Agostino Di Bartolomei

Agostino Di Bartolomei

Agostino Di Bartolomei

 

Giallo come il sole, rosso come il cuore

Sebbene ora non sia più un bambino, Luca Di Bartolomei conosce bene i luoghi dove è custodita la sua infanzia. Sono abitati da chi ha occupato quella stagione verde dell’età con la presenza assoluta, prepotente che caratterizza le cose precarie. Da chi l’ha pervasa del fascino tipico degli eroi incorruttibili destinati a risplendere nella zona più riposta e intoccabile della memoria. Conducendolo per mano, dita grandi che guidavano le sue, un tempo tanto minuscole da sprofondare in un palmo, o forse issandolo sulle spalle per farlo sembrare grande, una vedetta pirata, un gigante; così un giorno il suo eroe l’aveva portato dove la favola era cominciata. A Roma Sud, nel quartiere di Tor Marancia, tra via Giangiacomo e Via Sartorio.

Qui si staglia netta la sagoma di un edificio dimenticato dagli anni, a malapena in quello stabile annerito si riconoscono le dislocazioni incerte di due spogliatoi separati e una piccola segreteria. Il tempo ha giocato la sua parte, il campo da calcio che si scorge al di là della rete è in balia dell’incuria, ridotto ormai a una giungla selvaggia. Gli occhi dell’uomo però rimuovono l’azione deleteria compiuta dalla dimenticanza, vede ancora tutto com’era stato e come per lui avrebbe dovuto essere. Trascina il bambino con entusiasmo attraverso un buco nel muro di recinzione, quasi a volergli mostrare un mondo segreto. I rovi pungono, graffiano i vestiti, ma una volta giunti all’interno l’atmosfera diventa solenne. Il piccolo Luca lo comprende all’istante, mentre osserva negli occhi del padre quell’emozione intensa che dilata le pupille ingrandendosi sempre di più. Il suo eroe gli scocca un’occhiata complice e con un cenno indica sotto la tettoia sbilenca fra i due spogliatoi: appoggiato a terra un grande stemma scolorito, ma non abbastanza, le lettere si distinguono appena perché sia possibile leggere la scritta OMI. La sigla della federazione che aveva permesso l’inizio di un sogno. Luca Di Bartolomei sa di dover tornare a quell’istante per ricordare suo padre, Agostino, il Capitano: il momento in cui l’uomo e il calciatore si sono uniti per l’ultima volta rispecchiandosi assieme nelle acque del passato, come se nessuno dei due intendesse sopraffare o annientare l’altro.

Anche Ago era stato uno di quei ragazzi che giocano nei campetti di periferia, più precisamente nell’oratorio San Filippo Neri: correva dietro al pallone insieme a frotte di altri giocatori improvvisati che rivendicavano il possesso della palla con ogni mezzo. Era stato uno dei tanti, ma lui aveva realizzato l’ambizione che quei tanti avevano solo accarezzato con la fantasia. Era diventato il simbolo della bandiera di casa: colore giallo-rosso, capitano della Roma.

La fiducia di Liedholm

Gli era rimasta del calcio quella visione pura, retaggio delle partite disputate all’oratorio dove un pallone rotolava fra l’erba e il fango degli scarponcini inzaccherati. I compagni l’avevano così soprannominato “Sant’Agostino” perché era insensibile alla bella vita che il mestiere del calciatore concedeva, non era attratto dalle lusinghe del lusso, non era vanitoso, piuttosto conservava la sua aria schiva poco apprezzata in un ambiente in cui tutti erano abituati a sputarsi insulti in faccia, a dirsi subito ogni intenzione o minaccia senza troppi preamboli. Lui non parlava mai di sé né degli altri, osservava tutto con un sorriso incerto che appare in ogni sua fotografia dentro e fuori dal campo.

A diciassette anni la sua partita d’esordio nella squadra giovanile della Roma si conclude con un punteggio insipido che lascia poco spazio alle chiacchiere: zero a zero. Viene ricompensato però l’anno successivo con il suo primo goal in serie A contro il Bologna: finalmente Ago calcia in rete un cross teso arrivato dalla destra, un tiro che rivela tutta l’infallibilità della sua tecnica. Seduto in panchina l’allenatore, Manlio Scopigno, vibra di tensione, l’immagine del ragazzetto dalla potenza micidiale gli si imprime nelle retine, anni dopo dirà di aver compreso in quell’istante il talento di Agostino. È ancora tanto giovane Di Bartolomei e il talento non basta, mancano la gavetta, il sudore, la fatica e anche l’ingrediente più raro: la fortuna.

La Dea Bendata si presenta sotto le spoglie di Nils Liedholm che per primo gli concede la sua fiducia, il dono più grande perché nessuno fino ad allora aveva scommesso su di lui una parte di se stesso. Liedholm lo vide giocare nell’ultima partita del campionato Primavera di quella stagione, a La Spezia. Correva con il numero 8 e la fascia da capitano e dopo la cena offerta dalla società per festeggiare la vittoria si era alzato in piedi con disinvoltura cominciando un discorso di ringraziamento per tutti coloro che avevano partecipato alla finale. Parlava con una maturità che sfatava ogni preconcetto sull’inesperienza dei suoi diciannove anni. Terminata la cena venne il momento dei saluti e Liedholm non ebbe timore di affermare: «Questo è un vero capitano». Poco tempo dopo gli consegna un’opportunità su un piatto d’argento: lo chiama in campo a tirare il primo rigore per la Roma contro il Liverpool. Una responsabilità su cui grava l’esito dell’intera partita, ma Nils compie questa scelta con leggerezza perché sa di non rischiare: vuole solo una conferma.

Di Bartolomei tira a modo suo, la tensione del momento non lo tradisce. Un solo passo di rincorsa, un unico colpo centrale alla palla e la vittoria è sua, di Liedholm, anzi di tutti, degli altri che ancora non hanno afferrato il significato di quel gol. Il pallone intrappolato nella rete segna la risposta ad un appuntamento col destino. E presto la Roma avrà un nuovo capitano.

Capitano della Roma

Capitano della Roma

 

La maledizione del 30

Nel suo periodo d’oro Bartolomei aveva preso la Roma per mano per condurla in alto, a sfiorare le stelle. Nel 1983 stringe trionfante il secondo scudetto per la storia giallorossa e viene acclamato dai tifosi alla stregua di un Dio, la sua popolarità è in continua ascesa, le strade si riempiono di bandiere dei colori della squadra e tutti sorridono ed esultano alla notizia della finale di Coppa dei Campioni disputata in casa. Ogni romano è convinto di avere già la vittoria in tasca.

Del resto, nulla lascia presagire il contrario giunto il fatidico 30 maggio 1984. Quando le squadre entrano in campo è ancora giorno: sono le 20.15 di quella che si preannuncia come un’irresistibile serata estiva. Gli spettatori sono più di settantamila, il terreno di gioco in ottime condizioni, il cuore dei tifosi batte a mille pulsazioni di pura emozione. La curva sud, occupata dai romanisti, espone uno striscione dal significato inequivocabile: «Non passa lo straniero». Lo straniero in questione è il Liverpool, alla sua nona partecipazione consecutiva alla Coppa dei Campioni, un record che procede ininterrotto dal 1976.

Niente va come sperato in quella nottata profetizzata secondo i migliori auspici traditi da una realtà ben diversa; una sconfitta inappellabile. La città il sonno lo perse comunque quella notte, sebbene senza i festeggiamenti sperati, per Agostino Di Bartolomei invece quella vittoria mancata assunse un peso ben differente con cui si sarebbe confrontato per sempre. A poco a poco il dispiacere prese il gusto amaro del fallimento. Il rimpianto di non aver saputo sfruttare il vantaggio di giocare in casa, perduta l’occasione unica di coronare un’impresa irripetibile con il trionfo. Per la prima volta la Coppa venne assegnata ai calci di rigore: primo tentativo del Liverpool fallisce, lo stesso si verifica per la Roma. Nel frattempo il portiere del Liverpool improvvisa dei balletti tattici sulla linea di porta per deconcentrare gli avversari, di minuto in minuto l’atto finale della partita rischia di sfiorare il grottesco. La situazione resta ancora di parità dopo tre rigori, il gol decisivo viene segnato da Alan Kennedy che decreta l’incontestabile vittoria.

Di Bartolomei capisce all’istante, non appena vede quella Coppa sollevata dalle mani della squadra avversaria. Capisce che, qualsiasi cosa accada dopo, il suo tempo non è illimitato, la sua grande opportunità è trascorsa, la sua stagione come capitano giunta al capolinea. Col trascorrere dei giorni quel 30 maggio si eclissò dalla memoria di molti, salvo poi ritornarci con prepotenza, con l’irruenza terribile degli avvenimenti fatali, esattamente dieci anni dopo. Col senno di poi quella partita apparve come la sagoma oscura di un presagio.

La parabola del declino

L’anno dopo la misfatta la protezione di Liedholm viene meno, la panchina giallorossa è occupata da Sven Goran Ericksson che adotta tecniche innovative. «È il momento del calcio moderno» dice e le sue tattiche si servono di muscoli, di velocità, forza, lasciano poco spazio ai pensieri. La parola d’ordine è pressing, un ritmo di gioco al quale Di Bartolomei non riesce ad adattarsi. La sentenza dell’allenatore è spietata: è troppo lento. Agostino viene ceduto al Milan e così torna dal suo benefattore di sempre, Nils Liedholm che come lui è stato accantonato dopo la scoperta di quella visione futuristica del calcio. Con il Milan gioca ottantotto partite in tre anni, segnando nove gol; ma ambientarsi a Milano non è semplice, gli inverni sono più rigidi ed ogni circostanza è più gravosa perché Di Bartolomei stenta a riconoscersi in una squadra che non è la sua. Non contano gli striscioni dei tifosi più fedeli che allo stadio lo incoraggiano: «Ti hanno tolto la Roma, ma non la tua curva». Nella mente del capitano è ancora impressa a chiare lettere la scritta che recitava: giallo come il sole, rosso come il cuore. Erano quelli i suoi colori, raccontavano tutta la storia dei quartieri dove era cresciuto, della città che aveva amato più di ogni altra. Trascorsa la stagione al Milan, Di Bartolomei viene ceduto al Cesena, poi alla Salernitana. La grandezza del Capitano che era stato lo insegue ormai come un’ombra troppo imponente alla quale non riesce più ad adattarsi, un’ombra che lo sovrasta e in cui non si riconosce: lo precede sempre d’un passo e quel passo, a volte, Agostino crede di non volerlo compiere più.

A ferirlo non è stato il fallimento di una partita, ma il tradimento palese di tutto un mondo che credeva il suo e da cui si è trovato ripudiato, abbandonato come uno scarpone usato, sostituito da un paio di piedi nuovi. Gli ex compagni di squadra in occasione del suo primo ritorno a Roma come avversario gli riservarono un’accoglienza spietata: Ciccio Graziani al fischio finale della partita si avventa su Ago, che era stato pure il suo capitano, e lo colpisce con un violento pugno al viso. E Bruno Conti, considerato un amico, il compagno con cui aveva condiviso le partite sulla spiaggia di Lavinio e la gavetta nelle giovanili, a fine partita lo apostrofa con una frase tagliente che trasuda odio: «Nel Milan continua a giocare come giocava nella Roma: tranquillo, pulito, senza mai uscire dal campo sudato. Ed era sempre il migliore di noi. Non è vero, come qualcuno ha scritto, che sono suo amico». Stroncato da un’invidia insensata che adesso non credeva neppure di meritarsi, tradito dalla vecchia società e rifilato nell’infernale girone C del Salerno. Benvenuto al Sud, Di Bartolomei. Decise di affidare al calcio la sua ultima scommessa, si rimboccò le maniche spinto da un delirio di resurrezione convinto di poter ribaltare le sorti di una squadra disorganizzata quanto inesperta con un allenatore che spronava i giocatori al grido di «tutti uniti!». Esiliato in un paese di provincia Agostino firmava autografi, riconosciuto come il campione della porta accanto: le sue apparizioni sul campo erano bagliori di destrezza, abilità, che inasprivano la sua condanna in terza serie.

Due stagioni con il Salerno alle spalle e la speranza, sempre viva, di poter tornare in un mondo che gli aveva chiuso le porte in faccia. Telefonate, lettere, troppo orgogliose per contenere davvero una richiesta d’aiuto: le sue conversazioni erano sempre pacate, gentili, quasi sprecate in convenevoli. Nessuno colse la sua disperazione, tutti lo salutavano con «Vedremo, si può fare. Ci sentiamo». Parole vaghe che non offrivano appigli stabili cui aggrapparsi e poi, come risucchiate dalla lontananza, si perdevano in un silenzio fitto.

Ai tempi del Milan

Ai tempi del Milan

 

Un colpo al cuore

Smarrito in quell’agglomerato di case abbarbicate sul mare nel paesino natale della moglie Marisa, San Marco di Castellabate, Agostino Di Bartolomei rimase stretto in una morsa stringente fra passato e futuro. Non gli bastò fondare una scuola di calcio per alleviare il peso delle delusioni più amare, i tradimenti più meschini, i voltafaccia più inaspettati. Lui dei suoi problemi non parlava mai, preferiva discuterne solo quando aveva trovato da sé una soluzione. Non una parola alla moglie Marisa, non un avvertimento. Una serata trascorsa con amici di famiglia in perfetta sintonia, giochi e distrazioni in compagnia del piccolo Luca, poi, la mattina dopo, uno sparo per congedarsi definitivamente dalla vita. Senza esitazioni, un colpo dritto al cuore con la sua calibro 38, ripulita per l’occasione. Un ultimo sguardo al mare dalla terrazza, poi il colpo guidato da una mira infallibile. Aveva augurato buon compleanno a suo padre il giorno prima, gli aveva detto «Ci vediamo mercoledì, anche Luca ha voglia di vederti». Era anziano suo padre, non meritava un dispiacere così grande, meglio credere che non ci avesse pensato, che tutto fosse accaduto dopo e l’idea fosse stata fulminante.

Un colpo al suo cuore, poi sgorgare di sangue a fiotti, rosso come uno dei colori della Roma, perché mirare al petto è l’unico modo per uccidere davvero, tutte le altre sono morti rimandate. L’aveva detto al suo amico Antonio una volta, commentando il suicidio di Raul Gardini «Ha sbagliato a spararsi in testa; meglio mirare al cuore, perché solo così si è sicuri di morire all’istante». 30 maggio 1994 anche il cuore dei tifosi romanisti si è fermato con un sussulto per la seconda volta, dopo l’epilogo funesto della partita di dieci anni prima che aveva oscurato il sole del Capitano.

Valgono poco i pianti, lo sgomento della moglie e dei familiari, i ragazzi della scuola di calcio che lui aveva fondato e che ancora grida forte il suo nome senza poterlo richiamare indietro. I rimorsi tardivi di tutti coloro che sopraffatti comprendono di non aver capito nulla, nemmeno i suoi prolungati silenzi. Le persone che davvero gli volevano bene e lui non riconosceva più, sprofondato nella pena inconfessabile e senza fine della sua personalissima tragedia di uomo. Occhi gonfi e lacrime tante, una sola certezza nella canzone dell’amico Antonello Venditti intitolata Tradimento e perdono. L’unica frase che, di fronte ad un dolore così grande da rinnegare la vita, valga la pena di ripetere: «Se ci fosse più amore per il campione oggi saresti qui».

Il sorriso triste di Agostino

Il sorriso triste di Agostino

 

Il calcio l’ha tradito, come il tempo non è stato galantuomo. Forse in una sola persona si conserva nitido il ricordo dell’uomo e del campione. L’unico che per sempre lo vedrà con gli occhi dell’infanzia, dove l’immagine dell’eroe si è conservata intatta; suo figlio, Luca. Sa bene dove cercare suo padre Luca Di Bartolomei quando la mancanza diventa struggente, in quel campo dove ancora le speranze non sono state tradite, l’innocenza di un sogno si conserva intatta.

Alice Figini
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