Livio Berruti
I leggendari 200 m di Roma 1960
Berruti inchiodò con calma i blocchi di partenza e ripulì accuratamente la pista. Si alzò, gettò uno sguardo all’Olimpico stracolmo, poi si avvicinò a due atleti statunitensi che parlottavano tra loro. Fece un gesto amichevole nella loro direzione e, mentre il terzo americano si univa ai suoi connazionali, volse le spalle al capannello, ritornando con studiata lentezza verso i blocchi. Una flemma assoluta, la stessa che aveva ostentato nelle due ore tra la semifinale e la finale, quando si era tra diviso tra il lettino nello spogliatoio e il prato dello stadio. Niente riscaldamento, solo un testo di chimica – materia in cui negli anni seguenti si sarebbe laureato – nell’attesa della corsa.
Poi il momento decisivo arrivò. I sei finalisti erano pronti alla gara: in seconda corsia il polacco Marian Foik, in terza il francese di origine senegalese Abdoulaye Seye, in quarta l’americano Stone Johnson. Livio, con il numero 596 sulla maglietta azzurra, era in quinta: una corsia buona, senza dubbio. Quindi, all’esterno, gli altri due statunitensi Otis Ray Norton e Lester Nelson Carney. Berruti si mise in posizione, fissando il terreno quasi a volerne assorbire benefici influssi attraverso le lenti scure dei suoi già famosi occhiali.
L’Olimpico ammutolì nell’attesa, finché lo sparo dello starter risuonò nel pomeriggio romano. Berruti e gli altri si lanciarono nella corsa più importante della loro vita, mentre dal pubblico si alzava un boato. Un secondo sparo risuonò. Falsa partenza. Johnson e lo stesso Livio si erano sollevati in anticipo: tutto da rifare. Gli americani tornarono ai blocchi, un po’ innervositi. Anche Berruti tornò sui suoi passi ma era visibilmente più disteso, nonostante la prima (e unica) falsa partenza della sua carriera. E di nuovo il supplizio dell’attesa mentre tutto lo stadio sembrava convergere nei gesti del giudice. Quattro anni di speranze e fatica in una frazione di secondo.
Una volata infinita
Sì, questa volta era quella buona. Livio partì molto bene, cosa che non sempre gli riusciva. Norton fu raggiunto in una quarantina di metri e lo stesso accadde dopo un paio di secondi a Carney. All’uscita della curva le caviglie esplosive dell’italiano, che sembravano annullare la forza centrifuga, avevano già compiuto il miracolo. Livio Berruti, nato a Torino il 19 maggio 1939, 180 cm per 66 kg, era in testa nella finale olimpica dei 200 m. Il ragazzo non lo sapeva, ma proprio allora un volo di colombe bianche attraversò il campo nelle riprese televisive che in quel momento riunivano tutti gli italiani davanti agli apparecchi dei bar e dei ristoranti. Un auspicio di vittoria, si disse poi con slancio poetico e un po’ di retorica nazionalista, una tantum giustificabile.
Ma non era ancora finita. Seye e Carney rimontarono il distacco e si avvicinarono pericolosamente all’azzurro. Per un attimo il sogno sembrò svanire e l’Olimpico si trasformò in una bolgia di incitamenti e di grida. Il pubblico non poteva sapere che la decelerazione di Berruti faceva parte di una tattica studiata a tavolino con il CT Giorgio Oberweger. Il rallentamento ai 150 m doveva consentire un più razionale apporto aerobico e soprattutto un tranquillo cambio di marcia. I passi velocissimi e più corti della prima fase lasciavano ora il posto ad una falcata distesa e armonica, in progressiva accelerazione. Così, mentre i rivali in debito d’ossigeno si imballavano in vista del traguardo, ai 170 m Berruti si trovò in piena velocità, elegante anche nello sforzo terribile che gli faceva stringere i gomiti alla vita e alzare i pugni sino alle spalle. Si gettò sul filo di lana a braccia aperte, nettamente primo, e ruzzolò sulla pista assieme a Carney, nella corsia più esterna.
Era fatta. Alle 18 di sabato 3 settembre 1960 Livio era campione olimpico. I tre americani, abbacchiati, si diressero verso degli spogliatoi. Berruti no: voleva prolungare al massimo il trionfo. Seye, medaglia di bronzo, gli si avvicinò e i due rimasero abbracciati sino a che il risultato apparve sul tabellone luminoso: uno stratosferico 20”62 elettronico, corrispondente a un 20”5 manuale, record del mondo eguagliato per la seconda volta. Solo due ore prima, in semifinale, Livio aveva già schiantato, oltre a Johnson e Norton, anche il terzo co-primatista, l’inglese Peter Radford, rimasto fuori dalla finale.
Quando, poco dopo, Berruti salì sul podio, le gradinate divennero un immenso palcoscenico tricolore. Era la vittoria italiana più importante di sempre. Livio ricevette le felicitazioni di Carla Gronchi, moglie del Presidente della Repubblica, e abbandonò lentamente il terreno dello stadio dando modo agli ottantamila presenti di gridare ancora la loro gioia. Ci volle una scorta di sei carabinieri per permettergli di uscire dallo stadio.
Il giorno dopo i giornali uscirono con titoli cubitali e articoli inneggianti all’impresa. «È troppo bello, è troppo irreale, bisogna far fatica a convincersi che è vero, che non si tratta di un miraggio» scrisse Ciro Verratti sul Corriere della Sera. Tutti cercavano Livio, tutti volevano Livio. Una foto, famosissima, lo ritrae su una Vespa mentre consente a un anziano tifoso di toccare la medaglia d’oro. Stavolta non indossa gli occhiali, Berruti, e sul suo viso è facile leggere sentimenti insopprimibili. Felicità, appagamento, orgoglio.
La love story con Wilma Rudolph
Gli attribuirono persino una storia d’amore con Wilma Rudolph, la Gazzella Nera che aveva stregato il mondo vincendo i 100 m, i 200 m e la staffetta veloce grazie alle sue splendide, lunghissime gambe. In effetti i due si fecero spesso vedere in giro assieme, mano nella mano. Anni dopo Livio rievocò la breve love story, descrivendola con un pizzico di nostalgia come «una cosa assolutamente platonica, alla Peynet». Il romanzetto terminò infatti con i Giochi e le strade dei due si divisero per sempre. Quella di Wilma, che si allontanò dallo sport verso l’impegno sociale in favore della sua gente, si concluse purtroppo con una morte prematura, il 12 novembre del 1994.
Dal canto suo, Berruti continuò a gareggiare. Il 1961 fu un anno magico: ventisei gare senza sconfitte. Ai Giochi di Tōkyō, nel 1964, svantaggiato dalla prima corsia, non riuscì invece a difendere il titolo, giungendo quinto anche se con la soddisfazione di essere il primo degli europei.
Ormai la parabola aveva raggiunto la fase discendente. Ancora un lampo, l’Olimpiade di Città del Messico, nel 1968, in cui il campione piemontese raggiunse comunque i quarti di finale. Poi qualche dissapore con la Federazione lo convinse al ritiro l’anno successivo. Nel suo palmarès, oltre all’oro di Roma, anche quindici titoli italiani (otto nei 200 m, sei nei 100 m e uno nella staffetta 4×100 m) e buoni piazzamenti ai Campionati Europei.
Ne aveva fatta di strada, Livio Berruti, da quando nel 1959 a Torino, sconosciuto studente, aveva dovuto mostrare all’ingresso dello stadio il tesserino da poliziotto delle Fiamme Oro per entrare e vincere tre ori alle prime Universiadi.
Danilo Francescano
© Riproduzione Riservata
Ultimi commenti