Federico Buffa racconta

Federico Buffa

Federico Buffa

 

“Le Olimpiadi del 1936″ vanno in scena

Dal 25 al 27 settembre, al Teatro Quirino di Roma, Federico Buffa ha portato sul glorioso palcoscenico dedicato a Vittorio Gassman, il suo spettacolo “Le Olimpiadi del 1936” in cui interpreta Wolfgang Fürstner, il direttore del villaggio olimpico berlinese. Buffa, da straordinario narratore qual è, prima in radio e poi in televisione, è riuscito a portare il racconto sportivo anche a teatro. La sua inconfondibile capacità mimetica e comunicativa non è sfuggita ai registi Emilio Russo e Caterina Spadaro che hanno visto in lui un potenziale attore di teatro, nel corso delle trasmissioni “Storie Mondiali” e “Federico Buffa racconta” andate in onda su Sky.

Era il sogno della sua vita recitare a teatro, ci confessa prima dell’inizio dell’intervista. Quasi non ci credeva quando gli hanno detto che avrebbe potuto realizzarlo sul palcoscenico precedentemente calcato da grandi attori come Vittorio Gassman.

Prima di cominciare con le domande, un regalo: chi scrive ha voluto omaggiarlo con l’articolo originale, pubblicato sul “New York Times” nell’agosto del 1936, sul suicidio di Fürstner che i nazisti tentarono di coprire in tutti i modi.

Qual è la differenza nel raccontare lo sport e la storia tra Radio, Televisione e teatro?

«C’è una differenza abissale. Ad esempio la sera della prima, al teatro Quirino, ho avuto un vistoso calo fisico durante il primo atto. Ad un certo punto mi sono sentito come un pugile suonato che non riusciva ad arrivare alla fine del round. Dunque sono stato costretto a tagliare alcune battute del copione perché altrimenti non ce l’avrei fatta a finire lo spettacolo. Ma se il teatro ti costringe a spendere più energie psicofisiche, alla fine il palcoscenico ti ripaga con il triplo della soddisfazione».

Lei ha un buon seguito di appassionati in televisione e anche sul web. È diverso il pubblico che la segue in teatro?

«In teatro manca il filtro dello schermo. Ad esempio quando racconto la storia di Jesse Owens io sono proprio lì ad un metro dalla prima fila. E questo cambia tantissimo, perché il pubblico ha un respiro diverso se tu gli vai addosso, se tu lo aggredisci. Il teatro è un’energia che passa dal pubblico all’attore. Paradossalmente noi siamo “costretti” a cambiare spettacolo ogni sera, in base al pubblico che ci troviamo di fronte. Ci è capitato una sera, a Milano, di avere un pubblico teatrale. Il pubblico teatrale è un tipo diverso di pubblico, reagisce diversamente. A volte invece ci capita di avere un pubblico più giovanile. Noi viviamo in un Paese dove a scuola non si studia la Seconda Guerra mondiale. Magari gli studenti conoscono a memoria i nomi di tutti i re etruschi, ma non sanno cosa è successo nel 1945. Eppure questa è la storia che influenza ciò che succede adesso. In tal senso m’interessa molto di più parlare del rapporto tra Leni Riefenstahl e Goebbels, perché è lui la vera testa pensante di tutto questo. Un vero e proprio genio del male».

Perché la scelta di raccontare oggi le Olimpiadi del 1936?

«Per trasmettere la vera forza del racconto dell’Olimpiade del 1936, e di quel particolare momento storico, ho dovuto inizialmente scegliere cosa raccontare perché era un oceano indiano di storie. Ho così tralasciato alcuni splendidi racconti sportivi, come quello di Ondina Valla, Louis Zamperini, e degli atleti che si fecero passare per donne. Ho preferito spostare l’attenzione su i due principali protagonisti dell’Olimpiade dal punto di vista dell’impatto sportivo e mediatico. Il primo è naturalmente Jesse Owens che vince quattro medaglie d’oro – record già raggiunto nel 1900 ma in altre circostanze -, batte due primati del mondo, ne batterebbe un terzo ma non glielo omologano per vento a favore e record olimpico di salto in lungo. Una performance mostruosa. Il secondo è Son Kitei, il vincitore della maratona, o meglio dovrei dire Son Kee-Chung, perché questo era il suo vero nome in coreano. All’epoca vincere la maratona significava vincere le Olimpiadi. E questi due personaggi, i due che vincono più di tutti, sono membri di due società e razze oppresse, quindi non corrono solo per la loro gloria sportiva, ma corrono per il resto dell’umanità. È questa la modernità dell’Olimpiade del 1936. Oggi si hanno ancora di questi problemi, magari non per gli afroamericani o – solo in parte – per i coreani, però ci sono ancora ad ottant’anni di distanza. Quindi loro vincono in maniera straordinaria, tracotante addirittura, praticamente costringono il mondo a guardare la loro situazione. Molta gente, infatti, non sa che lui è veramente coreano. E altri negli Stati Uniti fanno fatica a vedere un “nero” che vince le medaglie d’oro. Anche perché all’epoca non c’era solo il nazismo. C’era il problema sul fronte del Pacifico, le dittature in Europa, il boicottaggio statunitense. È l’affresco di quel momento storico. L’importanza di questa gente è molto superiore al fatto che pure sono stati straordinari».

Francesco Gallo con la collaborazione di Diego Privitera © Riproduzione Riservata

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