La partita di Mauthausen

al centro Ferdinando Valletti

al centro Ferdinando Valletti

 

Manuela Valletti e il dramma di papà Ferdinando

Ferdinando Valletti: tre stagioni al Milan di Meazza, nelle retrovie, dal 1941-42 al 1943-44.  Solo partite amichevoli, giocate contro il Dopolavoro Falck e il Seregno. Mediano prima nell’Hellas Verona e nel Seregno poi, a causa di problemi al menisco gioca poco negli stadi. Giocherà molto nel campo di concentramento, prima a Mauthausen, poi a Gusen. Nei giorni in cui l’uomo è stato derubricato a cosa, il pallone da calcio si è elevato a salvezza. Sotto al fumo delle ciminiere, gli aguzzini hanno bisogno di un uomo per completare la squadra e disputare tra i moribondi e i morti una partita di calcio. Ferdinando, malgrado i suoi trentanove chili, è una riserva piena di talento. Supera il “provino” e per questo è “promosso” da cavatore di pietra a sguattero e dalla cucina talvolta riesce anche a passare qualche avanzo di cibo agli altri prigionieri.

Valletti col capitano dl Milan Andrea Bonomi

Valletti col capitano dl Milan Andrea Bonomi

 

Il deportato I57633 si trova a Mauthausen per uno sciopero: quello del 1 marzo 1943 all’Alfa Romeo di Milano. Qui il ventiduenne Nando lavora e studia, ottenendo alle serali della scuola interna il diploma di perito industriale. Quel 1 marzo Nando fa volantinaggio: è proibito. Le SS lo prendono e lo portano a San Vittore. È il primo tempo di una tragedia ma per questa partita ci saranno anche i tempi supplementari: la liberazione e il rientro in Italia, con la Medaglia Garibaldina al valore militare, la carriera in Alfa Romeo dove diventa dirigente, l’Ambrogino d’oro conferitogli dal sindaco di Milano nel 1976, il titolo di Maestro del Lavoro nel 1979.

Manuela Valletti, che cura la memoria del genitore attraverso libri e siti web, lascia a Storie di Sport la personale testimonianza del padre Ferdinando Valletti, morto a Milano nel 2007:

«Il ricordo più bello che ho di mio padre Ferdinando è in un racconto, il racconto che lui mi faceva del nostro primo incontro, che lui definiva “l’emozione più grande e più bella della mia vita”. Ma andiamo con ordine: sono venuta al mondo nell’ottobre del 1944 e nel marzo dello stesso anno papà era stato catturato e deportato prima a Mauthausen e poi a Gusen.  Quando era stato messo su quel treno, al Binario 21 della Stazione Centrale di Milano, sapeva che mia madre era incinta da pochissimo tempo, ma, naturalmente, non conosceva  il sesso del nascituro e nemmeno la sua presunta data di nascita.

Valletti con la figlia Manuela

Valletti con la figlia Manuela

 

Durante i diciotto mesi della sua prigionia mio padre accarezzava il sogno di vedere il suo bambino e questo gli dava tanta forza e tanto coraggio per resistere e superare tanta violenza e tante privazioni. Quando finalmente arrivò a Milano, il suo primo desiderio fu quello di vedermi. Il camion americano su cui viaggiavano mio padre e il suo compagno di prigionia Marco Vignolle, si fermò proprio davanti al portone di casa: Ferdinando e Marco scesero dal mezzo tra due ali di folla festante che li attendeva, e, nella confusione generale, mia madre corse per abbracciarlo e abbracciò invece Marco…

Una volta ristabilite le parentele mio padre volle vedermi: ero stata la sua speranza e ora ero lo scopo per cui lui avrebbe dovuto riprendere a vivere e riappacificarsi con il genere umano. Entrò nella camera e mi trovò seduta in mezzo al “lettone”, non trattenne le lacrime, mi prese in braccio e mi strinse a sé, io piansi disperata e lui rimase mortificato, poi capì che mi ero spaventata e ci riprovò con dolcezza: allora gli appoggiai la testina sulla spalla. Da quel giorno, papà ed io abbiamo sempre avuto un rapporto magnifico.

Ogni volta che mio padre raccontava questa vicenda e mi mostrava con orgoglio, si commuoveva e lo facevo anch’io: che cosa può volere di più una figlia?».

Melania Sebastiani
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