce da una vittora (3-1 contro il Perù) e un pareggio. Per accedere alla partitissima finale, gli albicelesti devono segnare almeno quattro reti con tre gol di scarto, a causa dell’ottima differenza di reti del Brasile, che contro la Polonia si consolida per 3-1, in un incontro giocato due ore prima della partita Argentina-Perù. I padroni di casa vincono col netto (e sospetto) risultato di 6-0, in una vicenda che sarà nota come “marmelada peruviana” (marmellata peruviana), nome che riassume la scarsa performance del portiere peruviano (l’oriundo argentino, Ramón Quiroga), i sospetti sabotaggi, le copiose donazioni di grano che gli argentini fecero al Perù. Molte le polemiche: non solo il calcio è usato dalla giunta militare per tappare torture, sequestri e assassini, con nonne e madri che il regime vorrebbe invisibili e atone – e che invece cercano i figli scomparsi per le strade sovrastando le grida di giubilo “gol!” -, ma è un calcio che si gioca con lo spettro della disonestà. «Non giochiamo per quegli hijos de puta, ma giochiamo per alleviare il dolore di un popolo». Sarebbe l’allenatore Menotti a pronunciare la frase che ricostituisce la squadra argentina prima della finale, il 25 giugno a Buenos Aires, una frase pronunciata negli spogliatoi dello stadio del Riverplate, a meno di 1000 metri dalla Escuela Mecánica de la Armada, il più celebre campo di concentrazione della dittatura. I giocatori argentini entrano in campo “come gladiatori”, ricorda Kempes in una videointervista del febbraio 2012 all’Entertainment and Sports Programming Network. «Il rumore, fuori dalla cancha, i saluti, le bandiere,.. Quando esce la squadra già cominciano a cadere i coriandoli di carta dagli spalti». È proprio Kempes a regalare il titolo all’Argentina. Gli albicelesti passano in vantaggio sul finire del primo tempo e ci restano fino a 9 minuti dalla fine, quando l’olandese Dick Nanninga riequilibra la partita. L’incontro va ai supplementari: Kempes segna alla fine del primo e l’argentino Daniel Bertoni spegne con il terzo gol albiceleste le speranze dei tulipani, i più promettenti del Mondiale, a sei minuti dalla fine. «Il primo gol viene da una giocata a sinistra che la comincia Ardiles – ricorda Kempes nella videointervista -. La tocca Luque che la punta in mezzo. Quando io mi giro il portiere sta già uscendo. Gli passa sotto la pancia. Il secondo gol fu più complicato, il tiro va contro quasi alla costola del portiere e rimbalza. Io non so se ero il più vicino alla palla, o se loro (i due difensori) erano lenti, o io più rapido, ma allungo la gamba…. La gente era impazzita». L’erba è ricoperta di rettangolini di carta che biancheggiano sul tappeto dello stadio. La nazione, che aveva fermato per 120 minuti la sua vita (e le sue morti), esplode di gioia. I giocatori sfilano. Gli olandesi indignati per l’arbitraggio, rientrano negli spogliatoi dopo il fischio finale, senza salutare la tribuna.

La finale: Argentina campione mondiale (©AFP)

La finale: Argentina campione mondiale (©AFP)

Menotti e Kempes, apparentemente si dimenticano di stringere la mano al generale Videla. «C’era molta gente, eravamo rimasti lontani», dichiara Kempes all’indomani della vittoria. «Non volli proprio salutarlo», dirà invece in un’intervista del 2001 al giornale La Capital. «Non ho nemmeno toccato la Coppa da tanta confusione», rincara in un reportage a El Gráfico nel 2002. «Né quella notte né mai. L’unica Coppa che toccai fu quella di cioccolato, replica di quella del Mondiale, che mi spedì una pasticceria di Bell Ville». Cosa successe? «A noi giocatori non importava dei militari. Quelli, i Videla, i Galtieri, in assoluto si mettevano nella politica dello spogliatoio. A quell’epoca noi non sapevamo molto». Un imbarazzante silenzio internazionale accompagna i Mondiali della vergogna. Kempes è calciatore, un fuoriclasse con l’intuito del gol, e come tale si comporta sempre: «Che importa se quella partita è stata comprata, io gioco come sono capace, segno e che loro vadano al diavolo». È così questo numero 10 dal calzino basso che a scuola alla fine degli anni Cinquanta veniva chiamato “Panzón”, “pancione”. Potente, tecnico, mancino, fumatore («non più di dieci al giorno»), vincente nei rimpalli, nei rimbalzi, nelle punizioni, nei cross, nelle strette di mano negate. È la figura indiscussa del Mondiale 1978.

Kempes con la maglia del Valencia

Kempes con la maglia del Valencia

Al termine della competizione, torna a riparare a Valencia, dove veste la maglietta numero 9 dal 1976, dopo la consacrazione argentina a calciatore avvenuta tra le file del Rosario Central. Da allora in molti hanno imparato a riconoscere il ritmo del tango nel gioco valenciano. Per la verità, il debutto valenciano fu orribile: Mario deve affrontare il CSKA di Mosca per il Trofeo Naranja a meno di 24 ore dall’atterraggio nel vecchio continente. Il Valencia pareggia 2 a 2 e perde ai rigori. Mario ne sbaglia uno. I media non perdonano. Ma nella penisola iberica Kempes troverà successo sportivo e una moglie. Il River Plate lo farà “reimpatriare” nella stagione 1981-1982 con una complicata operazione finanziaria. La squadra non sarà in grado di pagare i 300 milioni di pesetas dell’ingaggio al Valencia e Kempes tornerà in Europa. A giudicare dal profilo di twitter, da cui nel maggio del 2013 si proclama “un tifoso in più del Valencia FC” e aggiunge l’hashtag #totspodem, slogan del Valencia, in terra iberica Kempes trova anche una nuova casa.

La vita, gli esordi

Mario è figlio d’arte: il padre, anch’egli calciatore, lo ha spronato a correr dietro alla palla sin da piccolo. Il signor Mario Kempes (padre) era un emigrante del Vecchio Continente che in barca era andato a cercare l’America in Argentina. Il suo vero cognome tedesco era Quemp, lo “ribattezza” un funzionario dell’ufficio migrazione e al tedesco non dispiace. Si stabilisce a Bell Ville, nell’interno, a sud-est di Córdoba, al confine con Santa Fe. Gioca con il numero 6 nella liga cordobesa, «un numero sei di quelli di prima – ricorda nella biografia del figlio – di quelli che dalla linea di mediana vengono mandati in avanti e coprono tutto lo stadio», nel Club Leones. Nel 1951 conosce e s’innamora di una giovane di ascendenza italiana che diverrà la moglie, Eglis Teresa Chiodi, proveniente da una famiglia tifosa della squadra avversaria dei Leones. Appianati i discorsi di tifoseria, si sposano. Il 15 luglio del 1954 nasce Mario junior, che entrerà nello spogliatoio di uno stadio per la prima volta della sua vita a un anno di età, seguendo le partite del padre. Un destino segnato nella traiettoria del pallone. Nel 1959 nasce il fratellino Hugo Sergio. Alla scuola il piccolo Mario preferisce tirare calci al pallone, usando anche un pezzo di legno al posto della palla, secondo quanto racconta nella biografia. A sette anni comincia a giocare nella squadra junior di Bell Ville, a 14 passa nelle riserve del Talleres. Al primo anno del collegio viene rimandato di sette materie a marzo e il padre lo manda a lavorare in una falegnameria. Il falegname è amico del presidente di una squadra di calcio di Cordoba e lo dice al piccolo Mario. «Se non fai due gol nel primo quarto d’ora però non ti prenderanno mai», lo avverte il falegname. Kempes ricorda bene la domenica in cui rimane solo in casa mentre la famiglia va a trovare i parenti della madre a Leones. Alle 9 del mattino arriva una telefonata dalla segreteria della squadra cordobese dell’Instituto, dicendo che lo vogliono per una partita amichevole contro Argentinos Central. Compra da solo il biglietto del bus, si presenta come “Mario Aguilera” visto che stanno cercando «un certo Mario Kempes che si crede un fenomeno e che varrebbe tre milioni di pesos». Marca tre reti, lo chiamano per un altro torneo quadrangolare, dove ancora una volta marca i punti decisivi, e il 10 marzo del 1972, con il permesso del padre, firma definitivamente a Cordoba l’ingaggio con il Club Instituto.

Mario tra le file dell'Insituto

Mario tra le file dell’Instituto

Ormai è “quel” Mario Kempes. Una firma da 3 milioni di pesos che sarà fondamentale per la sua carriera calcistica. Suo compagno di squadra è Osvaldo Ardiles. Nella sua prima partita in prima divisione Kempes affronta il 5 ottobre 1973 i Newell’s Old Boys. Quattro giorni più tardi trasforma il suo primo affondo in rete contro il River Plate. Dopo Instituto, passa al Rosario Central, vestendo i colori della squadra detentrice del titolo nazionale. Anche il Boca Juniors s’interessa al suo acquisto, ma offre 15 milioni di pesos contro i 130 che chiedeva la squadra cordobese. Alberto Armando, presidente del Boca, commenta «ho almeno altri cento giocatori come quello. Non vale il prezzo». Con la maglia del Rosario Kempes mette a segno 85 gol in 105 partite. Diventa “El Matador”. È questo il biglietto per il Valencia, dove vince la Copa del Rey (1979), la Coppa dei Campioni e la Supercoppa Uefa (1980). Soprannominato El Toro, vince per due anni consecutivi il Trofeo Pichichi, il premio al miglior attaccante, segnando 24 gol nella stagione 1976-77 e 28 in quella successiva. Con le sue 18 partite mondiali, è, dopo Maradona, l’argentino con più presenze. «La verità – ha confessato in una recente intervista, mostrando un’umiltà semisconosciuta agli dei del calcio – è che devo più io all’Argentina per avermi prestato la maglietta che non l’Argentina a me. Mettersi la maglia argentina, o quella del tuo Paese di appartenenza, è ciò che di più grande possa capitare a un calciatore». Nel 1982 torna a giocare nella penisola iberica, prima nel Valencia, poi nell’Hercules. Quelli che pensavano che la sua carriera fosse terminata dovettero ricredersi: la squadra di Alicante grazie a lui si mantiene in Prima Divisione e nell’ultima giornata è proprio Kempes a marcare il gol decisivo dell’1-0 contro il Real Madrid, in casa, nel tempio del Santiago Bernabeu. Nel 1986 lascia il Mediterraneo per le Alpi e passa in Austria, prima al First Vienna, poi al Sankt Polten e quindi nel 1990 al Kremser. I risultati non sono più quelli gloriosi, ma non è ancora il momento dell’addio. Nel 1993 per un breve periodo torna nel Valencia ad affiancare l’allenatore uruguagio del Valencia Héctor Nuñez, ma saluta la squadra iberica nell’aprile dopo un incontro tra il Valencia e il PSV Eindhoven che si chiude con la vittoria olandese per 5-6. Mario ha 38 anni e ha segnato 3 dei 5 gol. Una notte indimenticabile. Kempes nel 1995 è in Seconda Divisione in Cile, con una pittoresca partecipazione al campionato tra le file del Fernández Vial, di seguito in Indonesia, dove è attaccante e commissario tecnico del Pelita Jaya.

La carriera di commissario tecnico, gli omaggi

È in Albania il vero e proprio debutto da allenatore. Il suo breve discorso d’insediamento al Lushnja è pionieristico: è lui il primo coach – straniero – che recluta il primo giocatore straniero di tutta la storia calcistica dell’Albania. L’impresa albanese arriva a una veloce fine (con fuga via Roma) nel 1997, con lo scoppio della guerra civile. Si rifugia un breve periodo a Bell Ville, dove sopraggiunge la chiamata dal Venezuela: lo vogliono ad allenare i Mineros de Guayana. Resta in Venezuela fino al 1998, poi passa in Bolivia, alla guida dei The Strongest. Arriva a La Paz nel mese di giugno, con la valigia da atleta giramondo in mano, con la sua fama di goleador come scudo. La più tradizionale squadra boliviana è una patata bollente, vive il peggior momento della sua storia, appesantita da una crisi istituzionale ed economica che supererà con fatica. L’obiettivo di Kempes è non retrocedere: vincerà la Coppa Libertadores, che resterà il suo unico titolo come direttore tecnico. E troverà la sua seconda moglie. Pieni di speranze lo chiamano dalla Costa Rica per allenare il Santa Barbara, ma il terreno non è fertile. Il giramondo del pallone crossa sul sociale, prende un aereo ed è in Marocco a girare e promuovere una campagna dell’Unicef. Sul finire del XX secolo torna in Boliva ad allenare il Blooming, poi l’Independiente Petrolero, poi la serie C italiana, dove nel Fiorenzuola tenta di far giocare la squadra con qualche novità: 15 atleti argentini e uruguagi come rinforzo, un gioco di tre difensori, quattro centrocampisti, un enganche e due punte. Kempes ha più volte sottolineato come ambisse ad allenare una squadra italiana: «seguo il campionato italiano in televisione e ricordo, tra gli altri, grandi campioni come Scirea, Bettega e Altobelli». Il calciatore Kempes è stato paragonato a Batistuta ma «io dico che il mio gioco era più di squadra e mi pare più contundente negli spazi piccoli», ha ribattuto. Quanto al paragone con Messi, «non ha ancora vinto nulla con la Nazionale». Il periplo dell’allenatore Kempes finisce dopo una parentesi nella seconda divisione spagnola sullo schermo televisivo, dove approda come commentatore della Liga spagnola nell’emittente dell’ESPN. Ed è di nuovo gloria.

Mario Kempes oggi (© ESPN)

Mario Kempes oggi (© ESPN)

Una gloria tecnologica, statuaria, quando nel luglio 2011 il calcio argentino lo omaggia ribattezzando il rinnovato stadio Chateau Carreras di Cordoba come “stadio Mario Kempes”. «Mi tremano le gambe – confida alla sua prima visita in situ il campione -. Pensavo che avrebbero messo una targa, non un cartello così grande col mio nome». E una gloria virtuale nel 2013, quando, assieme a Fernando Palomo e Ciro Procuna è la voce latinoamericana di Fifa 13. Restano i gol negli archivi, resta la voce nel videogioco, resta l’umiltà dell’uomo che non strinse la mano a Videla. Che passò la maglia della Nazionale numero 10 a un certo Diego Armando Maradona nel 1982, che la volle per capriccio (i numeri quell’anno venivano dati per ordine alfabetico). Un uomo che non ebbe mai cartellini gialli, né rossi. Un ragazzo semplice che si presenta in televisione con la felpa dell’ultimo successo al botteghino.

Melania Sebastiani
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