Maracanã

lo stadio Maracanã oggi

lo stadio Maracanã oggi

 

Dove il calcio diventa epopea

Poi esiste la leggenda.

Persino nei ritmi ossessivi ai quali siamo costretti ogni giorno, in questa corsa senza tregua che sembra braccarsi attimo dopo attimo, la scintilla – atavica o istintuale, chissà mai – che sovrintende la nostra fantasia sa costruire una sua visione alternativa. Costruisce mondi che non sono concreti. Universi che sublimano ciò che è in una dimensione che sogno non può dirsi, ma neppure realtà vera. Ed è allora visitiamo luoghi che in quei mondi ci conducono o ci perdiamo estasiati davanti ad oggetti che di quei mondi fanno parte. L’incantesimo di Stonehenge o di Machu Picchu. Del teschio di cristallo o di un affresco egizio.

Lo sport… beh, lo sport non fa eccezione. Anche nello sport esistono porte verso un passato rivisto con le lenti del racconto, con il fascino insinuante ed eterno dell’affabulazione e della nostalgia. Il Madison Square Garden e lo Yankee Stadium. Lo Stelvio e il Nürburgring. Teatri di imprese che la cronaca non basta a contenere, palcoscenici di gesta che si trasmettono attraverso le generazioni. A volte come un uragano violento di passione (sportiva, è vero, ma pur sempre passione) tradita o delusa. Altre volte come un soffio lieve di vento amico.

Il Maracanã, per esempio. Il Maracanã del Maracanaço, quando la Seleção verde-oro va incontro alla beffa più atroce della storia dello sport, e perde in casa un titolo mondiale già vinto.

Una tragedia nazionale

Il 16 luglio del 1950, l’Estadio Municipal (“Estadio Jornalista Mário Filho” lo diventerà solo nel 1964, un anno prima del completamento definitivo) è un impianto giovane, appena nato. O meglio, ancora in gestazione, perché mancano, e mancheranno a lungo, quasi tutti i servizi igienici, mentre la tribuna stampa esiste solo sulla carta.

Il Brasile di Getúlio Vargas, un tipo fatto a modo suo, ma che tutto sommato qualcosa di buono durante i suoi anni al governo lo combina pure, è un paese povero. Arretrato. L’occasione del rilancio possono essere i Mondiali di calcio del 1950, i primi del dopoguerra.

Rio non fa eccezione, anzi. È già una megalopoli di quasi tre milioni di abitanti, ma la maggior parte di loro vive nei quartieri-ghetto e nelle immense favelas di lamiera e cartone. Poveri cristi che spesso non mettono assieme un pasto al giorno. La miseria come rappresentazione di vita. Nonostante questa drammatica situazione, gli amministratori della città fanno progettare uno stadio immenso, destinato a divenire il tempio stesso del calcio. Il favoloso Municipal, capace di contenere centosessantacinquemila spettatori. Sulla carta, che spesso viene ignorata sino ai duecentomila delle grandi occasioni. L’enorme sforzo economico viene solo in parte alleviato dalla geniale idea di cedere in abbonamento per cento anni ventimila posti coperti: la ragione per cui gli spettatori reali sono sempre molti di più di quelli ufficialmente paganti. Qualche politico e qualche intellettuale osa protestare contro il palese spreco di risorse, certo più utili per scuole od ospedali, ma è subito messo a tacere dall’unanime consenso popolare.

il Maracanã nel 1950 (clicca per ingrandire)

il Maracanã nel 1950 (clicca per ingrandire – © Estadão)

 

La costruzione del faraonico stadio, che oggi tutti chiamano Maracanã come il quartiere che lo ospita, fu così autorizzata il 10 agosto 1948. Il 16 giugno 1950, un mese prima della partita conclusiva del Mondiale, l’impianto ospitò il primo incontro, che la rappresentativa di Rio perse 1-3 contro quella di San Paolo. A volerla dire tutta, un presagio un po’ sinistro. E i presagi a volte funzionano.

Domenica 19 luglio 1950 alla Seleçao è sufficiente un pareggio contro l’Uruguay, per laurearsi Campione del Mondo. E alla gente brasiliana niente sembra più impossibile di una sconfitta. Tutto è preparato a puntino: medaglie celebrative, magliette con la scritta Brazil Campeão 1950, strade addobbate a festa, limousine pronte ad accogliere i campioni.

il Maracanã nel 1950 (clicca per ingrandire)

il manifesto del Mundial e lo stadio Maracanã

 

Ben 203.849 spettatori effettivi, record di tutti i tempi per uno spettacolo sportivo… Circo Massimo a parte, naturalmente. Lo stadio è tappezzato di due colori, il verde e il giallo oro, e i cento uruguayani presenti sono del tutto invisibili. Prima del fischio d’inizio, tra gruppi di samba e ballerine, il Presidente dello Stato di Rio pronuncia un discorso del quale si pentirà per tutta la vita: «Voi, brasiliani, che so certi vincitori del torneo, voi, giocatori, che fra pochissimo sarete osannati come Campioni da milioni di vostri compatrioti…». Uno iettatore professionista non avrebbe saputo fare di meglio.

Il via alla tragedia di una nazione lo dà Pepe Schiaffino, che pareggia il goal del brasiliano Albino Friaça Cardoso, per tutti semplicemente Friaça. Il colpo finale però lo fornisce un altro italo-uruguayano, Alcides Edgardo Ghiggia, e la sua rete gela letteralmente il Maracanã e il Brasile intero.

il Maracanã nel 1950 (clicca per ingrandire)

il gol della vittoria di Ghiggia

 

«Tre sole persone sono riuscite a zittire il Maracanã: Frank Sinatra, il Papa e io», dichiarerà molti anni dopo Ghiggia. Sì, perché l’incontro finisce 1-2 per l’Uruguay, e il Brasile perde il suo Mundial. Si parla di malori, di infarti, persino di suicidi. Non sono solo dicerie urbane. Nella notte di metà luglio per quello che è successo al Maracanã si dispera tutto il Paese. Si dispera Getúlio Vargas, si disperano i poveri delle favelas, si disperano i milionari nelle grandiose ville affacciate sull’oceano. Si piange a Rio, si piange a Belo Horizonte e si piange a San Paolo. “Nunca maís!”, “Mai più!”, titola l’indomani A Gazeta Esportiva Illustrada. Mai più, certo, ma le generazioni seguenti devono sapere, devono ricordare. E allora di padre in figlio si tramanda il racconto di quella sera terribile all’Estadio Municipal. Una leggenda che nasce. Un uragano violento di passione tradita e delusa, appunto.

O Milésimo

Il Maracanã. Il Maracanã del millesimo gol di Edson Arantes do Nascimento.

1969, l’anno di Neil Armstrong e della Luna, l’anno di Jan Palach e del milione di Woodstock. Per noi italiani, l’anno dell’autunno caldo. E di Piazza Fontana, purtroppo. Mercoledì 19 novembre davanti a sessantacinquemila spettatori paganti (ma sugli spalti ci sono i soliti ventimila in più) e che potranno da lì a poco pronunciare il fatidico io c’ero, si gioca Vasco da Gama-Santos per la Coppa d’Argento, antenata del campionato brasiliano. È il 32’ del secondo tempo, le 23.23 ora di Rio. Pelé riceve un pallone in profondità e scatta, bruciando sul tempo tre difensori del Vasco, che lo guardano impotenti. O Rei entra in area palla al piede e, da dietro, viene ostacolato dalla gamba di uno dei tre. Sgambetto, rigore solare e un’unica invocazione dell’intero Maracanã: «Pelé!». Poi cala il silenzio più assoluto. Si potrebbe sentire il rumore delle bandiere che sventolano in alto, sui pennoni. O il morbido colpo che fa il destro di Pelé, impattando sul pallone in quella storica pedata. Suoni che forse si sentono davvero, chi può dirlo.

il millesimo gol di Pelè

il millesimo gol di Pelé

 

Il piattone insacca la palla a fil di palo, sulla sinistra del portiere del Vasco. Per la storia, Edgardo Norberto Andrada, El Gato. Nato a Rosario come il Che Guevara, finirà a collaborare con la dittatura di Jorge Rafael Videla. Guarda come sono diverse le strade della vita. Sino a questo momento ha parato l’impossibile, l’argentino. Ora ha intuito, ha sfiorato con le dita, ma non è riuscito a deviare. Non gli resta che prendere a pugni il suolo, con una rabbia un po’ insensata. Ché non si rende conto di finire pure lui nella leggenda, questa sera.

È proprio arrivato, O Milésimo. Pelé entra nella porta, raccoglie il pallone che la rete sta ancora vibrando, lo bacia. In campo entrano tutti, riserve, reporter, qualcuno del pubblico. Lo portano in trionfo, ed è un trionfo che dura venti minuti, che inizia da una porta di calcio, attraversa la bolgia dantesca del Maracanã, e termina nel mito. O Rei, sostituito, si sfila la casacca del Santos e ne indossa una del Vasco, con il numero MILLE. Niente di strano, è la squadra per cui tifava da bambino. Che finirà per perdere 2-1 proprio per il suo goal, e magari alla Pérola Negra un po’ dispiace… ma che importa poi il risultato, quando si sta scrivendo un’epopea?

Edson Arantes do Nascimento lo dedica ai bimbi poveri del mondo, O Milésimo, con una punta di demagogia che gli verrà rinfacciata molte volte, in futuro. Il pallone che Pelé ha baciato finisce al Museo del Calcio di Rio, viene rubato e poi ritrovato. Messo all’asta, frutta trentamila dollari. Per beneficienza. Forse.

Il Maracanã oggi

Oggi il Maracanã non è più quello del Maracanaço, né quello del Milésimo. Non è più neanche quello di cento altri episodi da leggenda, dai dribbling di Garrincha alle punizioni di Zico. O di quando Pelé contro la Fluminense il 5 marzo 1961, scartò sette avversari e anche il portiere. «il punto più bello della storia del Maracanã», recita la frase incisa ad eterna memoria del gol de placa.

La targa per il più bel gol della storia dello stadio

La targa per il più bel gol della storia dello stadio

 

Imponenti lavori di ristrutturazione, quattrocentottanta milioni di euro bruciati in due anni e mezzo, lo hanno reso un impianto moderno, adeguato ai tempi. Adeguato al nuovo Brasile che sta diventando una tra le maggiori potenze del mondo. Adeguato alla finale di un nuovo Mundial che ospiterà nel 2014 e all’Olimpiade che arriverà subito dopo, nel 2016. Un altro contributo alla leggenda dell’Estadio, forse. O forse hanno ragione Pelé  e Zico, e il vero Estadio quei lavori lo hanno ucciso.

Il Maracanã ha mutato pelle. Gli spettatori ammessi ora sono molto meno. E molto più denarosi, perché adesso non è un posto per poveracci, l’Estadio. I duecentomila di un tempo resteranno per sempre un ricordo, cacciati da 78.838 poltroncine. Comodissime, però, o almeno così dicono.

il Maracanã nel 2013 (clicca per ingrandire)

il Maracanã nel 2013 (clicca per ingrandire – © Estadão)

 

C’è una maggiore disponibilità di servizi. Duecentotrenta bagni, sessanta bar e una manciata di ristoranti, tanto per non farsi mancar nulla. Un’immensa copertura di 50.000 m² in materiale fotovoltaico difende gli spettatori dalla pioggia e dal sole. E produce energia preziosa. La struttura ovale esterna, quella sagoma inconfondibile che ha fatto dello stadio un’icona dello sport, è stata mantenuta, ma la creazione in alto di una corsia di passaggio ha consentito un avvicinamento di dieci metri delle tribune laterali al terreno di gioco.

Sì, non è più l’Estadio della leggenda. Eppure qualcosa è rimasto uguale, e lo rimarrà sempre: l’urlo del Maracanã. Quel suono assordante e festoso, quel vero inno alla vita che da più di sessant’anni accompagna gli incontri assieme ai colori della Torcida. Chissà se il campione del mondo Andrea Pirlo, festeggiando le cento partite in Nazionale, nel primo match azzurro della Confederations Cup 2013, se lo è sentito entrare nella pelle, quell’urlo. O se per una volta era sovrastato da altre grida, molto meno gioiose. Quelle dei manifestanti, impegnati in violenti scontri con la polizia.

l'esterno del Maracanã nel 2013 (clicca per ingrandire)

l’esterno del Maracanã nel 2013 (clicca per ingrandire – © Estadao)

 

Perché il Brasile, terra meravigliosa di gente meravigliosa, è un paese ancora pieno di contraddizioni, in cui il vorticoso progresso non ha potuto cancellare secoli di povertà e ingiustizia sociale. Le contestazioni intorno alla Confederations Cup, talvolta anche violente, di queste contraddizioni sono lo specchio fedele. E le partite di calcio rimangono appunto solo partite di calcio.

Un bel gioco. La vita è un’altra cosa.

Danilo Francescano
© Riproduzione Riservata

 

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