Storia 8 – Gli Athla in Italia

Tomba delle Olimpiadi-discobolo

Tomba delle Olimpiadi: discobolo

 

Arrivo e diffusione

È dunque attorno al 540 a.C. che l’incontro con la civiltà greca inizia a modificare, almeno sul piano pratico, il rapporto tra gli Etruschi e l’agonismo. È l’epoca in cui nella penisola giungono finalmente gli athla, le competizioni alla greca. L’epoca che Erodoto indica per la nascita dei giochi funebri nell’Italia dei secoli più antichi.

Con l’arrivo degli athla, il numero delle discipline più diffuse aumenta di molto. Sono così attestati ad esempio il lancio del disco (Tomba delle Olimpiadi, del 510 a.C; Tomba delle Bighe, del 490 a.C.;  Tomba  del Guerriero, del secondo quarto del IV Sec. a.C.; alcune splendide raffigurazioni in bronzo del V Secolo a.C a Marzabotto. Sono inoltre stati ritrovati quattro dischi da lancio); il lancio del giavellotto (Tomba della Scimmia, a Chiusi, del 480 a.C; Tomba 1999 a Tarquinia, del 510-500 a.C.); e il salto in lungo (Tomba delle Olimpiadi e Tomba di Poggio al Moro, del 475 a.C.).  Vari reperti archeologici dimostrano inoltre l’introduzione nella stessa epoca di attrezzi legati al mondo dell’atletica greca, come lo strigile (un utensile in ferro con il quale l’atleta si detergeva o si frizionava con olio) e la borsa per la sabbia, utilizzata per migliorare la presa sul disco.

Tomba della Scimmia-lanciatore di giavellotto

Tomba della Scimmia: lanciatore di giavellotto

 

Grazie ad alcuni rilievi funebri, come quello di Chiusi; ad una piccola serie di splendidi vasi dipinti; e soprattutto ai meravigliosi affreschi che a partire da questo periodo appaiono con sempre maggior frequenza sulle pareti delle tombe, siamo poi in grado di formulare un’idea piuttosto precisa degli aspetti ideologici e sociali connessi all’innovazione.

Per avere un termine di raffronto, compiamo a questo punto un breve excursus letterario e riandiamo a un famosissimo esempio di lusus funebre, quello fornito da Virgilio nell’Eneide. Senza voler approfondire l’argomento (estremamente interessante, ma la cui trattazione necessiterebbe di uno spazio troppo ampio), è opportuno rilevare che le gare indette in onore del morto Anchise sono cinque: la regata, la corsa, il pugilato, la gara dell’arco, il carosello equestre.

Di queste, la regata e il tiro con l’arco non sono attestate in ambito etrusco, che viceversa contempla, in forme diverse, le altre tre discipline, anche se sembra che non sempre venissero eseguite al completo.

È stato ipotizzato che il segmento agonistico occupasse la prima parte delle onoranze funebri, affidando ad una fase successiva le esibizioni di acrobati, le danze, i canti, le rappresentazioni teatrali e i giochi prettamente popolari come il tiro alla fune. Secondo questi studi, le attività agonistiche sembrerebbero aver avuto in origine una preponderante valenza di tipo iniziatico, di addestramento ai valori etici e civici. Un’introduzione insomma all’areté in senso greco, che apriva le porte all’ammissione alla società adulta. Praticare le discipline durante i giochi funebri avrebbe quindi presupposto un altissimo valore simbolico, di continuazione e perpetuazione dei principi fondanti della società; ed evocativo, con la partecipazione diretta della giovane discendenza del defunto.

È invece pienamente accertata la condizione libera e spesso nobiliare dei partecipanti ad alcune delle gare effettuate per solito in questa prima epoca dopo l’introduzione degli athla. Nella Tomba dei Lottatori a Tarquinia, databile circa al 520 a.C., sono riportati i nomi di atleti quali lottatori, fantini e pugili, con i relativi gentilizi, cosa che presuppone l’appartenenza ad una gens. Viene così a confermarsi con evidenze archeologiche quanto affermato da Plutarco nella Vita di Publicola sulla nascita illustre dell’auriga tirreno Ratumenna.

Cimasa di candelabro in bronzo raffigurante un discobolo - Marzabotto V sec ac

Cimasa bronzea di candelabro raffigurante  un discobolo (Marzabotto – V sec a.C.)

 

Di eccezionale portata infine la riprova fornita dal corredo funebre ritrovato nella Tomba dell’Orto Galieti di Lanuvio (metà del V Secolo a.C.), dove, accanto alle armi del cavaliere sepolto, figurano due strigili, una borsa per la sabbia e un disco da competizione.

In definitiva, da quanto esposto, appare chiaro che la trasformazione in lusus e il sorgere di un professionismo praticato da individui di censo non elevato, di cui abbiamo trattato in precedenza, appartengono ad un’epoca successiva, sia pure verosimilmente non di molto. In ogni caso, talune discipline, come quella dei giochi equestri, rimasero sempre appannaggio delle classi più nobili.

Una trattazione a parte merita poi la localizzazione delle prove agonistiche.

Risulta in proposito piuttosto rara  tra i Tirreni l’esistenza di luoghi permanenti deputati alla disputa di gare. La forma più diffusa è infatti legata all’uso di semplici spazi aperti, grandi a sufficienza da garantire la regolare effettuazione delle varie prove. È però con frequenza attestata la costruzione di semplici palchi lignei, bassi e sostenuti da cavalletti, ai piedi dei quali, su appositi sgabelli, trovavano posto anche gli arbitri.

Decisamente più complesso il caso della già ricordata Tomba delle Bighe (490 a.C,). In essa appaiono affrescate due tribune che sembrano convergere per creare al loro interno uno spazio in cui hanno luogo alcuni eventi atletici, mentre in posizione decentrata sono relegate gare che per loro natura richiedono più spazio, quali lanci e gare equestri. La struttura delle tribune era costituita da pali piuttosto robusti, piantati ad intervalli di un paio di metri. Su di questi, posto ad un’altezza di circa un metro e mezzo da terra, poggiava un piano orizzontale destinato agli spettatori, protetti inoltre da una tenda alloggiata sulla parte finale dei pali di sostegno. Sotto il piano, meno comodamente, ma comunque riparati dal sole, potevano radunarsi gli spettatori di rango inferiore e gli schiavi, come risulta chiaramente dagli splendidi affreschi.

Quanto alle strutture permanenti, comunque di dimensioni limitate, sono da segnalare alcuni casi, il più noto dei quali è quello della Tomba della Cuccumella (VI Secolo a.C.), a Vulci. Nel grande tumulo, avente un diametro di sessantacinque metri, scavi condotti nel 1928-29 portarono alla luce un ampio corridoio che «… si inoltra scendendo verso il centro del tumulo e conduce in un grande ambiente rettangolare. Questo presenta gradinate tutt’intorno con due scale a sette gradini che salgono verso la base del tumulo e con due camerette sui lati…». Si è ipotizzato che il rettangolo fosse scoperto e delimitato da mura, che forse si elevavano oltre il monte di terra del tumulo. In pratica, un luogo in cui si svolgevano i riti funebri prima dell’inumazione dei cadaveri, ed in cui le camerette costituivano vere e proprie camere sepolcrali. Va comunque detto per completezza che alcuni ritengono la tomba solo il monumento onorario di una potente famiglia etrusca, cosa che non ne avrebbe comunque impedito l’uso a fini di spettacolo.

bronzetto di lanciatore  425 ac da Marzabotto  Museo Archeologico Firenze

bronzetto di lanciatore (Marzabotto – 425 aC)

 

Le altre possibili aree ad uso agonistico identificate dagli archeologi sono solo due: quella rettangolare e delimitata da gradinate che circonda un altare di circa 6 metri di diametro, scavato nella roccia a Grotta Porcina (prima metà del VI Secolo a.C.); e uno spiazzo rettangolare all’esterno della Tomba Cima a San Giuliano (seconda metà del VII Secolo a.C.).

Poche strutture, come si vede, ma comunque molto antecedenti cronologicamente alle più antiche fra le strutture fisse create a Roma.

Le prime manifestazioni chiaramente ispirate a modelli greci giunsero infatti a Roma con notevole ritardo rispetto alla limitrofa Etruria, e vennero svolte in strutture precarie, a causa di una preconcetta ostilità delle classi conservatrici che produsse per secoli i suoi effetti.

Dalla parte più retriva della nobiltà capitolina l’influenza ellenica veniva infatti considerata nefasta e corruttrice, e causa prima della degenerazione dei costumi patri. Lo stato di subalternità politica e militare cui era ridotta l’Ellade dei secoli posteriori alla conquista macedone sembrava dimostrare l’assioma che il primato artistico e agonistico non solo non compensava la perdita di capacità militare e difensiva, ma ne era, in una certa misura, responsabile.

Qualche decennio dopo, il nucleo conservatore dell’oligarchia romana che si raccoglieva attorno a Catone il Censore temeva in maniera quasi ossessiva il nascere e lo svilupparsi di propensioni filo-elleniche in seno agli elementi più illuminati del patriziato romano. I componenti della fazione tradizionalista guardavano in particolare con enorme preoccupazione la nuova tendenza travalicare rapidamente l’importante, ma in definitiva circoscritto ambito dirigenziale, ed il suo inevitabile estendersi (a loro modo di vedere con effetti forse anche maggiormente profondi e pericolosi) al ben più ampio livello etico-culturale, ivi compreso l’aspetto legato all’agonismo.

L’esistenza nell’Urbe di una più aperta e progressiva fazione ellenizzante, sia pure spesso minoritaria, finì comunque per aver ragione delle resistenze conservatrici. Un processo che non fu però lineare e necessitò di un periodo molto lungo.

Attorno al 217 a.C. fu un Aulo Postumio, della stirpe del vincitore del Lago Regillo, a offrire per primo un agone alla greca nell’Urbe. Dionigi di Alicarnasso descrive la processione che, al seguito dei magistrati, si snodò dal Capitolio attraverso il Foro sino all’ippodromo, nella valle del Circo Massimo. Dietro agli aurighi, secondo l’autore, venivano appunto gli atleti, sia quelli delle discipline pesanti, sia quelli dei concorsi non cruenti. Il racconto si conclude con la notazione che tutte le celebrazioni avvennero in uno stesso giorno.

Dovette poi trascorrere un trentennio. Solo nel 186 a. C., Marco Fulvio Nobiliore, personaggio molto noto tra gli ambienti più colti dell’Urbe, riuscì ad organizzare, in occasione del suo trionfo, i giochi da lui solennemente promessi quando, tre anni prima aveva assunto in qualità di console il comando della Guerra Etolica. I giochi, organizzati con una magnificenza mai vista in precedenza, durarono dieci giorni. Alle gare, precedute da esibizioni e spettacoli di vario genere, come danze, rappresentazioni teatrali e recite musicali, parteciparono atleti convocati appositamente dalla Grecia e forse persino alcuni romani.

Quasi venti anni dopo, nel 167 a.C., fu il  vincitore della battaglia di Pidna, Lucio Emilio Paolo, a festeggiare il suo trionfo sul re Perseo di Macedonia con dei grandi giochi, per disputare i quali fece arrivare a Roma da ogni parte del dominio della Repubblica atleti e aurighi.

Il Trionfo di Lucio Emilio Paolo, Vernet 1789

Il Trionfo di Lucio Emilio Paolo (Vernet, 1789)

 

Sappiamo poi da Tacito che nel 146 a.C. Lucio Mummio Acaico, in occasione della  sua vittoria sulla Lega achea (dopo una breve guerra durante la quale aveva operato un disastroso saccheggio di opere d’arte in Corinto rasa al suolo), indisse un festeggiamento a carattere greco. Dall’accenno di Tacito, il cui tono è per altro di velata disapprovazione, si può però solo evincere il programma proposto da Mummio non era mai stato presentato prima a Roma, ma nulla è detto riguardo ad un’eventuale parte agonistica. La presenza di gare atletiche si può perciò unicamente ipotizzare.

Né più notizie possediamo in merito ai giochi offerti da Caio Mario nel 101 a.C., all’epoca del suo secondo trionfo e della dedicazione di un tempio. Plutarco, dopo aver criticato la mancanza di cultura del generale e il disprezzo per la lingua greca da lui ostentato,  riferisce unicamente di θέαι Ἑλληνικαί, senza ulteriori specifiche, a parte un ulteriore aspro commento nei confronti di Mario, accusato di rozzezza e villania per non aver presenziato se non per qualche istante ad una delle rappresentazioni teatrali.

La certezza di nuove gare di tipo greco nell’Urbe si ha quindi solo otto decenni dopo i giochi di Lucio Emilio Paolo, con l’episodio riguardante Lucio Cornelio Silla e le Olimpie disputate con un programma estremamente ridotto dell’80 a.C, di cui abbiamo già accennato in una precedente puntata. Silla, forse già conscio della sua prossima abdicazione, volle rendere i Ludi Victoriae Sullanae, da lui istituiti solennemente l’anno precedente, l’evento agonistico più importante dell’Impero e, con una decisione senza precedenti, convocò nell’Urbe gli atleti più famosi di Grecia.

Come tramandato da Appiano e da Sesto Giulio Africano, il dittatore impedì in questo modo il regolare svolgimento di gran parte dei Giochi della CLXXV Olimpia, che proprio in quell’anno dovevano essere celebrati. È però verosimilmente sbagliata l’interpretazione, a lungo diffusa, che intendesse trasferire per sempre i Giochi a Roma. È molto più credibile che sia stata la vicinanza tra i due eventi a causare la defezione degli atleti greci dalle gare di Olympia. O, ancor  più probabilmente, che sia stata precisa volontà di Silla impedire, per quell’anno, lo svolgersi di manifestazioni che potessero dare ombra o addirittura superare per importanza i Ludi.

Comunque siano andate le cose, la sola presenza nell’Urbe di concorrenti tanto importanti implica per noi moderni la pratica certezza che almeno durante i giochi sillani fossero accettate e condivise le regole da sempre in vigore per i giochi panellenici, cosa non dimostrabile per le occasioni citate in precedenza. I Ludi Sillani si strutturarono dunque, per volere del dittatore, in  una celebrazione di tipo nuovo ed originale, nei sette giorni della quale (dal 26 ottobre al 1° di novembre) le gare atletiche assunsero dignità  almeno pari ai munera gladiatori, alle venationes (nelle quali per inciso apparvero per la prima volta i leoni) e alle corse dei carri.

Le fortune degli agoni greci non mantennero però dopo la morte di Silla particolari benefici. La loro organizzazione, pur facendosi nettamente più frequente, continuò ad rivestire carattere episodico, confermando la grande difficoltà di introdurre  nell’Urbe le costumanze agonistiche greche.

Danilo Francescano
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