Arnold Palmer
La leggenda del golf
Arnie’s Army, “L’esercito di Arnie”. Era così che venivano chiamati i tifosi di Arnold Palmer, uno dei più grandi giocatori della storia del golf.L’Army lo seguiva in giro per le diverse location del tour e quindi figuratevi se si sarebbe fatto sfuggire l’occasione di andarlo a sostenere all’Oakmont Country Club, a pochi chilometri da Latrobe, Pennsylvania, il luogo dove Arnie era nato e cresciuto.
L’evento era di quelli imperdibili davvero: correva l’anno 1962 e il campo di Oakmont era stato scelto come sede dello US Open, uno dei quattro major, i tornei annuali più prestigiosi del mondo.
A 33 anni d’età e con già cinque trionfi nei major alle spalle, Palmer non era soltanto un giocatore, bensì il giocatore, nonché il primo sportivo a guadagnare più di un milione di dollari. Le riviste ritraevano spesso lui, le sue braccione e il portamento alla John Wayne, che tanto faceva battere il cuore di diverse giovani (e meno giovani) donne americane, ammaliate dal primo vero personaggio sportivo “da copertina” – o meglio da teleschermo, visto che fu proprio in quegli anni che la televisione conobbe il suo più significativo boom negli Stati Uniti.
Ma, attenzione: Palmer non rappresentava quello strano mix di sportivo e modello modaiolo al quale siamo abituati oggi con i vari David Beckham, Cristiano Ronaldo, ecc. Al contrario, i componenti dell’esercito di Arnie si rivedevano in lui in quanto “figlio del popolo” e ragazzo di umili origini di un paese situato a poche miglia da Pittsburgh, a quei tempi “Città dell’acciaio” con migliaia di operai impiegati nel settore industriale. È stato grazie al campione della gente Arnold Palmer che il golf si è aperto anche alle classi più povere e ha smesso di essere considerato uno sport riservato ai ricchi, almeno negli USA.
Come si poteva pensare, dunque, che tutto e tutti a Oakmont non riuscissero a spingere Arnie verso uno scontato trionfo? E invece, a frenare gli entusiasmi di quelli dell’army e a dar loro un grosso dispiacere ci pensò un ragazzotto biondo ventiduenne dell’Ohio, da poco passato professionista, che fino a quel momento non aveva ottenuto grandi risultati tra i pro. Il suo nome era Jack Nicklaus, ma nel tempo il soprannome che gli venne dato fu The Golden Bear, “L’Orso d’Oro”, dal nome della mascotte della sua High School. Gli calzava bene come nickname: la corporatura del ragazzo nato a Columbus da una famiglia borghese (il padre era farmacista) era infatti massiccia e i tifosi di Palmer, per infastidirlo, lo chiamavano Fat Jack.
Ma il corpulento Nicklaus era ben lontano dall’essere un mangiatore di hamburger di McDonald’s con annessi problemi motori: già da ragazzino, oltre che per il golf, aveva mostrato grandi potenzialità in diversi altri sport, basket in primis. Era però nel saper frustare la palla con dei potenti drive da un lato e andare in buca con putt chirurgici dall’altro che il suo talento sportivo si esprimeva al massimo; alle doti tecniche, poi, si univa una volontà d’acciaio.
Già, perché se non fosse stato così non sarebbe riuscito ad andare avanti dopo le magre figure collezionate da pro nei primi quindici tornei della sua carriera. Fu in particolare al termine di uno di essi, concluso agli ultimi posti della graduatoria, che Nicklaus si sentì passare una mano sulla spalla seguita da una frase che lo incoraggiava a non mollare. Chi fu a pronunciarla? Arnold Palmer, il numero uno, quello della foto in copertina su Sports Illustrated, proprio lui! Incurante della differenza di palmares e di età (tra i due correvano circa dieci anni), andò dal giovane esortandolo a continuare e The Golden Bear, che per quel gesto di autentica compassione gli è riconoscente ancora oggi, lo prese in parola.
A Oakmont al quarto giro quello tra Palmer e Nicklaus è un testa a testa mozzafiato, con il padrone di casa leggermente in vantaggio, ma Jack, nonostante le urla di “Ohio fats” che gli arrivano dai tifosi di Arnie, è imperturbabile e recupera. La pressione è su Palmer, che all’ultima buca ha la possibilità di vincere con un putt da circa tre metri. La tensione si taglia con il coltello e Arnie sbaglia il colpo, andando pari con Nicklaus e rimandando tutto allo spareggio del giorno successivo.
La domenica Jack si presenta in gran forma, con dei drive che talvolta sorpassano quelli di Palmer di trenta yard. Per l’idolo di casa è chiaro che le cose si mettono male da subito: è soprattutto il putt a farlo arrancare e le diciotto buche diventano un calvario. Tutto ciò, nonostante i fan facciano di tutto per distrarre Nicklaus, arrivando a sbattere i piedi ogni volta che sta per eseguire un putt, a tal punto che il campo sembra tremare. «Ti chiedo scusa, non capiscono», sussurra al suo avversario Arnie, imbarazzato e visibilmente infastidito dal comportamento della sua gente verso un giovane nei confronti del quale Palmer prova un profondo rispetto, che negli anni sarebbe poi diventato amicizia.
Alla diciotto “L’Orso d’Oro” chiude in 71 colpi, contro i 74 di Arnie. È il primo successo di una carriera straordinaria e ancora ineguagliata, con 18 major vinti all’attivo. Ci aveva visto giusto Palmer, che al termine dello US Open del 1962 dichiarò: «Ora che il ragazzone è uscito dalla gabbia dovremmo correre tutti a cercare riparo».
Daniele Canepa
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