Salvatore Scarpitta

Salvatore Scarpitta

Salvatore Scarpitta

 

L’artista delle corse

Rajo Jack era nero. Come Rosa Parks e Jackie Robinson, ma molto prima di loro. Era nato in Texas agli inizi del secolo scorso e aveva vent’anni quando vinceva le prime corse automobilistiche sulle strade polverose della California. Al traguardo era sua moglie Ruth a consegnargli il premio e baciarlo, perché a un nero non era consentito ricevere il bacio di una ragazza bianca, neanche con un trofeo tra le mani. Eppure era lui l’idolo dell’estrema periferia americana, dei ragazzini infiammati da quel Far West di motori.

Salvatore Scarpitta era uno di loro. Bianco ma non WASP, ché già il nome tradiva lontane origini siciliane. In America ci era arrivato per primo da Palermo il nonno paterno, poi ci era tornato il padre scultore. Lui ci era nato, a New York, il 23 marzo 1919, prima di trasferirsi con la famiglia a Hollywood, dove la madre di origini russo-polacche lavorava come attrice. A 17 anni Salvatore volle scoprire la terra dei nonni e di Michelangelo. A Roma divenne un artista, uno di quelli che rompono gli schemi senza roboanti dichiarazioni di poetica, innovativo ma non autoreferenziale, un sognatore imbevuto di realtà: fino a Rajo Jack Special, la prima delle sue creature automobilistiche, un modello in scala di un’auto da corsa, ispirato al mito dell’indimenticato pilota texano.

 

la Rajo Jack Special

la Rajo Jack Special

 

A una rapida occhiata, sembrerebbe una macchina vera: etichette e decalcomanie, radiatore in bellavista, uno stile da pop art. Ma siamo nel 1964 e una macchina così nelle officine industriali delle grandi case automobilistiche non può trovar spazio. L’arte di Scarpitta è uno sguardo nostalgico a un’infanzia che odora di gas di scarico e del sangue versato sulle piste non asfaltate degli anni Venti, quando le corse si trasformavano spesso in tragedia senza perdere la loro ludica magia. Primitive, ferine, non meno scanzonate. Le gare di Ernie Triplett, pilota dell’Illinois morto in pista a 28 anni, e quelle di Frank Lockhart dall’Ohio, che nel 1927 correva a 147 miglia all’ora con un radiatore di legno scolpito di suo pugno, non avendo i soldi per sostituire quello della sua macchina, prima di morire l’anno dopo nelle acque di Daytona Beach in uno dei più spettacolari incidenti di sempre.

Racer (1988)

Racer (1988)

 

Uomini appassionati e ruspanti, che da Scarpitta si lasciarono prima ritrarre, negli anni in cui l’artista – ancora ragazzino – dipingeva i numeri colorati sulle carrozzerie delle loro auto, poi sublimare in creazioni che conservano il fascino di un’epoca irrimediabilmente perduta, in cui si accavallano novità e tradizione: il primo, estatico incontro con la velocità, e la lentezza di una quotidianità vissuta all’ombra di un albero, lontano dai clacson della modernità, fino al tuffo nella storia.

Anche la vita di Scarpitta fu ruspante: la spola tra Stati Uniti e Italia, la guerra, le mostre, le corse nelle quali lui stesso si cimentò, una volta ristabilitosi definitivamente in America, sulle piste di terra battuta del Maryland e della Pennsylvania. Una passione che dalla vita travasa nell’arte e viceversa. Perché non tutte le macchine di Scarpitta sono destinate all’esposizione: molte sono costruite in vista di una gara, per poi ritornare nel garage dell’artista, che è anche il suo studio.

«Le macchine da corsa sono gli strumenti di sfogo della mia passione» – spiegava Scarpitta – «e mi permettono di deporre la sciabola dell’aggressività davanti allo studio, dove si svolge la vera vita, fatta di silenzio, di riflessione. Io corro sulle mie macchine, competo con i miei amici neri sulle strade di provincia americane con puro spirito di agonismo. Ma, dopo la corsa, rientro nel mio studio, dove non permetto che entri una goccia di olio lubrificante o un solo pezzo di lamiera…».

Nacquero così Ernie Triplett, Hal Special, SAL Haste Special e le altre macchine da corsa artigianali che confluirono nelle due mostre tenutesi nel 1965 e nel 1969 a New York, sulla 107sima Strada, nelle gallerie dell’amico di origini triestine Leo Castelli con il quale aveva iniziato a esporre già nel 1959 – in omaggio alla sua prima personale le auto successive presenteranno tutte il numero 59.

Verrà poi l’era di nuovi esperimenti artistici, dalla fase delle slitte realizzate attraverso la contaminazione di materiali vari, alle ultime installazioni, oggetti multiformi, in cui però non viene mai abbandonata la dimensione del gioco. Attaccato all’immaginario della sua infanzia come al ramo di quell’albero del pepe della casa paterna su cui a 10 anni rimase abbarbicato per alcuni giorni, Scarpitta ne permea anche la propria ricerca artistica. Un vitalismo che trasuda dalle sue opere ma che affonda nella sua memoria, nel ricordo ancor vivido dei suoi eroi.

«La mia etica» – ripeteva Scarpitta – «consiste nel trovare nella presenza visiva, che è sotto la forma dei rottami della vita, altri agganci che portano a capire che questo lavoro, se è arte, conduce altrove. L’altrove sta nella storia comune a tutti, attraverso i passaggi che tutti incontriamo prima o poi».

Le opere di Scarpitta, che ci ha lasciato nel 2007 all’età di 88 anni, sono in mostra fino al 3 febbraio presso la Galleria civica d’arte moderna e contemporanea di Torino.

Graziana Urso

25/11/2012
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