Andrea Re

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L’anima della spada

Antiche leggende narrano che il Giappone nacque da una spada: una lama di corallo trafisse l’oceano e, quando venne estratta, quattro gocce perfette caddero in mare creando le isole che avrebbero dato origine al Paese del Sole Rosso. Di certo a quella spada e alle guerre compiute stringendola in pugno si deve l’unità di un impero, uomini temerari avevano riposto in un’arma la propria anima consegnandosi alla battaglia con lo stesso spirito di sacrificio con cui si affronta la sorte. Erano combattenti, ma in primo luogo servitori: l’etimologia del termine samurai deriva da un verbo “saburau” che propriamente significa “servire” o “tenersi a lato”. In nome dell’onore i samurai si dichiaravano disposti alla sottomissione più profonda,  prestavano un giuramento estremo ponendo la propria vita a difesa della patria, della loro gente, di un solo signore. Legavano il destino alla forza di un’arma in grado di trafiggere e difendere nella quale intravedevano un prolungamento di sé, la promessa di un futuro ancora da compiersi.

Questa storia d’oriente ci viene raccontata dal Maestro Andrea Re, che dalla cultura giapponese ha tratto un’arte: 7° Dan di Katori Shinto Ryu e 5° Dan rispettivamente di Aikido e Hoki Ryu, nominato in quest’ultima disciplina Shinan “esempio della linea” da Kumai K. Sensei. Si dedica alla diffusione di queste arti marziali come praticante, frequentando numerosi stage di aggiornamento-allenamento in Europa e in Giappone e insegnando regolarmente nel suo Zanshin Dojo, all’interno della palestra La Comune di Milano.

Attraverso le sue conoscenze prende forma la particolare dottrina del Katori Shintu Ryu, la più antica scuola di arti marziali del Giappone, fondata nel 1447 e riconosciuta come tesoro della cultura nazionale dal governo nipponico.

Rivivono così i samurai, idealizzati nell’immaginario collettivo alla stregua di guerrieri sanguinari, impegnati in battaglie interminabili: eppure la realtà non potrebbe essere più diversa. Ligi al loro codice d’onore, il Bushido, per cui l’ imperativo essenziale era “libertà dalle paura”, era loro comandato di essere superiori alla paura della morte, in modo da poter affrontare fedelmente gli incarichi che venivano loro affidati. Il giovane samurai riceveva la sua prima spada a dodici anni compiuti e non imparava subito le tecniche per colpire, ma come muoversi in ogni situazione, perché la prerogativa era la difesa. La consapevolezza del pericolo era ben radicata nell’animo di chi, con un’arma in pugno, era certo di poter ferire e allo stesso tempo essere ferito. Nello scintillio di quella lama che riluceva si intuivano tutto lo splendore e la caducità dell’esistenza. Per rammentare la transitorietà che una spada non era in grado di esprimere, i samurai elessero come simbolo della propria classe un fiore, destinato ad appassire con l’arrivo dell’inverno.

In giapponese sakura, il ciliegio, dai petali sottili come vetro, dotati della stessa fragilità nello spezzarsi. La loro fioritura incantevole non può proteggerli da nessuna pioggia sferzante: questo i samurai lo sapevano bene e intravedevano nella morte in battaglia una maniera onorevole di andarsene, simile al destino dei fiori sconfitti dalla tempesta. Trovarono riflessa nel sakura una vera e propria filosofia di vita: «Come il fiore di ciliegio è il migliore tra i fiori, così il guerriero è il migliore fra gli uomini».

Migliore non perché armato, ma in quanto portatore di un codice etico che tuttora stupisce per la sua universalità; un insieme di valori che non si addice solo ad un popolo guerriero, piuttosto ad un qualsiasi combattente a confronto con una realtà in continuo mutamento, come la vita. Il messaggio trasmesso dal Maestro Andrea Re si fonda sul senso di questa lotta: non vuole insegnare un combattimento che miri ad ottenere un esito, per lui non esistono vittorie né sconfitte. Il vero trionfo sta nell’avere il coraggio di affrontarle. Proprio come sostenevano i samurai: libertà dalla paura.

«Io non definisco le arti marziali uno sport»,  afferma, vestito nel tradizionale abito da cerimonia samurai hakama, «preferisco considerarle un’attività. Non si tratta di un contesto di gara, ma di collaborazione. Ad un certo punto, nella vita, capita di trovare dentro di sé uno scoglio e scoprire di non avere i mezzi per superarlo. Le arti marziali offrono gli strumenti per affrontare questa difficoltà, potremmo considerarle una pratica evolutiva. Non dobbiamo pensare che quello che ci rende forti sia necessariamente il senso della vittoria, prevalere sugli altri. Per superare i propri limiti la cooperazione è sufficiente».

Il canale principale di queste discipline è costituito dal corpo: l’unico tramite in grado di collegare la nostra dimensione esteriore con quella interiore. «Dobbiamo capire», prosegue il Maestro Andrea Re, «che il pensiero corrisponde ai nostri atteggiamenti corporei. Osservando i miei allievi mi rendo conto che dai loro errori spesso emergono lati del loro carattere. Per questo il mio lavoro principale è con il corpo, modificando una postura scorretta posso migliorare la percezione di sé di una persona».

Quanta importanza assume il rapporto con gli allievi in questo genere di attività?

«Instaurare un rapporto amichevole è fondamentale. Io non mi pongo mai come saggio, perché il Maestro è davvero Maestro solo se lo si riconosce come tale. Si deve costruire un legame di fiducia tra insegnante e apprendista in modo che non si crei timore del confronto. L’arte dei samurai è stata tramandata per secoli attraverso l’imitazione, era il Maestro stesso a condurre i suoi discepoli sulla cattedra perché potessero apprendere. Il concetto di educazione, deriva dal latino “educatio” – portare fuori; il mio compito consiste in questo: aiutare le persone a trasmettere il proprio universo interiore, trovare un equilibrio. I samurai sapevano bene che un’anima vuota non avrebbe avuto nulla da comunicare all’esterno, quindi è quella la base che deve essere arricchita».

I samurai seguivano un rigido codice etico, il Bushido, trascritto per la prima volta nel testo Hagakure. Ritiene che questi valori siano ancora attuali?

«Alcuni dovrebbero esserlo, purtroppo troppe volte vengono dimenticati. I concetti fondamentali del Bushido predicavano di mantenere la parola data, cercare il miglioramento per sé e per gli altri, avere un comportamento retto nell’osservanza delle regole, essere leale nei confronti dei propri compagni. Venivano riassunti nelle formule di onestà e giustizia, coraggio eroico, gentile cortesia, compassione e completa sincerità. Sebbene si trattasse di un popolo guerriero, i samurai nutrivano un grande rispetto nei confronti del nemico: la caduta di un avversario in battaglia implicava una breve cerimonia in onore della persona colpita. La filosofia dell’Hoki Ryu infatti ci insegna che quando l’avversario cade ci si deve fare indietro. L’abitudine al sangue non suscitava indifferenza, anzi, suggeriva l’idea della morte come una cosa intima».

La necessità della guerra aveva indotto i samurai ad acquisire una visione profonda della vita, così come della sua fine. Tuttora ogni allenamento viene preceduto da una preghiera in memoria dei defunti. Lei come vive questa esperienza?

«Si potrebbe semplicemente paragonare alla nostra abitudine di recarci al cimitero. Non è molto diverso dal pregare di fronte alle tombe ricordando la presenza di chi ci ha lasciati. Il culto rituale prima di un allenamento assume lo stesso significato. L’arma viene posta accanto al corpo e ci si inchina in onore degli spiriti in una specie di genuflessione, poi il rito viene concluso con un solenne battito di mani. In quel momento si ricordano i propri Maestri e gli insegnamenti che ci sono stati trasmessi. È una sorta di ringraziamento».

Quale ricordo conserva dei suoi Maestri?

«Il mio primo maestro fu Claudio Bosello, da lui appresi l’Aikido che si può definire una disciplina psicofisica, praticabile sia a mani nude che con le armi tradizionali del Budo giapponese. Si tratta di una dottrina interiore volta ad ottenere la padronanza di sé stessi. Bosello era un perfetto esempio di “colui il cui animo non si confronta”. Era un buddista fervente, potremmo definirlo una persona sulla via. Contemporaneamente cominciai ad allenarmi con il Maestro Hatakeyama Goro che fu un grande innovatore, è stato lui il padre fondatore del Katori Shinto Ryu in Italia. Veniva nel nostro Paese due volte all’anno ed era un uomo molto saggio, datore di ottimi consigli. Ancora oggi i video delle sue lezioni costituiscono un apporto fondamentale alla conoscenza di questa disciplina. Per la mia formazione è poi stato indispensabile il Maestro Fujimoto, ottavo dan di Aikido, portò il suo sapere direttamente da Tokyo. Sicuramente la perdita di un Maestro, come la scomparsa di un amico, è dura da affrontare. Viene a mancare un punto di riferimento ed è necessario farsi carico di una responsabilità maggiore non avendo nessuno a cui appoggiarsi. Ancora vivente è invece il Maestro Kumai che conobbi nel 1988, da lui appresi l’Hoki Ryu. Abbiamo stretto una forte intesa, che ci lega al di là dell’arte della spada, per esempio le nostre conversazioni a cena sono memorabili. Kumai è uno scultore e un uomo dotato di grande cultura».

Sono stati i loro insegnamenti, oppure una vocazione personale a spingerla a questa scelta di vita?

«Una vita come questa non si decide. Se lo decidi è una fregatura perché inizi ad organizzare il tuo futuro di conseguenza, secondo delle aspettative. Se preordino il mio avvenire potrei restare deluso, perché potrebbe non seguire la direzione immaginata. Iniziai la pratica dell’Aikido a ventiquattro anni per pura passione, e continuai ad allenarmi per lo stesso motivo. Poi, a quarantotto anni, ho sentito l’esigenza di un cambiamento: iniziavo a sentirmi oppresso, l’attività di fotografo non rispondeva più ai miei interessi. Così ho fatto una svolta secondo il desiderio che provavo in quel momento. E non me ne sono pentito. Insegno anche per otto ore al giorno e tengo sei diversi corsi nel mio Zanshin Dojo, posso ritenermi soddisfatto di aver trasformato una passione in una ragione di vita».

Qual è il significato del termine Zanshin Dojo?

«Zanshin significa porre attenzione alle cose come stanno, ma anche pratica costante. Mentre Dojo vuol dire “luogo del risveglio”  oppure “luogo dove si pratica la via”. Quando si entra nel dojo si abbandonano le proprie preoccupazioni, i desideri, le tensioni interiori. È un luogo dove tradizionalmente per avere un insegnamento si offriva un compenso e quindi si otteneva dal Maestro ciò che Lui riteneva opportuno.
Insegna innanzitutto a dare prima di ricevere, perché in un Dojo non si compra nulla. Il concetto di dojo in Giappone è tenuto in grande considerazione, l’ho sperimentato personalmente frequentando l’Hombu Dojo di Tokyo».

Queste pratiche marziali sono un viaggio all’interno dell’Oriente. Quali aspetti la affascinano del Giappone?

«Quando penso al Giappone penso a ciò che trovo durante ciascuno dei miei viaggi: maestri, persone, incontri. Posso dire di tornare cambiato ogni volta grazie a questo scambio culturale, è come una sorta di vacanza studio. Oltre alla bellezza delle città principali Tokyo, Kyoto, Hiroshima, è meravigliosa la gioia che mi porto dentro, l’armonia che si crea nella condivisione di un’attività per me vitale. Abbiamo vinto il riconoscimento come “miglior gruppo fuori dal Giappone” nel 1991 replicandolo poi nel 2008.  A livello formativo questi viaggi costituiscono una necessità, mi permettono di confrontarmi con i Maestri più rinomati a livello mondiale».

Ha imparato il giapponese?

«Troppo difficile! Lo conosco ad un livello tecnico, ma non posso dire di parlarlo correntemente. La calligrafia poi è davvero complessa, non mi sorprende che i giovani samurai dovessero imparare a scrivere prima di maneggiare la spada. Era uno studio molto faticoso che abituava alla disciplina, una qualità indispensabile per seguire il rigido culto dell’onore richiesto dal Bushido. Attraverso la scrittura si apprendeva l’amministrazione della giustizia. Il che rendeva l’uso delle armi e la pratica della giustizia strettamente collegate».

Se seicento anni fa le arti marziali erano legate al culto della giustizia, oggi da cosa dipendono?

«Nei nostri giorni portano al miglioramento individuale. Consentono ad una persona di effettuare un cambiamento, anche se serve molta dedizione perché questo avvenga. Amministrano una sorta di giustizia interiore, dell’anima. La mia attività si potrebbe definire una sfida culturale, ma io non la vedo in questo senso: non intendo unire l’occidente all’oriente, solo stabilire un asse di comunicazione».

Un dialogo che si rivela possibile e perfino produttivo per la nostra cultura. D’altronde, i valori dell’umanità restano immutabili, al di là di ogni epoca, perché le prove dell’esistenza sono imperiture.

Alice Figini
© Riproduzione Riservata

 

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