Gli Harlem Globetrotters
I magici Giramondo del parquet
La vita americana degli anni Venti ci è stata trasmessa in ogni suo dettaglio. Da un racconto di Francis Scott Fitzgerald ad un pezzo di Cole Porter, passando per le mirabolanti avventure di Al Capone. Ed è proprio nella Chicago del grande criminale che comincia la nostra storia. È il 1927 e la gente ricca è solita riunirsi nelle sale da ballo (proprio come racconta Francis Scott), ascoltare musica (magari Cole Porter) e bere alcolici sottobanco, passati sicuramente per le mani di Al Capone, indiscusso signore della città in tempo di proibizionismo.
Al Savoy Hall si sta cercando un modo conveniente per sfruttare gli intervalli tra gli spettacoli. Un’iniziativa che riesca ad intrattenere il pubblico, ma che non costi tanto. Le big bands sono care ed alcune sale usano la boxe come diversivo.
C’è un ebreo di origini polacche che gira dalle parti del Savoy e che ha un’idea geniale. Si chiama Abe Saperstein e come tanti allora è curioso di vedere come si comporterebbe una squadra di pallacanestro composta da cinque giocatori afroamericani. Sì, perché al tempo basket e baseball erano solo per i bianchi.
Saperstein ne ha cinque per le mani, di giganti di colore, e vuole vederli all’opera. Ecco che la sala da ballo del Savoy viene stravolta ed in mezzo compaiono due canestri. Cinque giocatori vengono presi volontari tra il pubblico, mentre gli altri sono i Savoy Big Five di Abe Saperstein. Per rendere il tutto più consono agli standard americani, chi perde paga cento dollari. Inutile dirsi che quella fu la prima vittoria degli Harlem Globetrotters.
Il nome di Savoy Big Five infatti ad Abe non piace, sembra riduttivo per il potenziale che può avere quella squadra. Come tutti i geni di marketing, riesce a prevenire e ad avere l’intuizione. Complice un’innaturale passione per New York, complice il fatto che i suoi ragazzi sono tutti di colore, Harlem, il quartiere nero della città più famosa d’America, sembrerebbe già di per sé un nome ideale. L’intuizione però è in quel Globetrotters: i Giramondo. Saperstein forse neppure se lo immaginava, ma gli Harlem il mondo lo hanno girato eccome, da quel lontano ’27 ad oggi.
Gli Harlem e il resto del gioco
Più di ventimila partite disputate. Un record così fa rabbrividire chiunque. La storia degli Harlem è infinita, se si prova a fare un paragone con qualsiasi altra squadra di pallacanestro americana e non. Sono divenuti un fenomeno globale nel giro di poco tempo dalla loro creazione e soprattutto hanno resistito anche dopo l’esplosione definitiva della NBA, negli anni Ottanta. Hanno resistito e mutato anche la formula del loro gioco.
Un fenomeno circense, penseranno i più. Oggi è difficile dar torto a queste voci: gli Harlem incarnano la vera essenza goliardica dello sport e della pallacanestro. C’è stato però un tempo in cui tutto questo ancora non era possibile.
Era il 1939. Un giornalista del Chicago Tribune, Arch Ward, decise di istituire un torneo professionistico che decretasse la squadra più forte del mondo (gli americani hanno a cuore sottolineare come il basket sia una loro invenzione), il World Professional Basketball Tournament. Scorrendo la lista delle partecipanti a questa prima edizione era impossibile non scorgere la squadra di Abe Saperstein.
Gli Harlem per quella prima edizione arrivarono in semifinale, sconfitti al Chicago Coliseum dai New York Rens col punteggio di 27 a 23 per i futuri campioni. Era la prova che gli Harlem Globetrotters erano pronti per palcoscenici più grandi della sala da ballo del Savoy. Motivo per il quale finirono per partecipare anche all’edizione successiva del WPBT.
20 marzo 1940, in campo da una parte i Chicago Bruins, dall’altra gli Harlem Globetrotters. Due squadre di Chicago, che proprio a Chicago si contendevano il titolo mondiale. La partita finì 31 a 29 (dopo un tempo supplementare) per i Globetrotters, che al secondo tentativo diventarono ufficialmente campioni del mondo.
Basket e razzismo
Abbiamo detto in apertura di come il basket fosse esemplare della segregazione razziale che caratterizzava la politica statunitense. La tutela delle persone di colore era assente tanto nelle strade quanto nelle palestre e la classe elitaria bianca continuava ad ignorare questa dura realtà.
Abe Saperstein propose la sua squadra alle leghe professionistiche americane, ricevendo sempre una porta in faccia. Per quanto il tasso tecnico non fosse in discussione, anzi superasse di gran lunga quello delle squadre concorrenti, gli Harlem si videro negare l’accesso prima dalla National Basket League nel 1937, poi dalla Basketball Association of America nel 1947. La causa, sempre la stessa: they are black.
NBL e BAA erano i diretti genitori di quella che, il 3 agosto del 1949, divenne la NBA. Anche nella neonata divisione però, non c’era spazio per i neri.
Tra gli Harlem Globetrotters del tempo c’è però un giocatore che sarà consacrato alla storia.
Nathaniel Clifton, detto Sweetwater, gioca da due anni con gli Harlem in giro per gli USA. La leggenda narra che proprio Abe Saperstein, vedendosi respinto dalle leghe pro, avesse posto un veto sul l’ingresso nelle stesse di giocatori di colore, quasi a voler mantenere il monopolio su questa frontiera. Clifton probabilmente questo non lo sa, quando riceve la chiamata dei New York Knicks. Nat Sweetwater Clifton è il primo afroamericano a firmare un contratto nella NBA. È il 1950 e la pallacanestro ha la sua svolta epocale. Gli Harlem Globetrotters perdono l’esclusiva, ma non il successo.
Un successo universale
22 agosto 1951. Settantacinquemila anime popolano lo stadio Olimpico di Berlino. In campo nessuna squadra di calcio, nessuna gara di atletica. Un atleta in realtà c’è e si chiama Jesse Owens, il più celebre americano in terra tedesca. Solo che anziché calcare la pista come sempre, è in mezzo ad un campo da basket, assieme agli Harlem Globetrotters, pronti a giocare. È così che la squadra più famosa d’America inizia a diventare la squadra più famosa del mondo. Anche l’Europa diviene terra di conquista. Come è naturale, la squadra più famosa del mondo comincia a far gola anche al giocatore più forte del mondo (oltre che famoso).
Wilt Chamberlain, nel 1958, ha ancora un anno di college da affrontare, ma la NBA già lo sta aspettando con trepidazione. È alto due metri e diciassette centimetri e ha un corpo che rasenta la perfezione umana applicata allo sport. Nessuno come lui ha mai partecipato ad un qualsiasi evento sportivo. Avrebbe potuto dominare in qualsiasi disciplina di atletica leggera, a pallavolo persino, ma per grazia divina scelse la pallacanestro. Ha solo un piccolo difetto, che ha nome immaturità. È una piaga che affligge molti, anche tra i migliori.
Per questo Wilt rinuncia al suo ultimo anno di college, indispensabile per giocare in NBA, e firma il primo contratto della sua vita. Sessantacinquemila dollari per prestare la sua immagine agli Harlem Globetrotters. Il suo numero 13, sulle canottiere a stelle e strisce degli Harlem, arriva fino a Mosca dove Nikita Krusciov in persona si scomoda per stringergli la mano. La favola dura un anno soltanto, perché un giocatore così forte è troppo per i Globetrotters, ma da questa partnership emerge un dato indicativo: gli stipendi offerti dalla squadra di Saperstein sono più del doppio di quelli che offre una normale franchigia NBA. Ad oggi il raffronto sarebbe impensabile, ma da ciò si intuisce come, oltre al divertimento, un altro motivo più concreto avesse spinto Wilt Chamberlain a rimandare l’ingresso tra i professionisti.
Gli Washington Generals
Per una squadra che vince, ce n’è una che perde. Questa dev’essere stata l’intuizione di Louis Klotz, detto il Rosso, quando decide di fondare gli Washington Generals, originari in realtà di Atlantic City. Per tutti i Generals sono gli avversari degli Harlem Globetrotters.
Dal 1952 al 1995, benché abbiano cambiato nomenclatura diverse volte (Boston Shamrocks, New Jersey Reds, Baltimore Rockets e Atlantic City Seagulls), sono sempre loro a seguire nei tour gli Harlem e sono sempre loro ad uscirne sconfitti. O meglio, quasi sempre.
In quarant’anni infatti si possono contare la bellezza di sei vittorie. L’ultima nel 1971 a Martin, Tennessee, che interrompe una striscia di 2499 sconfitte consecutive.
A tre minuti dalla fine dello spettacolo, dalla panchina dei Globetrotters si solleva un problema. I Generals stanno vincendo di dodici punti. Gli Harlem allora smettono di divertirsi e cominciano a giocare, fino all’ultimo secondo, quando Meadowlark Lemon (forse assieme a Chamberlain, il più famoso Globetrotter) sbaglia il tiro della vittoria, consegnando un incredibile successo ai rivali. Il pubblico, come reazione, impazzisce di rabbia, non potendo credere che i loro beniamini conoscessero anche la sconfitta.
Non si può parlare di pallacanestro senza considerare gli Harlem Globetrotters. Forse la recente popolarità della NBA, che ha ormai sdoganato il basket in tutti i continenti, ha dato l’impressione di oscurare il fenomeno Harlem.
Dal canto loro, però, i Giramondo continuano a riempire i palazzetti di ogni parte del globo come se non esistesse nessun LeBron James o nessun Kobe Bryant. Come se non esistesse altro che il gioco finalizzato al divertimento senza alcuna distrazione. Sono l’essenza più pura dello sport americano e se ad oggi milioni di bambini nel mondo gioiscono per i propri campioni afroamericani e sanno che cosa sia una schiacciata o un passaggio no look lo devono direttamente ai Savoy Big Five.
Agli Harlem Globetrotters.
Mattia Pintus
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