Hertzko Haft

Hertzko Haft

Hertzko Haft

 

Dal ring ad Auschwitz

Ottobre 1939. Belchatow, Polonia. È da poco cominciata la Seconda Guerra mondiale, e la Luftwaffe, l’aviazione tedesca, già da un mese bombarda il territorio polacco. I cittadini di religione ebraica vengono rinchiusi in un ghetto. Qualcuno, però, proprio come sta accadendo a Varsavia, prova a ribellarsi. Tra questi c’è un giovane ragazzo coraggioso di nome Hertzko che, durante un’ispezione, ha colpito con un pugno un soldato tedesco. Immediatamente arrestato, viene deportato nel campo di lavoro a Poznan, a circa 250 chilometri più a nord, nella Polonia Occidentale, dove scorre il fiume Warta. È il numero 144738.

Passano due lunghi anni di sopravvivenza, poi il sovraffollamento del lager spinge gli ufficiali a spostare qualche detenuto in un campo di concentramento più grande. Hertzko finisce in questo gruppo e sale sul convoglio. Partono così i primi due treni con migliaia di ebrei a bordo, guardati allontanarsi sui binari con macabra soddisfazione dal ministro Franz Rademacher. Ai passeggeri è stato chiesto il biglietto. Anche per morire bisogna pagare. Il treno che viaggia fino ai limiti della vecchia Polonia ha l’indirizzo finale scritto sul cartello di ferro appeso alla carrozza di testa: Auschwitz.

Nell’estate precedente Rudolf Hess, il vice di Hitler, è stato convocato da Himmler a Berlino ed è stato messo al corrente da questi della volontà del Führer di annientare gli ebrei. Hess deve concertare con Eichmann la Shoah, per lui è un semplice ordine da eseguire. Ma serve una collocazione geografica. Auschwitz, il posto nel quale sono stati reclusi all’inizio i soldati polacchi destinati al lavoro nei campi, pare la collocazione perfetta. Proprio qui, a cinquanta chilometri da Cracovia, si sono svolti i primi esperimenti col gas.

Nelle carrozze del treno non c’è luce, non c’è posto, non c’è intimità. Non c’è cibo, né acqua. Ogni esigenza, anche fisiologica, va consumata in piedi. Il treno non si ferma, le poche soste per dare o ricevere la precedenza di altri treni sono solo tempo perso per un’agonia che si allunga. Una volta giunti a destinazione, i prigionieri maschi, ed esclusivamente adulti, vengono fatti scendere uno ad uno. Chiaramente la forza fisica si lega alla scelta di farli smontare dal treno. Le guardie sottopongono Hertzko allo sport machen, al fare sport. Flessioni, ginnastica spossante, botte, umiliazioni e degradazioni. Eppure lui non cede. Supera vivo il primo inverno e la prima estate, ma in autunno le forze sembrano abbandonarlo. Finché conosce Schneider, un ufficiale delle SS con cui diventa “amico” e soprattutto stringe un patto: Hertzko disputerà incontri di pugilato con gli altri prigionieri, in cambio avrà del cibo assicurato. Accetta e sale sul ring. I pugili che batte, però, vengono subito uccisi dai tedeschi.

Nel frattempo, tra un match e l’altro, l’Armata Rossa continua ad avanzare. Arriva quasi alle porte della Polonia. Così, per evitare che ci siano dei sopravvissuti, le SS costringono i prigionieri a spostarsi sempre più a sud attraverso le tristemente note marce della morte: le Todesmärsche. Partono a piedi, sotto la neve, fino al campo di Flossenbürg dove perderà la vita anche Eugenio Pertini, fratello del futuro Presidente della Repubblica italiana. Passa una settimana e poi si riparte. Di nuovo. A piedi. Ma durante quest’ennesima marcia, Hertzko riesce a fuggire nascondendosi tra gli alberi. Verrà recuperato e salvato qualche chilometro più in là da alcuni soldati americani. Dopo pochi mesi la guerra finisce.

Per i primi due anni, Haft rimane in Baviera dove nel 1946 riesce a vincere un torneo di boxe per displaced persons ebree, davanti ad un pubblico di diecimila spettatori. Da pugile si fa chiamare Herschel l’ebreo, o Hertzka. Vince e decide di emigrare negli Stati Uniti su consiglio di un ufficiale statunitense, ex pugile, il quale lo instrada nella carriera sportiva come pugile professionista. L’inizio è promettente. Vince dieci match di seguito, quasi tutti per knock out. Diventa abbastanza famoso nel mondo pugilistico, in gran parte controllato dalla mafia italoamericana, finché il 18 luglio 1949, nella città di Providence, Haft combatte e perde il suo ultimo incontro alla terza ripresa. Va al tappeto a causa di un gancio in pieno mento. A tirarlo è stato il suo avversario, un italoamericano di nome Rocco Marchegiano meglio conosciuto come Rocky Marciano. Il ragazzo farà strada e pochi anni dopo diventerà campione del mondo dei pesi massimi.

Anche se alcuni dettagli della storia di Haft dal punto di vista storico sono risultati in seguito falsi, o perlomeno dubbi, resta vero quanto ha scritto il giornalista sportivo Bernd M. Beyer: «L’autenticità e l’intensità del suo racconto non vengono comunque inficiate».

Francesco Gallo
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