Storia 10 – L’agonismo nell’Italia del I Secolo

Ricostruzione dello Stadio di Domiziano

Ricostruzione dello Stadio di Domiziano

 

Sebastà e Capitolia

L’immediato successore di Augusto, Tiberio, mantenne durante tutto il suo regno, improntato all’austerità e al contenimento della spesa, un’oculata gestione degli spettacoli di massa in generale. Pur avendo trionfato nella corsa dei cocchi della CXCIV Olimpia del 4 a.C. (ovviamente in quanto proprietario dei cavalli vincenti), Tiberio non manifestò mai un particolare interesse per l’agonismo. Il suo regno è piuttosto ricordato, a questo riguardo, per un’immane disgrazia avvenuta a Fidene, nel 27, dove l’anfiteatro crollò durante i munera gladiatorii, causando la morte di oltre ventimila spettatori.

Il principato di  Caligola  fu troppo breve per poter essere considerato significativo. Sono tuttavia notevoli l’interesse che l’imperatore dimostrò per i giochi circensi (limitatamente ai munera e alle corse dei cavalli)  e la costruzione di un suo circo privato (poi restaurato e abbellito da Nerone)  nel sito dove ora sorge Piazza San Pietro. Di questo principe, da sempre considerato, forse a torto, l’archetipo del mostro, si può anche ricordare la poco nota celebrazione a Siracusa dei giochi detti Astici, sulla cui natura resta però un margine di incertezza tra agones alla greca e combattimento gladiatorio.

L'Imperatore Claudio (41-54) prese parte ai Sebastà

L’Imperatore Claudio (41-54) prese parte ai Sebastà

 

A partire dal regno successivo, quello di Claudio, i Sebastà attrassero l’interesse dei principi. Claudio, nel 42, agli inizi cioè del suo principato, non solo presenziò alle celebrazioni, ma addirittura prese parte attiva alla gara destinata ai letterati, proponendo una commedia scritta dal suo defunto fratello Germanico, cui i giudici attribuirono naturalmente la vittoria. La partecipazione del principe ai Sebastà dovette impressionare non poco l’immaginazione dei contemporanei: l’impatto fu tale che venne istituita tra i giovani una categoria per fascia d’età a sé stante, i paides Klaudianoi.

Il successore di Claudio, Nerone, fu a sua volta coinvolto nelle celebrazioni almeno in due distinti momenti durante il suo regno. Del resto, questo imperatore occupa un posto di particolare importanza per la diffusione dell’atletismo in Roma, come si è già visto nell’approfondimento che Storie di Sport gli ha dedicato.

Tralasciando il famoso viaggio in Grecia e la partecipazione di Nerone ai Giochi Sacri ellenici, una citazione anche in questa sede merita sicuramente l’istituzione nel 60 dei Neronia. L’appuntamento sportivo e artistico, cui fece riscontro un netto calo nell’indizione degli spettacoli gladiatorii, pare rientrare in un più vasto programma neroniano di assimilazione della cultura romana a quella greca. Su queste basi, la tentata introduzione del modello olimpico a Roma andrebbe quindi ricondotta al conferimento di una più ampia visibilità al progetto, oltre che al personale gusto dell’imperatore.

La prima edizione dei Neronia, con cui Nerone diede forma organica e cadenza codificata a quelle che sino ad allora erano state gare estemporanee o legate a particolari celebrazioni, creò tuttavia una lunga serie di polemiche. Alle accese discussioni in merito contribuì certamente la decisione del principe di uniformarsi del tutto al modello greco, facendo vestire ai concorrenti abiti di foggia ellenica o, nel caso dell’atletica, facendoli gareggiare nudi.

L’evento sportivo e artistico fu poi ripetuto nel 65, con una concessione alla tradizionale periodizzazione romana in lustra, anziché in quadrienni come nell’uso olimpico, e Nerone ritenne la circostanza tanto importante da celebrarla attraverso la coniazione di monete.

Per riprendere e concludere il discorso sui Sebastà, Tito, secondo principe della Casa Flavia, subentrata ai Giulio-Claudi dopo le terribili lotte per il potere del 68-69, pare abbia presieduto i Giochi napoletani due o forse tre volte, nel 70, 74 e nel 78, ancora cioè durante il regno del padre Vespasiano.

Il principato di Tito fu breve e funestato dall’epocale eruzione del Vesuvio della tarda estate del 79, che segnò l’inizio della crisi della prosperità campana. I Sebastà risentirono indubbiamente di questo dato di fatto. Verosimilmente, erano stati l’attenzione dei sovrani durante il primo ottantennio del I Secolo, e la relativa vicinanza al centro politico dell’Impero, a permettere ai Sebastà il raggiungimento di un’importanza enorme a livello di fama e partecipazione degli atleti. La preminente posizione economica detenuta dalla città partenopea (e dalla Campania in generale) durante il principato di Augusto e dei primi successori aveva garantito poi un adeguato supporto finanziario ai giochi.  Per più di tre quarti del I secolo, i Sebastà avevano mantenuto insomma il ruolo di più importanti agones delle province occidentali.

L'eruzione del Vesuvio del 79 iniziò il declino della Campania Felix

Con l’eruzione del Vesuvio del 79 iniziò il declino della Campania Felix

 

La parziale perdita di importanza a livello istituzionale dei Sebastà parrebbe a rigor di logica essere iniziata appunto a seguito dell’eruzione, e con la contemporanea istituzione da parte di Domiziano, fratello e successore di Tito, dei Capitolia romani, ossia di giochi analoghi nella stessa Roma. La conferma a questa supposizione potrebbe arrivare proprio dai ritrovamenti in corso a Napoli, sui quali ci siamo soffermati nella puntata precedente e la cui portata deve essere ancora valutata appieno.

Resta il fatto che ancora Adriano e Marco Aurelio, molti decenni dopo, assistettero personalmente alle celebrazioni, segno sicuro che i giochi partenopei godevano ancora di grande prestigio ai più alti livelli.

Il Certamen Capitolino Iovi, che Domiziano introdusse nell’anno 86, fu strutturato per volere del principe sul modello olimpico e a cadenza quinquennale, con gare musicali, equestri e ginniche, con un programma non dissimile da quello dei Neronia. A differenza di quest’ultimi, che Nerone aveva voluto intitolare alla sua persona, i Giochi furono però più accortamente dedicati alla massima divinità del Pantheon romano, Giove Capitolino, in conformità con le Olimpie sacre a Zeus Olimpio.

I premi previsti da Domiziano per i vincitori erano senza dubbio adeguati all’importanza dell’istituzione. Tra le altre cose, oltre alla simbolica corona di quercia, una vittoria nel Certamen comportava la concessione della cittadinanza romana. La circostanza spiega la forte attrattiva che i Giochi mantennero sino all’epoca dei Severi sugli atleti di tutto l’Impero, e supporta ulteriormente l’ingresso a pieno titolo dei Capitolia nella Nea Periodos.

Lo Stadio di Domiziano raffigurato in un Aureo di Settimio Severo

 

Le gare atletiche, che i Romani comunque indicarono sempre con il termine greco ἀγώυεζ (agones), si protrassero poi sino al IV Secolo, nonostante subito dopo la morte dell’ultimo principe della dinastia Flavia il Senato ne avesse decretato la damnatio memoriae. Contrariamente a quanto avvenuto dopo il suicidio di Nerone, l’aspetto religioso degli agoni prevalse infatti sulla volontà di annullare tutti gli atti dell’inviso Domiziano. Una decisione che con tutta evidenza non facile, e probabilmente presa per effetto della popolarità conquistata dai Giochi, perché il Senato non doveva ignorare quanto peso l’imperatore avesse annesso alla loro celebrazione nel suo disegno assolutistico.

L’intenzione da parte di Domiziano di esaltare l’aspetto sacrale del suo ruolo ed attirarsi la benevolenza del popolo in opposizione all’ostilità del ceto conservatore, risultava infatti evidente già ai contemporanei. Suetonio riporta ad esempio che l’Imperatore in persona, vestito alla greca, presiedette in qualità di agonoteta all’inaugurazione del nuovo stadio da lui voluto, avvenuta con i Giochi dell’anno seguente.

L’abbigliamento di Domiziano era significativamente ispirato a modelli ellenistici: l’uso della porpora riportava direttamente alla tradizione dei monarchi orientali, e la corona aurea con le immagini della Triade Capitolina manifestava la sottolineatura sia del potere sovrano del principe, sia l’intima connessione che questi intendeva avvalorare tra la sua persona e le deità più importanti dell’Impero. Lo stesso presentarsi circondato dal sacerdote di Giove e dal collegio dei Flaviani, anch’essi vestiti di porpora e con corone recanti l’effige imperiale, esprimeva un avanzato culto della personalità e prefigurava l’abbozzo di una corte di stampo prettamente orientale.

I Capitolia mantennero per molto tempo un prestigio assoluto in tutto l’Impero, attirandosi come prevedibile le ire dei ceti più conservatori ed antiellenici.

Fu verosimilmente soprattutto alle gare del Certamen Capitolino che intese ad esempio riferirsi  Plinio il Giovane (61/62?-114) nelle Epistole: la conferma che l’avversione verso l’agonismo era un dato frequente ancora tra le classi dirigenti dell’epoca Antonina.

 L’episodio che viene riferito è infatti particolarmente significativo al riguardo. Narra Plinio che nei primi anni del II Secolo, in esecuzione ad un volere testamentario, doveva svolgersi a Vienna (l’attuale Vienne), capitale della Gallia Narbonense, uno spettacolo di gare atletiche. Trebonio Ruffino, duumviro della città e amico personale dello scrittore, ne proibì la celebrazione. Fu contestato che avesse il potere di farlo, e gli fu intentato un processo. Durante la votazione finale prese la parola il senatore Iunio Maurico, a sua volta amico di Plinio, sostenendo che “non si dovevano autorizzare di nuovo le gare ai viennesi” aggiunse “vorrei che si potessero abolire anche a Roma”. Il fermo intervento provocò la conferma del divieto, e, conclude Plinio, furono così definitivamente “aboliti gli agoni ginnici che avevano corrotto i costumi degli abitanti di Vienne, come il nostro di tutti. Infatti i vizi dei Viennesi restano tra di loro, i nostri si espandono largamente, cosi che nelle persone come nell’Impero c’è un morbo gravissimo, che si diffonde dalla testa.

 Il giudizio pesantemente negativo sulle gare è poi confermato in altre parti della sua opera, dove l’autore afferma con decisione che un uomo che sia degno di rispetto e voglia conformarsi all’antica virtù “non desidera i ginnasi e i portici”. 

Per conferire ulteriore grandiosità dell’intero progetto dei Capitolia, Domiziano provvide alla   costruzione di un imponente struttura architettonica, la prima di questo genere destinata al pubblico mai apparsa nell’Urbe.

Lo stadio, caratterizzato dall’assenza dei carceres, della spina e dell’obelisco tipici degli edifici destinati alle corse dei carri come il Circo Massimo, divenne noto come Circus Agonalis Domitiani. Lungo 265 metri e largo 106, fu edificato attorno all’86 sempre nel Campo Marzio, sul sito dell’attuale Piazza Navona, che ne conserva le forme. La località, riferisce da Tito Livio, era sin dalla nascita della Repubblica consacrata a Marte e quindi agli esercizi militari e fisici.

Piazza Navona rispetta esattamente la forma dello Stadio di Domiziano

Piazza Navona rispetta esattamente la forma dello Stadio di Domiziano

 

Privato con la damnatio memoriae di ogni riferimento alla figura del suo costruttore, lo stadio rimase tuttavia in uso per secoli. Al tempo di Settimio Severo, esso era ancora utilizzato con continuità, come testimonia il rovescio di un aureo coniato dopo il 202, che ritrae l’imperatore durante una premiazione e mentre alcuni atleti gareggiano.     

Nel 217 Macrino, a seguito di un incendio che aveva devastato l’Anfiteatro Flavio rendendolo temporaneamente inagibile, provvide a lavori di ripristino per ospitarvi spettacoli gladiatorii. Finalmente, nel 228 Alessandro Severo operò un radicale restauro: recuperato al primitivo splendore, l’edificio prese il nome di Circus Alexandri, e rimase in uso almeno sino al 356, quando fu visitato dall’imperatore Costanzo di passaggio a Roma.

Danilo Francescano
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