Rubin Carter “Hurricane”
Una tragica storia d’ingiustizia
Il verdetto scatenò la protesta dei seimila spettatori della Convention Hall di Filadelfia che sommersero con una salva di fischi la lettura dei cartellini. Sebbene lo sfidante avesse chiaramente prevalso in almeno nove dei quindici round, l’arbitro Bob Polis e i due giudici, Jim Mina e Dave Beloff, assegnarono infatti la vittoria ai punti all’italo-americano Joey Giardello, campione mondiale in carica dei pesi medi.
Fu – a detta di chi quella sera era presente a bordo ring – una vera e propria ingiustizia: Hurricane, il pugile emergente nero Rubin Carter, era infatti stato letteralmente derubato del titolo iridato. Il sospetto di un giudizio razzista – o molto più probabilmente condizionato dal racket delle scommesse – non fu mai definitivamente eliminato.
Quella sera Carter aveva combattuto davvero bene: nel quarto round un suo sinistro aveva addirittura aperto l’arcata sopraccigliare di Giardello, tanto da condizionarne il rendimento nelle riprese seguenti. È vero che il campione aveva cercato di ribaltare l’esito dell’incontro, ma ciò era accaduto solo nelle ultime quattro riprese, quando l’azione dello sfidante si era appannata a causa della stanchezza.
Una carriera in ascesa
Era il 14 dicembre 1964 e con quel match la carriera di Hurricane aveva raggiunto il suo punto più alto. Rubin aveva infatti scoperto la boxe durante la sua permanenza nell’esercito in cui si era arruolato a diciassette anni dopo essere fuggito dal riformatorio, destino obbligato per un adolescente alquanto turbolento. La vita militare, tuttavia, non faceva per lui e al suo congedo era stato riaffidato al carcere in cui era rimasto altri quattro anni. Ma il pugilato gli era entrato nel sangue e nel 1961, appena libero, aveva deciso di tentare la strada del professionismo.
Alto appena 1,75 m (una statura non proprio in linea con gli standard della categoria), il ragazzo nato a Paterson, nel New Jersey, vantava però un fisico solido e vigoroso, una forza notevole e un sinistro decisamente temibile. Il tutto sottolineato da un look per quei tempi davvero inusuale: sguardo duro e deciso, testa rasata, baffi spioventi.
La figura minacciosa e inquietante, la velocità di esecuzione e una non disprezzabile tecnica gli fecero guadagnare ben presto il soprannome di Hurricane. Proprio come un uragano i colpi di Carter si abbatterono su onesti mestieranti, come Frank Nelson, Felix Santiago e Johnny Tucker, e affermati professionisti, come Herschel Jacobs, Florentino Fernández e George Benton. In mezzo anche qualche sconfitta, come quelle contro Jose Monon Gonzalez e Joey Archer, che non gli impedirono tuttavia di dare la scalata al ranking mondiale.
Il primo, vero riconoscimento lo ottenne nel luglio del 1963, quando Ring Magazine lo inserì nella top ten dei pesi medi. Un’ascesa fulminea che diventò inarrestabile quando a Pittsburgh, nel dicembre successivo, demolì per KOT al primo round l’ex campione del mondo Emil Griffith. Una vittoria che gli fece guadagnare altre posizioni tanto che, nel 1964, fu nominato sfidante ufficiale al titolo di Giardello.
Lo sfortunato esito del match di Filadelfia ebbe però ripercussioni molto negative sul giovane Carter, fermamente convinto di avere subito un’ingiustizia. Dopo quella sconfitta Hurricane tornò subito a combattere, ma non era più quello di prima: pareva svuotato, privo di iniziativa, e dell’antica potenza non restava traccia. Sul ring della Convention Hall Hurricane sembrava aver subito un KO mentale.
Nei due anni successivi Rubin combatté altre quindici volte, alternando prestazioni convincenti, quasi sempre però contro autentici carneadi, a esibizioni da dimenticare. In particolare perse quasi tutti gli incontri disputati contro i pugili di maggior rango, come Luis Manuel Rodríguez e Harry Scott. Nel match contro Dick Tiger, poi, conobbe addirittura l’umiliazione di finire tre volte al tappeto.
La sua carriera aveva preso una china discendente, probabilmente definitiva, rapida quanto era stata l’ascesa. Ma la sua triste parabola sportiva fu niente rispetto a quanto il destino aveva in serbo per lui.
Nelle prime ore del mattino del 17 giugno 1966 due uomini – due neri – entrarono nel Lafayette Bar and Grill di Patterson, la città natale di Carter, e aprirono il fuoco contro i presenti. Sotto i colpi dei due criminali caddero il barista e un avventore, mentre una donna morì un mese dopo per le ferite riportate. Compiuto il massacro i due killer fuggirono poi su un’auto bianca. Tra i pochi testimoni oculari della strage c’era anche Alfred Bello, un criminale che si trovava nei dintorni.
Da qui in poi cominciò una serie di eventi, solo in parte casuali, che distrussero la vita di Hurricane. Qualche minuto dopo, infatti, la polizia fermò nei paraggi una Dodge bianca con a bordo due afro-americani: Rubin Carter, appunto, e John Artis, un suo amico. I due vennero subito trascinati sulla scena del crimine, ma non furono riconosciuti dagli avventori. La mancata identificazione non servì però a farli uscire dai guai, anche perché nella loro auto i poliziotti trovarono una pistola e dei proiettili da fucile dello stesso calibro impiegato nella strage.
Ad aggravare la loro situazione ci fu anche il mancato superamento della prova alla macchina della verità, a cui vennero sottoposti nel pomeriggio successivo. Un test invero non decisivo – tanto che Carter e Artis furono immediatamente rilasciati –, ma sufficiente a far sì che la polizia non smettesse di scommettere sulla loro colpevolezza.
Hurricane, nel frattempo, provò a tornare sul ring. In agosto, in Argentina, fu però sconfitto malamente ai punti dall’idolo di casa, Juan Rocky Rivero. Rubin non lo sapeva, ma quello fu il suo ultimo match.
Il processo-farsa
Il colpo di scena si ebbe sette mesi dopo la carneficina, quando Bello confessò che quella sera aveva effettivamente riconosciuto in Carter e Artis i due spietati killer. La nuova testimonianza fu confermata anche da un amico che quella sera era con lui, Arthur Bradley. I due sospettati, nonostante protestassero con veemenza la loro innocenza, furono arrestati e processati. Il verdetto, emesso nel maggio del 1967 da una giuria interamente composta da bianchi, fu il carcere a vita, a dispetto dell’evidente mancanza di prove inconfutabili.
La scandalosa decisione della corte non fiaccò però la tenacia di Carter che decise da subito di lottare con tutte le sue forze e la sua dignità per ottenere giustizia. Il ragazzo, negli anni successivi, riuscì a coagulare attorno a sé una vasta solidarietà, tanto che nel 1975 Bob Dylan gli dedicò la sua notissima ballata Hurricane, mentre anche Joan Baez e Muhammad Ali sostennero pubblicamente la sua innocenza.
Poi, dopo otto anni, Alfred Bello ritrattò a sorpresa la sua testimonianza, ma la revisione del processo arrivò, grazie a una decisione della Corte Suprema, solo nel 1976, dopo la scoperta di nuove prove. Servì a poco: in tribunale Bello ripropose la prima versione e ciò spinse la giuria a confermare l’ergastolo ai due imputati.
Per Carter sembrava veramente finita, quando ricevette in carcere una lettera inviatagli da Lesra Martin, un ragazzo nero affidato a una famiglia canadese. Gli rispose e, tempo dopo, il ragazzo lo andò a trovare e gli fece conoscere i suoi tutori che si offrirono di aiutarlo a ottenere giustizia. Dopo un attento lavoro sulle carte processuali, i suoi nuovi amici rilevarono evidenti anomalie e forzature, tanto che nel 1985 la Corte Federale ordinò la liberazione di Carter e Artis in quanto “vittime di un processo non equo e basato su pregiudizi razziali”. Il ricorso della Procura non fu nemmeno preso in esame e un terzo processo non venne mai celebrato. Tutta la vicenda fu poi raccontata nel film Hurricane, Il grido dell’innocenza, protagonista Denzel Washington.
Il calvario di Carter era finito. I venti anni passati in carcere non avevano tuttavia intaccato la dignità e la grinta del pugile di Patterson a cui, nel 1993, fu consegnata la cintura di campione del mondo.
Una giusta riconoscenza per un uomo che fu messo alle corde – ma mai knock out – dal pregiudizio di un potere ottuso e razzista.
Marco Della Croce
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