Joe Louis-Max Schmeling
Un “match” lungo una vita
Chissà cosa passò per la testa di Max Schmeling quando, colpito da un ennesimo, terribile gancio di Joe Louis, finì ancora una volta – l’ultima di un breve, ma intenso calvario – con le ginocchia sul tappeto. Chissà se in quel momento, mentre i secondi si catapultavano sul ring per prestargli soccorso, il pugile vinto riuscì, nonostante il dolore lancinante, le urla della folla e il tripudio dello staff avversario, a comprendere la portata della sua sconfitta.
Quello non era stato solo un incontro di boxe, anche se lo avevano definito (con scarsa fantasia), il match del secolo. Di sicuro il titolo mondiale dei massimi, a cui Schmeling aveva dato l’assalto, non era la principale posta in palio. Né bastava il desiderio di rivincita di Louis, campione in carica sconfitto dallo sfidante nel ’36, a giustificare l’interesse planetario per quell’incontro.
Oltre la boxe
Ciò che andò in scena il 22 giugno 1938, allo Yankee Stadium di New York, fu lo scontro simbolico tra due nazioni – gli USA e la Germania – che di lì a poco avrebbero disputato un match ben più reale e sanguinoso. Mesi di martellante propaganda, da una parte e dall’altra, avevano infatti trasformato quell’incontro in qualcosa di diverso. Sul ring si affrontarono, in realtà, due culture e due visioni del mondo: la democrazia contro il nazismo.
Quella notte a Louis e Schmeling toccò un carico di responsabilità ai limiti del sostenibile. Eppure, nonostante fossero stati obbligati dai loro rispettivi governi a indossare gli scomodi panni dei condottieri, i due pugili cominciarono, proprio a partire da quel giorno, a riconquistare la loro individualità – di sportivi e di uomini – , sacrificata sull’altare della politica.
Tutto era iniziato due anni prima, sempre a New York, in un incontro senza titoli in palio. Da una parte il nero, Joseph Louis Barrow – Joe Louis –, americano, ventidue anni, detto Black Bomber, con un record di 27 vittorie consecutive (significative quelle contro Primo Carnera e Max Baer). Un pugile dotato stilisticamente e tecnicamente, con una boxe d’attacco che quasi sempre riusciva a sgretolare le difese dell’avversario. Il suo talento gli permise di scalare le classifiche mondiali a dispetto del colore della pelle, un ostacolo ancora troppo grande per un afroamericano degli anni Trenta.
Dall’altra parte il bianco, Max Schmeling, tedesco, trentun anni, noto come l’Ulano nero del Reno, che proprio all’America doveva fama e ricchezza. Alla fine degli anni Venti, la sua notevole tecnica convinse infatti gli impresari newyorchesi che aveva tutte le carte in regola per diventare l’erede del grande Gene Tunney. Max varcò l’Oceano e non deluse le attese: nel 1930 divenne campione dei massimi, battendo per squalifica l’americano Jack Sharkey. Durò poco: due anni dopo perse il titolo in una contestata rivincita.
Da lì in poi il tedesco cominciò a inanellare una serie di preoccupanti battute a vuoto finché, grazie anche al matrimonio con l’attrice polacca Anny Ondra, ritrovò il suo equilibrio e decise che era giunta l’ora di riprendersi il titolo. Una serie di convincenti vittorie, fino allo scontro – inevitabile – con il pugile del momento, Joe Louis appunto.
Il match, da cui sarebbe uscito lo sfidante al titolo, si svolse il 19 giugno 1936 in uno Yankee Stadium completamente gremito. L’esito era scontato. Tutti i bookmaker erano concordi nell’indicare il Bombardiere come sicuro vincitore: i più benevoli davano il tedesco 10 a 1. La grande differenza di età giocava a favore del nero, a dispetto della maggiore esperienza del bianco.
Le cose andarono in un altro modo. Al suono del gong Schmeling partì subito alla carica, mettendo in grande difficoltà Louis che finì due volte al tappeto nei primi sei round. Il giovanotto, scosso da quei colpi tremendi, resistette fino alla dodicesima ripresa, quando fu mandato definitivamente KO.
«Heil Hitler», fu lo sprezzante saluto dell’Ulano al pubblico attonito, mentre si rimetteva la vestaglia nera decorata da una svastica. Un gesto molto gradito ai nazisti, che da allora decisero di far di Max un’icona del regime. Tornato in patria con l’Hindenburg, Schmeling fu accolto come l’incarnazione vivente della superiorità della razza ariana. Un’idea tragicamente stupida, a pensarci bene: Max aveva capelli scuri, folte sopracciglia nere e carnagione olivastra!
Schmeling, comunque, non si lasciò incantare più di tanto dalle sirene dei gerarchi. Invitato ad iscriversi al Partito Nazista, non solo declinò l’offerta, ma rifiutò con durezza le pressioni del ministro dello Sport Hans von Tschammer affinché licenziasse il suo manager ebreo Joe Jacobs.
Nel frattempo, la sconfitta di Louis aveva scompigliato i piani degli impresari che, tuttavia, decisero di ignorare quel verdetto. Il tedesco, che aveva conquistato il diritto di sfidare il campione in carica, venne così ingiustamente sostituito proprio con The Bomber. Louis non si fece sfuggire l’occasione e il 22 giugno 1937, a Chicago, strappò il titolo a Jim Braddock.
Era dai tempi di Jack Johnson, nel 1908, che la corona dei massimi non passava a un nero. Ma a Joe ancora non bastava: confessò infatti che si sarebbe sentito campione solo dopo aver mandato KO l’unico che era riuscito a batterlo. Il suo desiderio di rivincita fu raccolto al volo dagli organizzatori.
L’ultima sfida
Fu così, che l’anno dopo, i due si ritrovarono ancora una volta sul ring dello Yankee Stadium. Un incontro atteso in tutto il mondo, preceduto, come detto, da un’incessante propaganda. Alla campagna razzista contro Louis, orchestrata dai nazisti e dallo stesso staff di Schmeling, negli States si rispose dipingendo l’Ulano come un vero selvaggio. Visti i tempi, le implicazioni politiche svuotarono in men che non si dica l’aspetto puramente sportivo.
Il match, si sa, durò poco più di due minuti: una terribile gragnola di colpi si abbatté immediatamente su Schmeling che, dopo iI KO, fu trasportato in ospedale con diverse costole incrinate. “Un massacro”, come titolò il giorno dopo il Daily News, che pose fine al delirio nazista sulla superiorità del suo pugile – presunto ariano –, immediatamente scaricato dal regime.
Ma non da Joe: quel giorno tra i due nacque infatti una sincera amicizia che durò tutta la vita. Finita la guerra Louis aiutò il rivale di un tempo, caduto in miseria, procurandogli una concessione per l’imbottigliamento della Coca Cola in Germania. Poi toccò a Schmeling, che negli anni Settanta assistette fino alla morte il vecchio campione, malato e rimasto senza un soldo.
Il bianco e il nero, eppure così uguali, entrambi pedine di un gioco più grande di loro. I rispettivi governi li avevano voluti nemici. Ora, invece, con quell’amicizia sincera, i due iniziavano finalmente a riprendersi le proprie vite.
Chissà cosa passò per la testa di Max Schmeling quando, quella tiepida sera d’inizio estate, finì per l’ultima volta con le ginocchia sul tappeto.
Forse che – tutto sommato – non era poi una gran tragedia.
Marco Della Croce
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