L’età dell’oro del volley italiano
Generazione di fenomeni
Tutum tutum. Era un rumore che assomigliava al battito del cuore quello che accompagnava la mano che incontrava la palla e quello poi della stessa che colpiva il parquet. Ogni colpo, ogni punto conquistato aveva il sussulto di quel cuore, pulsante come quello degli spettatori nel Palasport, come quello di coloro che erano incollati al televisore. Per la prima volta.
Le prime vittorie
Svezia, 1989. Nell’inizio d’autunno del paese nordico sono in corso di svolgimento i Campionati Europei di Pallavolo e l’Italia, l’Europa e il Mondo stanno assistendo alla nascita di un miracolo. Il tutum tutum, rumore associato al pallone colpito che si va a schiacciare nel campo avversario, che potrebbe essere preso a simbolo di questo sport, nel nostro Paese aveva rappresentato un fragore piuttosto flebile nel corso degli anni. Poche volte aveva vissuto di sussulti: un argento ai Mondiali del 1978, un bronzo ai Giochi Olimpici di Los Angeles 1984, quella del boicottaggio dei Paesi dell’Est, per il resto oblio assoluto. Fino a quel fatidico 1989, quando il battito sporadico di uno sport minore, soffocato dalle discipline maggiormente in voga nel Bel Paese – il calcio, naturalmente, ma anche il ciclismo, l’atletica, il basket – aveva iniziato a farsi insistente, tambureggiante, inarrestabile.
Come sempre, dietro un miracolo di questa portata, dietro avvenimenti che segnano svolte epocali, ci sono gli uomini. Probabilmente, quello più importante in questa storia arriva dalla lontana Argentina, terra di gaucho e di italian: Julio Velasco. Studente di filosofia, scampato alle epurazioni dei Generali e quindi, per fortuna, mancato desaparecido, Velasco ha passioni viscerali che amalgama tra loro per creare il suo “sistema volley”: la filosofia, innanzitutto, poi l’amore per le avventure descritte da Emilio Salgari, il tutto fuso nella pallavolo. Come ogni corpo, trovata la testa ora bisogna trovare gli altri organi vitali.
Velasco già nel Modena aveva iniziato a costruirsi il suo esercito con Luca Cantagalli, Andrea Lucchetta e Lorenzo Bernardi i quali, dopo quattro anni di successi nella città emiliana, furono importati in Nazionale e integrati con i rivali di sempre del Parma, Andrea Zorzi, Marco Bracci e Andrea Giani. È questo il gruppo base che in quel lontano 1989 inizia l’avventura in territori inesplorati. Velasco intuisce che questo gruppo di uomini può raggiungere vette mai toccate, così come sa pure che deve lavorare sulle loro teste per spogliarli della cultura dell’alibi, dare loro sicurezza, soprattutto in sé stessi.
Il Campionato Europeo svedese può essere il banco di prova per iniziare a costruire, nessuno pensa di essere già pronto per, se non primeggiare, essere almeno competitivi ad alto livello. Gli Azzurri, invece, sorprendono: quel tutum tutum inizia a diventare un martellamento sotto i cui colpi cedono, di volta in volta, inesorabilmente, la Bulgaria, le due Germanie ancora per poco divise, e i padroni di casa. Poi la finale ancora contro gli svedesi, dopo aver superato in semifinale l’Olanda che in seguito sarà fatale.
Questa vittoria, d’improvviso, solleva il velo dell’anonimato su questo sport e su questi uomini, elimina tutti gli ostacoli che ostruivano quella sorgente da cui inizia a scaturire una vera cascata d’oro. Conquistata l’Europa, c’è da vincere il Mondo. Questi uomini straordinari decidono di farlo nella maniera più difficile, in casa del favorito Brasile e contro muri altissimi costituiti dalle squadre dell’Est, Unione Sovietica in primis, dalle sudamericane, dalle orientali. Proprio i padroni di casa, in semifinale, sembrano imporre lo stop a Giani e compagni, ma gli occhi di tigre richiesti da Velasco compaiono all’improvviso e per gli avversari svanisce qualsiasi speranza.
La finale è azzurra, lo diventa anche il gradino più alto del podio, con l’ultimo punto contro Cuba conquistato da Bernardi. Le sue schiacciate, insieme a quelle di Bracci e Cantagalli, il palleggio di Ferdinando De Giorgi e Paolo Tofoli, la difesa di Andrea Gardini, di Giani, di Lucchetta, di Zorzi, consacrano quella che per un decennio sarà chiamata Generazione di Fenomeni. Un gruppo di uomini veri guidato da un uomo giusto che ha saputo toccare le corde della motivazione e della passione, capaci di superare qualsiasi muro avversario. O quasi.
Un unico rimpianto
Iniziano a diventare tante le vittorie del sestetto italico, quasi da non fare più notizia, molto più eclatanti le rare sconfitte. Nell’aureo decennio che ha attraversato, a questo gruppo è sfuggito un solo alloro, la medaglia d’oro ai Giochi Olimpici. La beffa più grande e dolorosa si registra ad Atlanta 1996, quando gli Azzurri vedono infrangersi i loro sogni all’ultimo atto contro l’Olanda; più logica, in un certo qual modo, la sconfitta, sempre in finale, ad Atene 2004 di fronte ad un fortissimo Brasile.
La mancanza di questo unico trofeo, in un palmarès per il resto invidiabile, costituisce uno smacco bruciante per un gruppo abituato a vincere, ma in qualche misura ne segna anche la grandezza, restituendo una dimensione umana ad esseri che sembravano giunti da un altro pianeta. Il tutum tutum associato a mano, palla, parquet, avviato da questa Generazione di Fenomeni, è diventato il cuore pulsante della pallavolo italiana nel panorama sportivo nazionale ed internazionale.
Raffaele Ciccarelli
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capisco che era un pò successivo ma ci manca il nell’articolo nostro mitico libero Damiano Pippi a cui ho visto prendere in ricezione delle palle incredibili e che condivide 2/3 del palmares con gli altri essendo arrivato solo un pò dopo.