La Streif
La discesa che vale una carriera
Tutti gli anni richiede un tributo. Talvolta un ginocchio, talaltra uno scarpone.
Hunger Games bianchi. Gloriosi. Volontari.
Hunger Games stretti in semplici regole, condensati in un’ unica pista. Non una pista qualsiasi ma “la” pista. Quella che ha tutto: pendenze acute, tratto rettilineo, stretti passaggi, trappole per topi, pendii marcati, salti, spigoli, ghiaccio, curve, curve e ancora curve…
È la Streif. Il Circo Bianco si da’ appuntamento su quel tracciato austriaco una volta all’anno, a gennaio, per una discesa di Coppa del Mondo. Lì sprizza la gioia immensa del sopravvivere, lì va in scena il sempiterno fascino della figura del gladiatore, lì è protagonista la meravigliosa madre natura che a volte protegge e sublima, altre volte sfigura e uccide.
Ingredienti che fanno ubriacare gli sponsor di felicità, per le migliaia di spettatori e telespettatori che accorrono.
Sulla Streif si fa spettacolo.
E che spettacolo.
Un’esibizione che tocca i 150 km/h, come da record dell’austriaco Michael Wachlhofer. Velocità, forza, prepotenza dei muscoli, tecnica, equilibrio: è “la” discesa libera per eccellenza.
È Hollywood, la Formula Uno, la Parigi-Dakar insieme, il tutto amalgamato nel bianco della montagna. Su un paio di sci.
L’uomo che sfida il cronometro in condizioni morfologiche avverse. Il combattente in tuta attillata e casco che volontariamente si lancia in un’accelerazione drammatica, lasciandosi dietro una spruzzata di neve. Non vuole eliminare gli altri concorrenti, vuole semplicemente arrivare primo. Non è una gara tra partecipanti, ma è un duello tra sé e il tempo. L’epitome della distinzione romantica tra io e non io; tra finito e infinito.
Nell’immaginario del Romanticismo il tema della velocità non si declina soltanto come una specificità dell’accelerazione meccanica, ma è capace di vincere i limiti naturali del movimento umano, sublima le categorie spazio-temporali che vengono alterate.
E la Streif è la sublimazione della discesa libera.
Il compromesso tra tenere e lasciare correre.
Bisogna amarla profondamente la montagna. Bisogna esserne miseramente intimiditi e irresistibilmente attratti.
Bisogna essere un po’ matti per sfidarla.
Quasi tutti sono affascinati dalla velocità, intesa nel senso romantico e futurista del termine: celerità, prontezza e dinamismo enfatizzano le traiettorie sfuggenti, deformano e ridisegnano il paesaggio. Abbiamo forse toccato i 140 km/h in auto qualche volta, ma li abbiamo mai toccati sugli sci?
La natura qui alla Streif gioca un ruolo fondamentale. Ci sarà abbastanza neve? Ci sarà nebbia, o bufera? Quanti tratti ghiacciati bisognerà affrontare?
Se lo chiedono gli organizzatori, i tifosi, gli atleti, gli allenatori, gli sponsor…
Le domande valgono per tutti gli eventi di montagna, ma in Tirolo valgono di più. È una discesa che vale una carriera intera.
Le gare vengono organizzate a Kitzbühel dal 1906, ma è dal 1967 che la Streif viene inserita stabilmente nel circuito della Coppa del Mondo di sci alpino. Quell’anno fu vinta da Jean-Claude Killy. Assieme allo slalom della Ganslern compone la combinata dell’Hahnenkamm.
Inizialmente la gara era maschile e femminile, mentre oggi è soltanto maschile.
In origine l’Hahnenkamm si corse nella vicina pista Fleckalm. La prima gara ufficiale dell’ Hahnenkamm data del 1931 e fu vinta dall’austriaco Ferdl Friedensbacher. Il vincitore sul tracciato che sarebbe diventato leggendario è un altro austriaco, Thaddäus Schwabl. Era il 1937 e già allora i tifosi erano entusiasti. Non c’erano reti di protezione e si accalcavano direttamente sulle piste. Kitzbühel aveva addirittura una squadra locale guidata da Anderl Molterer e Toni Sailer, che la vinceranno due volte ciascuno. Sailer avrà il funerale celebrato sulla linea del traguardo della Hahnenkamm.
Gli austriaci sono gli specialisti di questa discesa. I più vincenti di sempre. Non sorprende: giocano in casa. Nascono e crescono con le lamine ai piedi.
Gli italiani amano facilmente il prato verde del calcio, più raramente le cime innevate. Eppure c’è tutta una parte d’Italia che ogni mattina si affaccia alla finestra e vede picchi, cime, catene, rocce che stagionalmente vengono nascoste dal manto candido della neve.
Qualcuno, come me, forse ha avuto al fortuna di avere un grande amore austriaco. E allora si combina il mare con la neve, una surfata sull’acqua con una surfata con lo snowboard. E se la televisione italiana non lascia spazio allo sci tranne in casi eccezionali, ci pensa un ragazzo gentile con accento teutonico a istillare curiosità dapprima, passione poi, a una disciplina dove occorre innanzitutto scrutare le ombre nel bianco, poi acquisire tecnica (tutto l’anno! Non solo nei mesi invernali!) e infine procacciarsi un buon equipaggiamento che completi il difficile binomio tra il proprio corpo e la natura.
Niente Streif per me; svanisce anche l’amore per l’austriaco, ma non la passione per il Circus austriaco. E sono vividi i ricordi davanti al televisore della residenza viennese con il silenzio agonistico, la conta dei pettorali, l’attenzione per i numeri dal 24 al 30, il tifo esagerato per i beniamini nazionali.
E il giorno dopo la picchiata dell’Hahnenkamm, se sul podio non ci sono austriaci la stampa austriaca piange titoli mesti…
Il 2016 non ha visto salire austriaci sul podio.
Al primo posto c’era Peter Fill, italiano di quella parte dello Stivale che si sveglia con le montagne alla finestra. Per anni presente nelle maggiori gare sciistiche, costante nel suo percorso sportivo, ha sempre tenuto un profilo basso: niente rotocalchi né riviste patinate ma tanto lavoro. E a Kitzbühel ha trovato l’apice. Veramente aveva sfiorato anche il peggio. Nel 2013, quando a 100 km/h perse il controllo di uno sci e dai teloni coprirete pubblicitari prese il volo per un salto mortale all’indietro da cui atterrò quasi in piedi, riuscendo a non cadere di testa. Salvo poi inevitabilmente scivolare.
Quell’anno sul podio salì un altro italiano, Dominik Paris, che piombò sul traguardo a 143,2 km/h.
Per trovare un altro italiano sul podio occorre andare al 1998, dove andò in scena una delle pagine più emozionanti dello sport bianco. Kristian Ghedina scende a 140 km/h. È nell’ultimo rettilineo, dove c’è un salto che negli anni ha causato tante cadute. E lì va in scena la solita bravata di Ghedina: le gambe si aprono, gli sci si allargano, è una spaccata in aria. Tre secondi dopo il cronometro si ferma sul miglior tempo. Kristian Ghedina è primo. E si è permesso di divaricarsi in una temeraria spaccata che lo consegna alla categoria del mito. Doveva essere un salto di congedo, e invece la sua carriera da sciatore durò ancora due anni. Mentre continua tutt’oggi la sua sfida con forza centrifuga e velocità nel mondo dei rally.
A distanza di tanti anni, la Streif è ancora la discesa libera preferita dagli appassionati.
Comincia a 1665 metri sul livello del mare, per finire a 805. Si snoda per 3312 km, tranne in un paio di anni di maltempo.
La vittoria al Kitz è ambita dai discesisti per il fascino che esercita ma anche per il premio in palio: è il più alto del circuito.
Al vincitore è inoltre dedicata una “gondola”: una cabina dell’ovovia dell’Hahnenkamm. Nei moderni tempi di social, vale celebrarsi a colpi di tag con le foto dell’abitacolo rosso con il proprio nome.
Il re della Streif è svizzero. Si chiama Didier Cuche e vinse la prima volta nel 1998, la seconda volta ben dieci anni dopo, dopo infortuni al ginocchio, e poi ancora nel 2010, 2011 e 2012. Con le sue cinque vittorie spodestò i fuoriclasse austriaci Karl Schranz e Franz Klammer dal primato di vittorie.
Anche lo slalomista Ingemar Stenmark volle cimentarsi con quel tracciato. E l’americano Bode Miller, con le sue medaglie olimpiche, le sue sfere di cristallo, le coppe del mondo, ha fatto capire in varie interviste il malcontento di essere arrivato sul podio dell’Hahnenkamm, ma mai al primo posto. Leggendario sulla pista lo è stato: nel 2008 ha letteralmente sciato in verticale sui tabelloni pubblicitari coprirete. Ma anche quella volta fu secondo. Per un centesimo.
Dietro a quel tabellone ci sono tre reti di protezione. L’affascinante pericolosità del tracciato faceva accorrere gli spettatori sulle piste con altrettanta pericolosità. Nonostante un certo fascino del macabro sia un ingrediente della gara, la sicurezza è il primo pensiero degli organizzatori. Non morì mai nessuno, ma negli anni ci sono state carriere stroncate e coma quasi fatali.
E tutti, tutti gli atleti a gara finita ringraziano la montagna.
Grazie per la vittoria o per averli lasciati vivere.
È una conclusione significativa, situata nel grande affresco corale della società moderna, che ha sempre più voglia di “far presto” e prova sempre più il desiderio e l’urgenza della fretta.
Vince l’anima. Vince la montagna.
Tutto il resto è un regalo ben guadagnato.
Melania Sebastiani
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