Isaiah Austin

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Isaiah Austin

Più forte del male

Arlington, Texas. La primavera del 2005 corre sul piccolo diamante della città: il perimetro dei sogni accoglie i progetti professionistici della classe del 1993. I ragazzi si concentrano, corrono, battono, immaginano l’atmosfera dello Yankee Stadium e dei grandi templi del baseball. Solo uno di loro gioca per condividere un’esperienza di vita con i suoi amici. Si chiama Isaiah Austin. È lungo, magro e dinoccolato e ha un futuro radioso sotto i canestri delle high school texane; sente che i lanci e gli swing non fanno per lui, ma difende con entusiasmo una base dall’assalto dei suoi avversari.

All’improvviso sente un sibilo e uno schianto gli spegne l’occhio destro: cade a terra nel buio. Un lancio maldestro, un bersaglio sbagliato, una palla troppo rapida per un corpo rilassato: la retina si stacca. Isaiah comincia il suo calvario oftalmico: nessun medico riesce a fissare la membrana che spalanca i colori all’anima per più di poche settimane. Basta un sussulto e quell’occhio destro si spegne, ma Austin non si spaventa: non si è mai perso d’animo.

Scopre che il basket è la migliore preghiera che l’uomo abbia mai inventato: quando il suo corpo flessuoso si muove con leggiadria fra gli angoli delle difese e fra gli spigoli degli attacchi, la sua anima ringrazia Dio. Porta il nome del primo annunciatore della venuta di Cristo e predica un atletismo che si nutre di lavoro, ma il suo occhio destro non accetta le aggressioni ai ferri e ai tabelloni.

In un tranquillo pomeriggio del 2008 Isaiah fa tremare il canestro della sua scuola con una schiacciata portentosa, poi cade a terra; le mani coprono il suo volto, ma non fermano il sangue che scorre nella sua vista. La retina ballerina si è staccata per sempre; altre cliniche, altri interventi, altre settimane lontano dai campi, altri dolori lancinanti. Molti gli suggeriscono di placare la sua fame cestistica, ma Austin non accetta: vuole diventare il Profeta del basket, sogna di portare l’amore cristiano sui campi d’America, crede che la sua missione sia il miglior ringraziamento che un ragazzo fortunato possa innalzare al cielo.

Non è facile vivere con un occhio solo, ma Isaiah non legge il suo incidente come una sventura: si chiude in palestra poiché vuole continuare a giocare. Perde la profondità? Non riesce a mettere a fuoco il canestro? La fede e il lavoro riempiono il vuoto della vista: tira per ore, educa i suoi polpastrelli a sentire la retìna nei loro gangli, plasma una nuova rètina nel tocco della sua mano destra. Nessuno sa che una schiacciata lo ha reso orbo; i suoi compagni immaginano che l’occhio destro gli dia qualche problema, ma sono convinti che gli occhiali risolvano quasi tutti gli inconvenienti. Si fidano di lui, lo ammirano, lo seguono: non gli ha mai parlato del buio che avvolge la metà nobile del suo mirino.

Isaiah cresce, si allunga, diventa forte, domina le partite con la sua versatilità: non pretende di gestire l’attacco poiché adora il suo impatto difensivo e la sensazione che si allarga fra i muscoli quando cattura un rimbalzo o frustra la parabola improvvida di un avversario con una stoppata. I Bears di Baylor University notano la maturità che riempie i suoi 210 centimetri e lo reclutano: Isaiah indossa la canotta verde e non smette mai di stupire. La sua crescita è prodigiosa: il suo corpo si allunga, il suo impatto si dilata. Alla fine del primo anno, Austin raggiunge i due metri e diciotto e finisce sui taccuini di tutte le franchigie che detengono le prime dieci scelte del Draft 2013; quando il suo futuro sembra scritto con l’inchiostro della gioia, una spalla malandrina lo abbandona e lo costringe a tornare sotto i ferri.

I provini di Chicago saltano, l’opportunità di vivere subito il palcoscenico più importante del mondo sfuma, i progetti per un avvenire denso di soddisfazioni slittano, ma Austin non si abbatte: rientra nella palestra dei Bears, si rimette al lavoro, continua a crescere. I suoi compagni osservano con discrezione le braccia infinite che li stoppano: si allungano ogni notte? Il sospetto si insinua insieme alla stanchezza che avvinghia i muscoli affusolati di Isaiah: le preghiere non bastano più, l’energia arriva piegata e prostrata, il sangue nutre fibre che non conoscono il significato dell’arresto. Mamma e papà si insospettiscono: la retina perduta, le gambe interminabili, le braccia estreme, la schiena leggermente curva, la leggera spossatezza del quotidiano… Troppi indizi alimentano i dubbi clinici: il loro figliolone ha bisogno di esami accurati, è troppo giovane per rischiare che i campanelli d’allarme si trasformino in sirene spiegate.

Continua a distinguersi nel college basketball, ma il suo rendimento scende leggermente: gli scout NBA mostrano le prime perplessità, i medici lo osservano, gli infermieri prelevano il suo sangue e lo passano ai colleghi delle analisi. Le quotazioni di Isaiah scendono, ma non si schiodano dal primo giro: il cocktail di tecnica e devozione che accende quei 218 centimetri di trasparenza è troppo accattivante per finire nel dimenticatoio. Il ragazzo sorride: quando esce dai provini di Chicago sente che il suo sogno sta per avverarsi. Il Commissioner Adam Silver chiamerà il suo nome, lo farà salire sul palco e gli regalerà il cappellino della squadra che si godrà il suo ombrello difensivo. Mancano cinque giorni all’evento che cambierà la sua vita: NBA Draft 2014, suona anche bene! Mamma Lisa ascolta le sue parole gioiose, poi apre la busta delle analisi e viene travolta dall’istante più lungo della sua vita; accende la macchina e si fionda dal figlio.

Tutti i peggiori sospetti sono confermati, il verdetto è tremendo: Isaiah Austin ha la Sindrome di Marfan. I tessuti del suo corpo crescono senza sosta e l’aorta è troppo grande per reggere la pressione della pallacanestro; la tragica morte di Flo Hyman, grande promessa del volley a stelle e strisce, ammonisce medici, parenti e amici: Isaiah si deve fermare. Subito. Scoppia in un pianto irresistibile, poi guarda il cielo: nonostante tutto, Isaiah si sente salvato, sopravvissuto, miracolato.

Convoca una conferenza-stampa e annuncia al mondo il suo ritiro; chiede scusa a tutti i suoi tifosi poiché nessuno di loro potrà ammirarlo tra i pro, ma saluta con una frase che rispecchia la sua grandezza: «Questa non è la fine, è solo l’inizio!» Le sue parole commuovono il mondo: Adam Silver non riesce a trattenere le lacrime. Lo chiama, lo ringrazia e lo invita alla grande cerimonia del Draft, poi trasforma la festa delle matricole più esplosive del cosmo in un patrimonio dell’umanità: alla metà esatta del primo giro si rivolge a Isaiah Austin e lo sceglie a nome dell’NBA.

Isaiah con Adam Silver durante la cerimonia del Draft

Isaiah con Adam Silver durante la cerimonia del Draft

Il Madison Square Garden esplode in un applauso infinito: tutti abbracciano quello sfortunato ragazzone che trema per l’emozione e piange per la gratitudine. Il suo nome è risuonato nell’Arena più famosa d’America, ma non si fermerà sotto la grande cupola del Garden: Isaiah sarà il Profeta della ricerca e porterà le parole della speranza ai ragazzi che non possono vivere i loro sogni affinché un giorno i medici riescano a curarli e a rimetterli in campo. Lotterà con un occhio solo e con un cuore troppo grande per smettere di battere il ritmo della gioia: «Life goes on, God is still great!»

Daniel Degli Esposti
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