Edmundo

Alvares De souza Neto, Edmundo

Edmundo Alves de Souza Neto

 

O’Animal non domato

La parola all’accusa, prego:

«Omicida colposo plurimo, distruttore di discoteche e locali notturni, agitatore e fomentatore di risse e scazzottate, che per lui erano come il caffellatte a colazione. Reo -non sempre confesso- di aver provocato polveroni e catastrofi su svariati campi di calcio. Demolitore di ristoranti, automobili e panchine pubbliche. Bigamo e assiduo frequentatore di prostitute, forte bevitore fin troppo facile all’ira e all’uso dei pugni (una volta picchiò tre guardie giurate)».

No, non siamo in un film di Perry Mason quando il pubblico ministero legge i capi d’imputazione del probabile-possibile colpevole.

Tant’è vero che il nostro imputato ha ben presente ambienti di questo tipo, come del resto ben conosce anche l’atmosfera di una fredda cella quattro per quattro. Il particolare non trascurabile è che stiamo comunque continuando a parlare di sport e di calcio, visto che all’apparenza sembrerebbe l’incipit di un articolo giallo-noir.

Alves de Souza Neto, meglio conosciuto come Edmundo, è stato un famosissimo calciatore, professione centravanti; non solo un avanzo di galera. Non è mai stato definito con termini eleganti, soprattutto perché in lui il violento aveva la meglio sul campione.

Due personalità in un solo uomo; una mistificazione forse fin troppo abusata, ma quanto mai appropriata in questo caso, almeno per definire il soggetto in questione. Nessuno tuttavia può metterne in discussione il talento. Edmundo, carioca doc, nato a Niterói il 2 aprile 1971, toccava il pallone con la grazia del fuoriclasse e la magia dei predestinati. Piedi da numero 10 e lo spunto del bomber vero, concreto e geniale nel sublimare il modo di andare in gol. Gli addetti ai lavori amavano raffigurarlo come una simbiosi fra Careca e Romario.

Un’infanzia difficile

Peccato solo che il destino, che tanto gli aveva dato, gli impose anche pesanti macigni e ingiustizie da sopportare fin da bambino. La violenza bussò alla sua porta troppo presto: il padre era alcolizzato e la madre subiva maltrattamenti fisici. La donna manifestò più volte la volontà di ribellarsi e tentò di fuggire con i bambini, ma tutto era inutile: seguivano botte, legnate, di nuovo minacce e tutto il solito contorno.

Costretto a subire queste e altre disavventure, Edmundo crebbe scontroso e facile all’ira. Quando, come novello calciatore, fu promosso alle giovanili del Vasco da Gama, non era certamente uno stinco di santo. Gol e guai viaggiarono sempre su binari paralleli. Segnò con continuità, trionfando in un campionato carioca col Vasco e vincendo due campionati nazionali col Palmeiras, la squadra che lo lanciò definitivamente; ma c’era sempre il lato B.

Prima e dopo, s’infuriava e sbraitava con tutti, nessuno escluso: avversari e compagni, direttori di gara, guardialinee. Una troupe di cameramen fu assalita con la stessa furia che si imputerebbe a un branco di lupi affamati: Edmundo ne distrusse tutte le apparecchiature. I raptus erano improvvisi e fatali, la sua natura seguiva un corso tortuoso ma paradossalmente regolare.

Dopo un derby carioca fu denunciato per gesti osceni da un’associazione femminile; dalla chiesa cattolica era considerato quasi un Anticristo. Il soprannome O’ Animal sbocciò e fu partorito in pochi minuti, calzante come mai, anche perché comprensibile in tutte le lingue del globo.

La fortuna in Italia

L’altra faccia della medaglia, però, era e resterà un patrimonio tecnico che, nonostante tutto, ha incantato ed emozionato gli esteti. In Italia Edmundo ha vestito le maglie di Fiorentina (dal 1997 al 1999) e Napoli (2001): due club forse non abituati a vincere ma pieni di fascino e con tifoserie passionali come lui. Ingaggiare O’Animal era come una scommessa al casinò; ma il rischio per una volta valeva la candela.

Forse qualcuno storcerà il naso, ma bisogna ammettere che grazie alle magie di Edmundo i tifosi della Fiorentina poterono sognare in grande per qualche mese. Non molto, ma per qualche mese sì.

Edmundo con la maglia della Fiorentina

Edmundo con la maglia della Fiorentina

 

Con i viola, infatti, il bisbetico carioca fornì numeri e giocate geniali per un buon lasso di tempo, senza inciampare (quasi) mai nei nefasti meandri dalla sua psiche ribelle. Merito degli allenatori? Forse. Magari non tanto Malesani, che Edmundo mandò al diavolo dopo qualche discussione al vetriolo. Quando nel 1998 arrivò Trapattoni, saggio ed esperto come pochi, le acque agitate si placarono anche per O’Animal. La stagione partì col vento in poppa: la Fiorentina fu capace di esprimere compattezza, un gioco fluido, dinamico, vincente e conquistò con merito il primo posto in classifica.

Gregari e stelle si amalgamarono a meraviglia: Rui Costa e Batistuta erano imprendibili per le difese avversarie ed Edmundo parlava la loro stessa lingua. Assist, gol, dribbling e progressioni funamboliche gli regalarono l’affetto dei tifosi e un numero sempre maggiore di estimatori. A Firenze fra lui e l’ambiente scoppiò il fuoco dell’amore ma, come accade per tutte le grandi passioni, qualcuno doveva rimanerne scottato.

Il Trap aveva confezionato un vero e proprio miracolo con Edmundo, ma l’approssimarsi del famigerato carnevale di Rio spezzò le redini anche al tecnico di Cusano Milanino. Per i brasiliani è molto più di una festa: è un’orgia e un mix di balli, canti, colori, ragazze e vestiti impossibili da rinunciare. Due settimane di gloria e baldoria, il Paradiso degli eccessi!

Edmundo O’Animal e il suo fedele procuratore sbandierarono una clausola firmata a settembre anche dai dirigenti viola, in cui era scritto a chiare lettere che l’aitante ragazzotto (nonché ballerino) aveva il permesso di tornare a casa proprio per il Carnevale. Il quasi contemporaneo infortunio muscolare di Batistuta fu l’altro incredibile scherzo del destino, con Trapattoni che diventò pallido come un lenzuolo. In molti provarono a mediare per convincere Edmundo a restare a Firenze per l’emergenza del reparto offensivo, ma era una richiesta impossibile: O’Animal era già sull’aereo a pregustare la “sua” festa.

La Fiorentina si decompose prima dal punto di vista psicologico e poi su quello tecnico, perdendo un paio di gare decisive. Quando Edmundo tornò (con qualche chilo in eccesso) la pozione magica aveva ormai esaurito il suo effetto. In più, l’ambiente gigliato si spaccò in mille pezzettini impossibili da ricomporre, fra compagni delusi e tifosi traditi da tanta superficialità e strafottenza.

Un tragico epilogo

La Fiorentina chiuse nel peggiore dei modi il campionato, classificandosi addirittura terza dietro Milan e Lazio. O’Animal tolse il disturbo col solito sguardo da duro: in totale con la Fiorentina il carioca marcò 42 presenze con 20 gol. Appariva ormai chiaro che Edmundo, nonostante le virtù tecniche che molti gli riconoscevano, non era tagliato per il calcio italiano o per quel professionismo che si pretende nei campionati.

I suoi comportamenti erano un freno, un muro fin troppo massiccio da superare per cullare sogni di gloria: tornò a giocare nel campionato brasiliano dove bighellonò in club di prima fascia come Flamengo, Fluminense, Cruzeiro e Santos per poi ritornare ai primi amori: Vasco e Palmeiras. Emigrò in Giappone «solo per soldi», come dichiarò senza peli sulla lingua, ma in quel campionato mediocre si divertì regalando sprazzi d’alta classe.

Senza dimenticare la seconda escursione italiana, col Napoli del duo Ferlaino-Corbelli, dove trovò dirigenti dotati di un elevatissimo tasso di autolesionismo. Al San Paolo, dove il suo amico Maradona aveva tanto incantato e vinto, Edmundo esplose spesso in risse coi compagni di squadra: prese a calci il portiere Mondini e devastò mezzo spogliatoio dopo un ritardo. Sempre in quell’occasione ebbe più di un alterco con l’allenatore Mondonico, che inutilmente provava a scuoterlo.

Edmundo in campo

Edmundo in campo

 

Collezionò 4 gol in 17 partite; ma era una farsa già in partenza e quindi O’Animal non può definirsi l’unico responsabile. Tutta l’esistenza di Edmundo, e non solo la carriera di calciatore, è stata una catena di errori e sbagli talmente evidenti che persino lui, ora che si arrangia come commentatore televisivo, si autoaccusa dei suoi fallimenti.

Se tornare indietro è impossibile, forse pensare troppo al passato è ancora più dannoso. Però Edmundo ogni tanto ci ricasca e quasi vorrebbe parlare a quel ragazzino ribelle che correva dietro a un pallone, con troppa rabbia e dolore nel cuore, per avere l’opportunità di dirgli: «Perdonami solo di non aver mai capito quanto volevo bene al calcio…»

Lucio Iaccarino
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