Springboks e All Blacks
La riconciliazione su un campo di rugby
Due aree contrapposte. Due mete. Due squadre avversarie. Calci, tanti. Mischia, sangue che schizza. Fango e uomini a terra. Giudizi, fischi, azioni. Reazioni. Una lunga storia d’incontri, proteste e traumi sulle spalle. Il mondo che guarda.
Il campo di gioco della partita tra la nazionale sudafricana e quella neozelandese quel 24 giugno 1995, incontro finale del Campionato Mondiale di rugby, diventa metonimia di un Paese, dove ogni passaggio è segnato da una dimensione politica non facilmente eliminabile, dove ogni esultanza si alterna nel ricordo a un doloroso dispiacere, dove, letteralmente, “l’impossibile si fa possibile”. Per lo meno allo stadio.
Le due selezioni condividono con orgoglio e fierezza una storia sportiva che data del 1921, con la prima visita dei sudafricani ai neozelandesi (terminata con un pareggio in quanto il primo incontro è vinto dai padroni di casa; il secondo dagli ospiti). Sin dall’inizio del Novecento le due nazionali sono meglio identificate dal soprannome: gli oceanici sono gli All Blacks, i “tutti neri”; gli africani sono gli Springboks, le antilopi.
Gli storici match tra i due giganti rivali del rugby mondiale sono condizionati dalle leggi razziste sudafricane: già prima del 1948, quando con l’apartheid l’idea della separazione tra bianchi e neri viene trasformata in un sistema legislativo compiuto, la legge imponeva che tutte le squadre in tour in Sudafrica non potessero convocare (né tantomeno schierare) giocatori di colore in campo. Fin dalla prima partita in terra sudafricana i neozelandesi si adeguano: nel 1928 escludono dalla squadra l’ala George Nepia, che aveva esordito proprio nell’anno del primo incontro tra gli All Blacks e gli Springboks; ed escludono anche il mediano d’apertura Jimmy Mill, entrambi con ascendenza maori, protagonisti di una gloriosa serie di 38 partite senza sconfitte in Europa tra il 1924 e il 1925, a seguito di cui i neozelandesi verranno ribattezzati “gli Invincibili”. Nel 1937 gli Springboks visitano per la seconda volta i rivali, scuotendo i padroni di casa l’umiliazione della sconfitta: gli All Blacks vincono il primo test, ma perdono gli altri due. I sudafricani capitanati da Philip Nel sono ancora oggi considerati i più forti di tutti i tempi.
A quel tempo Nelson Mandela ha 19 anni, Guernica è distrutta, Adolf Hitler sta pensando di acquisire “spazio vitale” per il popolo tedesco.
L’apartheid
Dopo la seconda guerra mondiale, in Sudafrica l’apartheid divide rigidamente spazi, culture, vite delle persone: la segregazione dei neri è sistematica, vengono istituiti i bantustan, l’unione tra gente bianca e di colore (puramente ricreativa, lavorativa, sessuale o matrimoniale che fosse) è perseguita penalmente, diventa illegale per i neri il possesso di beni. Il Sudafrica piomba in un clima inospitale di terrore e orrore. Lavori forzati, rappresaglie, soprusi. Nella primavera del 1960 viene introdotta la legge del lasciapassare: i non bianchi devono avere uno speciale foglio che autorizzi il loro passaggio nelle zone dei bianchi. La gente protesta a Sharpeville, la polizia spara sulla folla: è un massacro.
La tensione sale, gli Springboks, espressione coloniale dello sport in Sudafrica, sport emblema della minoranza bianca, sono duramente criticati dalla comunità internazionale. I neozelandesi in partenza per il continente africano protestano: “No Maori No Tour”. La protesta cade nel vuoto, malgrado le 150.000 firme raccolte in patria a favore del viaggio dei giocatori maori. Sette anni dopo il tour degli All Blacks è cancellato: il governo sudafricano rifiuta ancora di ammettere giocatori maori nella squadra neozelandese: saranno ammessi nel 1970, e assieme a loro saranno ammessi spettatori maori in qualità di ospiti onorari dei bianchi. Negli stessi anni l’Onu inserisce la separazione razziale tra i crimini contro l’umanità.
Nel 1971 gli Springboks organizzano un tour in Australia. I sudafricani vincono negli stadi, mentre fuori si moltiplicano le proteste anti-apartheid. Le associazioni sindacali di trasporto si rifiutano di ospitare gli atleti. Il primo ministro neozelandese Norman Kirk blocca per ragioni di sicurezza il tour previsto in Nuova Zelanda due anni dopo. Si arriva a boicottare il Sudafrica nelle Olimpiadi di Montreal: il Commonwealth emana l’accordo di Gleneagles, che vieta ogni tipo di contatto sportivo con la nazione dell’apartheid. Gli Springboks sono esclusi dalla prima Coppa del Mondo di rugby nel 1987, vinta dagli All Blacks.
Le smagliature del sistema politico dell’apartheid si sfaldano poco a poco, con fatica. A febbraio del 1990 Nelson Mandela, attivista dell’African National Congress, leader della lotta armata anti-apartheid, esce dopo 27 anni di prigione. Quattro anni dopo sarà il primo Presidente del Sudafrica eletto con leggi democratiche non razziste. Nel 1992 gli Springboks sono di nuovo ammessi nel circuito internazionale del rugby. E in quell’estate del 1995 il Sudafrica si risveglia, con quelle straordinarie settimane della Coppa del Mondo di rugby, sotto l’egida del neopresidente che pacatamente cerca di unire e risollevare il suo Paese. È il Sudafrica a organizzare il mondiale. Una nazione attraversata da una ferita quasi ancestrale. Con una squadra rimasta isolata per troppo tempo. Come la divisione aveva permeato la vita, così aveva permeato lo sport. Occorre un cambiamento: il nome innanzitutto. Basta inneggiare agli Springboks. I neri non possono sostenere i rappresentanti di chi per così a lungo li ha sfruttati, torturati e umiliati. Occorre un nuovo nome.
«Il nome non si cambia». Una direttiva dall’alto. Un ordine presidenziale.
Occorre riconciliarsi con le antilopi. Occorre riconciliarsi con il rugby. Mandela intuisce l’ubuntu della palla ovale. Quella fede in un legame universale che lega l’umanità.
Il nome resta.
È l’uomo che deve cambiare.
La finale del Mondiale 1995
Gli All Blacks dominano le gare. Come da pronostico. Gli Springboks raccolgono consensi e riescono ad arrivare in finale. Non esattamente come da pronostico.
Le avversarie di sempre sono di nuovo una davanti all’altra, pronte per l’ultimo scontro.
In campo il Sudafrica schiera André Joubert, Japie Mulder, Hennie le Roux, James Small, Joël Stransky, Joost van der Westhuizen, Os du Randt, Chris Rossouw, Balie Swart, Hannes Strydom, Kobus Wiese, Ruben Kruger, François Pienaar, Mark Andrews e Chester Williams, l’unico atleta di colore. Il primo dell’era professionistica e il terzo in assoluto, dopo Errol Tobias e Avril Williams, che era suo zio.
La Nuova Zelanda schiera Glen Osborne, Jeff Wilson, Walter Little, Frank Bunce, Andrew Mehrtens, Graeme Bachop, Olo Brown, Sean Fitzpatrick, Craig Dowd, Robin Brooke, Ian Jones, Mike Brewer, Josh Kronfeld, Zinzan Brooke e, last but not least, Jonash Lomu, la vera star dei Mondiali, un metro e novantasei per 120 chili, capace di correre I 100 metri in 10’’8.
Un gigantesco Boeing 747 vola sull’Ellis Park di Johannesburg a pochi minuti dal fischio d’inizio. Un boato tremendo, 63mila spettatori che sussultano, poi la scritta: “Good Luck Bokke”, “Buona fortuna antilopine”. Un’agguerrita mossa dell’organizzazione sudafricana che a sorpresa contrasta gli occhi dilatati e le linguacce della tradizionale danza haka intimidatoria degli All Blacks.
La finale è dura. La star Lomu è sottotono: nessuna meta per lui, nessuna in assoluto. L’atmosfera è molto tesa, con i sudafricani molto impegnati nella difesa. I mediani di apertura Joel Stransky e Andrew Merthens danno vita a una battaglia personale. Ma non basta. Il secondo tempo si chiude su un punteggio 9-9, l’arbitro concede i supplementari. La musica non cambia: Merthens, che aveva mancato l’occasione negli ultimi minuti del tempo canonico, ci mette tutta l’energia: fa ammenda con un piazzato che però viene pareggiato da Stransky. Il punteggio è 12-12. A sette minuti dalla fine la svolta: Stransky prova un drop da trenta metri. L’arbitro Ed Morrison lancia il fischio finale: il Sudafrica si è laureato campione del mondo di rugby.
È un’esplosione di gioia, il principio di riconciliazione di un Paese messo in atto dal presidente Mandela, per tutti “Madiba”, il capo di governo di una “nazione arcobaleno” che nello scoprirsi campione di rugby si ritrova unita.
Il capitano degli Springboks, François Pienaar, afrikaaner doc, 2 metri per 120 chili, a bordo campo regala alla stampa la migliore battuta cinematografica: «Non abbiamo vinto davanti a 63mila spettatori, abbiamo vinto davanti a 43milioni di africani».
È proprio lui a ricevere la coppa dalle mani di Mandela, che veste la sua maglia, la numero 6, e porta il cappellino verde della squadra.
L’arbitraggio nella semifinale con la Francia ha lasciato qualche dubbio; gli All Blacks avanzano accuse di avvelenamento, abbandonano la cena della Federazione di Rugby del dopopartita dopo che il presidente Louis Luyt dice che il Sudafrica avrebbe vinto anche le precedenti edizioni, se solo avesse potuto partecipare. Ma poco importa rispetto all’impronosticabile traguardo di avere unito una nazione che sembrava aver toccato il fondo.
Un evento simbolico, che precede quello che più di ogni altro ha segnato la svolta del nuovo Sudafrica, ovvero l’istituzione della Commissione per la Verità e la Riconciliazione, organismo di mediazione politica voluto da Nelson Mandela e dall’arcivescovo Desmond Tutu, con la funzione di accertare e rendere pubbliche le violazioni dei diritti umani emerse nelle narrazioni dell’apartheid. Un grande rito catarchico necessario per il perdono e l’avanzamento del Paese, che ancora nel mondiale, come rivendicato da Chester Williams anni dopo, nasconde facili soprusi: prese in giro, isolamento, «non potevano pensare che un nero potesse giocare meglio di un bianco», scriverà nella sua autobiografia parlando del periodo del Mondiale 1995. «Ci tolleravano solo perché la cosa faceva sì che all’esterno l’opinione pubblica pensasse che loro erano cambiati. I bianchi in Sudafrica crescevano con l’idea di essere superiori ai neri».
Tuttavia, oggi il volto del Sudafrica è per tutti il viso di un presidente nero che sorride, uno studente ribelle, prigioniero politico, torturato, che ha saputo acciuffare il sogno di una nazione libera utilizzando, per la sua comunità, ogni arma a disposizione. Anche indossando la divisa del capitano della squadra amata dai suoi persecutori davanti a un mondo intero che guarda.
Vittoria.
Melania Sebastiani
© Riproduzione Riservata
Quella in foto non è la Web Ellis Cup ma la Bledisboe Cup
Grazie della segnalazione!