Hirofumi Daimatsu
Il “coach demonio”
Non dovette sudare molto, Hirofumi Daimatsu, per convincere le sue ragazze a seguirlo ancora una volta. Quell’appuntamento era troppo importante per non provarci. Anzi, in qualche modo era obbligato. Il fatto è che di lì a due anni la pallavolo avrebbe fatto il suo esordio come disciplina olimpica durante i Giochi di Tōkyō del 1964. Come poteva la Nazionale nipponica femminile, appena laureatasi campione del mondo e imbattuta da anni, rinunciare in partenza a tentare di vincere l’oro a casa propria? Semplice, non poteva.
Masae Kasai e compagne, che – dopo il titolo iridato e anni di sacrifici – avevano giurato a se stesse che l’avrebbero smessa con il volley, si sentirono obbligate ad accettare. Per sposarsi, fare figli e tornare finalmente a una vita normale avrebbero dovuto aspettare ancora. Come avrebbero potuto dire di no al loro coach?
Tutto era iniziato nel 1953, nella cittadina di Kaizuka, dove i responsabili della filiale della Nichibo, una fabbrica tessile con sedi in tutto il Giappone, avevano deciso di far diventare il loro team dopolavoristico di volley femminile il più forte del paese. Le migliori operaie-giocatrici dell’azienda, sparse in tutta la nazione, furono così trasferite in questa cittadina vicino a Ôsaka. Ad allenarle fu chiamato Hirofumi Daimatsu, un impiegato amministrativo poco più che trentenne, con un passato di giocatore nella rappresentativa della Kansai Gakuin University.
Duro e autoritario
Ex militare, Daimatsu ci mise poco a far vedere di che pasta era fatto: duro e autoritario, sapeva però insegnare il volley come pochi. Un vero sergente di ferro (lo chiamavano oni, cioè demonio), animato da una passione folle che lo spingeva a studiare e a sperimentare nuovi modi di fare pallavolo.
I frutti non tardarono ad arrivare. Nel 1958 le sue ragazze vinsero tutti i tornei più importanti: l’Inter-City, il Corporate Team, il National Sports Festival e l’All Japan. Grazie a Daimatsu, il Nichibo-Kaizuka era diventata finalmente la squadra più forte del paese e prometteva di restarlo per molto tempo.
Fu quello, tuttavia, il periodo in cui il volley nipponico subì un’autentica mutazione genetica. Fino ad allora, infatti, da quelle parti si giocava in nove anziché in sei, come invece accadeva nel resto del mondo. Nel 1958 si decise però che bisognava accogliere le regole internazionali, così da potersi finalmente misurare anche contro team stranieri e allestire una Nazionale in vista dei campionati Mondiali che si sarebbero disputati a Rio de Janeiro due anni dopo. Hirofumi Daimatsu parve a tutti l’uomo giusto per guidare la pallavolo giapponese attraverso quel cambiamento epocale.
Oni coach non si tirò indietro, pur conscio delle enormi difficoltà che lo aspettavano: il volley a sei equivaleva, di fatto, a esplorare un mondo ignoto. Diversa l’altezza della rete, differenti le dimensioni della palla, eliminati o modificati i ruoli, nuovi fondamentali da imparare. Di fatto, un altro sport.
Hirofumi studiò molto per insegnare alle ragazze della Nazionale, costituita per il 90% dal Nichibo team, quel volley mai visto. Le atlete, da parte loro, appresero volentieri la lezione anche perché le nuove regole premiavano più l’agilità della potenza fisica, aspetto in cui erano piuttosto carenti.
Nel 1960, in Brasile, finalmente il debutto nel torneo iridato. Inserita nel gruppo A, la rappresentativa del Sol Levante si sbarazzò facilmente di Polonia, Argentina e Uruguay. Il primo match del girone finale fu però fatale alle nipponiche: la sconfitta contro le sovietiche, campionesse in carica, costò loro il primo posto. Ottennero comunque l’argento, proprio dietro l’URSS, battendo Brasile, USA e Cecoslovacchia e mostrando a tutti un gioco brillante, rapido e organizzato. Il coach, tuttavia, deluso dal risultato, promise alle sue ragazze che in futuro avrebbero vinto tutto quello che c’era da vincere.
E così fu. Nei due anni seguenti Daimatsu intensificò ulteriormente i suoi allenamenti, imponendo, con una durezza crescente, tecniche e tattiche innovative, sperimentate in una fortunata e vincente tournée europea, da lui voluta a tutti i costi per far fare esperienza internazionale al suo team.
La successiva edizione del Campionato del mondo, disputata nel 1962 a Mosca, non ebbe storia. Vinto facilmente il girone eliminatorio (contro DDR, Cina e Corea del Nord), le giapponesi dominarono anche la poule finale, sconfiggendo Polonia, Bulgaria, Brasile, Romania e Cecoslovacchia, oltre all’Unione Sovietica, l’unica Nazionale in grado di strappare loro un set.
Alle invincibili atlete, ribattezzate Toyo no Majo (Streghe d’Oriente), ora mancava solo il torneo olimpico che, per la prima volta nella storia dei Giochi, si sarebbe disputato due anni dopo a Tōkyō. Un’occasione importante per i giapponesi, decisi a dimostrare al mondo la volontà di riscatto di un paese ferito a morte, diciannove anni prima, dalla Bomba. Impensabile, dunque, rinunciarvi. Le ragazze della Nichibo, pur intenzionate a lasciare il volley subito dopo Mosca, lo capirono bene e si affidarono per l’ultima volta alle cure del loro coach.
L’ossessione olimpica di Daimatsu
Per Daimatsu l’oro olimpico divenne un’ossessione. Nei ventiquattro mesi successivi i suoi metodi furono ancora più logoranti e impegnativi. La vita, per le ragazze, si fece durissima: prima il lavoro in fabbrica, dalle 8 alle 15, poi gli allenamenti fino a mezzanotte, sei giorni su sette, cinquantuno settimane all’anno. Niente vita privata o distrazioni, solo fatica, insulti, punizioni ed esercizi ripetuti all’infinito. Eppure nessuna mollò. La convinzione – come ricordò poi la capitana Kasai – di fare la cosa giusta, unita alla tradizionale abitudine giapponese all’obbedienza, bastò loro per sopportare quell’inferno.
Domenica 11 ottobre 1964 il torneo olimpico di volley prese finalmente il via, non prima di aver rischiato una clamorosa cancellazione. L’improvvisa rinuncia della Corea del Nord ridusse infatti a cinque i team in lizza, uno meno di quanto previsto dal CIO. I giapponesi rimediarono in extremis, stanziando un milione di yen per finanziare un’impresentabile selezione sudcoreana.
Il cammino delle nipponiche fu trionfale. Si sbarazzarono, una dopo l’altra, di USA, Romania, Corea del Sud e Polonia, l’unica a conquistare un set, ma solo perché Daimatsu, vistosi spiato dai tecnici sovietici, aveva fatto giocare le riserve. Il 23 ottobre era infatti in calendario l’ultima partita proprio contro l’URSS, anch’essa a punteggio pieno e, quindi, candidata al titolo.
Con il paese intero a tifare davanti alla TV, le pallavoliste giapponesi vinsero facilmente anche quel match decisivo. Il 3-0 finale dimostrò la loro schiacciante superiorità sulle sovietiche, peraltro quasi mai in partita. Il gioco spumeggiante, la tattica innovativa e gli automatismi perfetti delle Toyo no Majo avevano avuto ragione, ancora una volta, delle tradizionali rivali.
L’oro era vinto. Il sacrificio e la dedizione a un coach sicuramente duro e intransigente, ma anche geniale e innovativo, avevano saputo trasformare un pugno di operaie in una squadra di volley come non se ne erano mai viste.
Hirofumi Daimatsu aveva mantenuto la sua promessa.
Marco Della Croce
© Riproduzione Riservata
Ultimi commenti