La Fortitudo Bologna
L’ultimo volo dell’Aquila biancoblù
È il 27 luglio, Stadio Olimpico Sebastian Coe, Londra. Comincia alle ore ventuno locali la cerimonia inaugurale dell’Olimpiade 2012. Un momento di giubilo per tutto il mondo dello sport e per i colori azzurri, pronti a far valere le proprie ambizioni. Ambizioni nutrite da ogni atleta di ogni disciplina presente e rimpiante da chi il più grande evento sportivo globale è costretto a guardarselo in poltrona. La nazionale di pallacanestro, per esempio, mestamente avvoltasi su sé stessa nel momento del bisogno. Estate 2011, Campionati Europei di basket in Lituania. Proprio quando ogni partita non conta solo per il successo, ma anche per la qualificazione a Londra, i dodici atleti azzurri vengono meno.
Morte di una società
Luglio 2012. Un mese nero per tutti gli appassionati della palla a spicchi, un mese in cui le brutte notizie non si limitano alla Nazionale. Esattamente tredici giorni prima della cerimonia olimpica davanti alla Regina Elisabetta, si è svolto un incontro che difficilmente verrà scordato.
Il giorno è il 14 e la sfida si disputa lontana dai parquet, in un ufficio di via Vitorchiano 113 a Roma, il quartier generale della Federazione Italiana Pallacanestro. L’esito è scontato, poiché le parti hanno smesso di combattere ormai da tempo: il Consiglio Direttivo dichiara radiata la Fortitudo Pallacanestro Bologna e ne revoca il codice di affiliazione. I debiti della società, sia con il Comune sia con la Federazione, sono troppo elevati. Il PalaDozza, la storica casa delle Aquile, ritrovo di migliaia di tifosi, viene smembrato e vengono messi all’asta persino i tabelloni. Resta nell’aria solo quel profumo di competizione che mai verrà dimenticato. Muore una delle stelle più luminose del firmamento cestistico italiano.
Non è tra le società più blasonate, la Fortitudo (appena due scudetti), ma sicuramente è tra le più amate d’Italia. Tutto nasce dalla città, Bologna, che di sport se ne intende quanto di musica, ma che soprattutto propone due delle più belle realtà d’Europa: la Fortitudo Bologna e i cugini della Virtus. Una rivalità che continua dal 1932, anno di fondazione dei biancoblù della Fortitudo, e che si è riaccesa più forte che mai proprio a cavallo del millennio, quando nel 2001 i bianconeri virtussini hanno festeggiato il loro quindicesimo scudetto, lasciando ai rivali il ricordo del primo titolo, conquistato appena l’anno precedente. Eterni secondi, forse, ma con l’orgoglio e la fierezza di essere la Fortitudo.
Eppure la tifoseria, la Fossa dei Leoni, l’epilogo senza appello se lo aspetta già da quattro anni. A nulla sono valsi i ripescaggi, la Effe Biancoblù, i falsi nomi per sfuggire alla giustizia. Perché la Fortitudo è finita a Teramo, nel 2008, quando la squadra bolognese è retrocessa all’ultima giornata sullo scomodo campo abruzzese, per un tiro non convalidato all’ultimo secondo. Instant replay, dolore, sconfitta e ricorso. Una fine da film. Una sconfitta con la “S” maiuscola, che come per un contrappasso dantesco, si riflette in un’altra, diversa partita. Diversa, ma a suo modo somigliante.
L’ultimo scudetto
16 giugno 2005, Milano. Un giovedì simile a tanti altri nella grande città. Il caldo comincia a sentirsi e il sole tramonta sempre più tardi. Al Mediolanum Forum una piccola porzione di metropoli attende, cantando, la palla ai due più importante della stagione. È gara-quattro di finale scudetto: l’Armani Jeans Milano, la storica Olimpia, ospita la Climamio Bologna, la Fortitudo per intenderci. Dodicimila persone, iniquamente divise tra le due contendenti (undicimilacinquecento milanesi e cinquecento bolognesi) palpitano a ogni minuto che scorre.
Inquadrato con insistenza dalle telecamere, un uomo dai capelli argentei come una collana di perle indossa una canotta da tifoso, sopra ad un’immancabile t-shirt nera aderentissima. Sul volto abbronzato, un sorriso un po’ altezzoso. È Giorgio Armani. Assieme ad Adriano Galliani e ai Moratti ha ridato la speranza ai fan del capoluogo lombardo, dopo troppe stagioni opache.
Torniamo al parquet. La terna arbitrale, i grigi come allora si potevano ancora chiamare, è formata da Luigi Lamonica, Stefano Ursi e Carmelo Paternicò. La partita è imminente. La Fortitudo conduce la serie 2 a 1, e potrebbe terminarla proprio a Milano, cucendosi sul petto uno scudetto che manca da cinque anni. Milano dal canto suo, prova a vivere la sua seconda giovinezza, con un entusiasmo febbrile che sa già di storia.
Il canto dello speaker, le presentazioni. Fortitudo per prima. Il coach Jasmin Repeša, poi via via gli altri. Un’accoglienza ostile, tra i fischi, per gli undici giocatori pronti a giocarsi una fetta di gloria. Il turno di Milano è avvolto dal boato casalingo. Lo sguardo tra Dalibor Bagarić e James Singleton, per il salto iniziale, accende finalmente la partita. Quattro quarti di basket essenziale, esplosivo. La tensione trasmessa dal match si percepisce ben oltre il Mediolanum Forum, arriva sino alle pantofole dei tifosi a casa, li travolge in un impeto di agonismo che solo una finale può esaltare.
Ed ecco il momento della verità. Quarto quarto, i secondi mancanti sul cronometro sono trentadue e Joseph Blair, idolo di casa, è in lunetta pronto ad ammazzare la partita. 65-63 è il risultato prima dei tiri liberi. Resterà tale dopo che saranno stati tirati.
La palla schizza beffardamente sul ferro ed il primo ad arrivarci è Rubén Douglas, guardia USA della Climamio. Douglas, ex Panionios, è arrivato alla Fortitudo con le migliori aspettative, dopo un secondo posto nella classifica cannonieri del campionato greco. La palla rotola, e Douglas ci si avventa come un giaguaro sulla preda. Appena ne acquisisce il possesso, Dante Calabria spende un fallo. Bonus. Due tiri liberi. Con tutta la pressione del mondo addosso, Douglas ne piazza uno su due: 65-64.
All’Armani, ora, la palla del proprio destino. La discrepanza tra i ventiquattro secondi per terminare l’azione ed il cronometro obbliga la Fortitudo a non commettere fallo e permette a Milano di giocarsi un possesso pieno nella speranza di realizzare. La sfera è in cassaforte, sotto la regia di Aleksandar Saša Đorđević.
Il nome di Saša risuona, nella pallacanestro europea, come un comandamento. Il figlio del grande Bratislav, a trentasette anni, ha un palmarès individuale formidabile. Non ha intenzione di privarsi del suo ultimo successo. Il suo volto incarna appieno il carattere sportivo dell’Est. Spietato.
I palleggi rimbombano tra i cori del palazzetto, attacco e difesa si studiano, concentrati su ogni goccia di sudore versato, nel limite labile tra vincere o perdere. Đorđević attende, poi passa sul blocco di Blair. Si arresta in virata, giusto il tempo per vedere Calabria uscire dai blocchi, sull’arco degli allora sei metri e venticinque. La palla vola da una mano all’altra, in un passaggio che pesa come un macigno, ma è scagliata dal play dell’Armani come se fosse una piuma.
Il giocatore di Milano riceve, mancano due secondi allo scadere dei ventiquattro di possesso pieno. Prende la mira. Il volo del pallone sembra eterno. E ancora una volta la fortuna dell’Armani si infrange sul ferro.
Ciò che accade dopo è leggenda. Chi ha avuto la fortuna di guardare in diretta quei 5.9 secondi restanti, sa di aver assistito ad uno di quegli eventi che resteranno nella memoria dello sport.
Sul filo di lana
Gianluca Basile prende il rimbalzo. Il mondo si ferma. Chi meglio di lui può decidere una partita fondamentale? Nessuno, tranne Douglas. Già, perché il Baso vede Douglas libero, che riceve in corsa e scaglia da una distanza quasi siderale. Il gong si accompagna preciso al pallone che accarezza il cotone, alle urla dei cinquecento bolognesi e ai salti di gioia dei biancoblù fortitudini. Entusiasmo prematuro, perché nulla è deciso, anzi…
La parola passa alla tecnologia. La parola passa alla moviola in campo, che nella NBA americana esiste dal 2002 e in Italia, tramite un accordo tra Lega e Sky, è arrivata proprio per quei play off.
Da regolamento, è il primo arbitro a dover chiamare la moviola: in questo caso Luigi Lamonica, il principe degli arbitri europei, uno dei migliori al mondo. Il pescarese indica il video e il pubblico ammutolisce. Blair è seduto per terra, Basile si copre il volto cercando di celare le emozioni confuse. Il tavolo degli ufficiali è sommerso da dodicimila sguardi. E le immagini fanno il loro dovere. Lamonica alza tre dita di entrambe le mani, la tripla è valida. La Fortitudo è Campione d’Italia.
Quello che resta oggi sono quelle immagini di gioia irripetibile, quei momenti in cui ci si innamora veramente dello sport. Perché questa è la pallacanestro, questa è stata la Fortitudo.
Sembra un secolo, sono solo pochi anni. Ora non resta che rispolverare vecchie foto, credere che senza quel nome nell’almanacco il basket non sia più lo stesso. È un sentimento, come se ne provano talvolta nella vita. Un sentimento che fa ancora cantare a tanti bolognesi «E Fortitudo alé, sempre con te sarò!».
Mattia Pintus
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Meno male che c’è qualcuno che ancora si ricorda della gloriosa Fortitudo. L’Aquila Biancoblu manca davvero nel panorama cestistico nazionale. Grazie per questo articolo