Yusra Mardini

Yusra Mardini (© Getty Images)

Yusra Mardini (© Getty Images)

 

Il simbolo di Rio 2016

L’immigrazione finora ci ha portato solo storie di morte; lei, inaspettatamente, ce ne consegna una di vita.
In questa ragazzina di appena diciotto anni è racchiusa tutta la tenacia, salda oltre ogni limite, di un’esistenza che sopravvive e resiste, persino nelle condizioni più impensabili.
Quando, esattamente un anno fa, il barcone su cui erano a bordo Yusra e sua sorella, assieme a una ventina di altre persone, iniziò a imbarcare acqua per un’avaria al motore, questa rischiava di diventare una delle tante storie che abbondano sulle pagine delle nostre cronache più recenti: l’ennesima tragedia in mare. E forse Yusra sarebbe stata semplicemente un’altra delle persone senza volto né nome che approdano alle nostre coste ormai prive di vita, tradite dalla fede in una speranza illusoria.

Ma non è andata così. Perché, quando il suono del mare si è fatto impetuoso e le acque più scure, Yusra si è tuffata senza esitare e quel barcone l’ha tratto in salvo. Ha lottato contro i flutti amari del mare con tutte le sue forze; per se stessa, per la sua vita; per tutte le persone indifese, spaventate e sconosciute che l’accompagnavano in un comune destino fatto di speranza e terrore, che si traduceva in una fuga disperata dalla guerra, dalla distruzione, dalla morte. Tutto quel carico pesante di vite, fiducia e preghiere sussurrate a mezza voce premeva sulle sue piccole spalle e su quelle della sorella, Sarah, anche lei abile nuotatrice.
Si sono fatte coraggio a vicenda, le due ragazze, nell’affrontare il mare arrabbiato, furioso, che minacciava di affogarle entrambe, onda dopo onda.

Un intenso primo piano di Yusra

Un intenso primo piano di Yusra

 

Nuotavano per resistere e non c’era traccia di terrore nei loro occhi; perché la paura ormai si era già consumata tutta quando le bombe avevano abbattuto la loro casa, in Siria, costringendole a scappare. La guerra si era portata via ogni cosa: la loro quotidianità, innanzitutto, fatta di mattinate a scuola, allenamenti in piscina, amici. Avevano visto morire molte altre persone nel corso dei combattimenti, tra cui la maggior parte dei giocatori della squadra di calcio che si allenava nel loro stesso centro sportivo.
Le sorelle in Siria erano considerate due nuotatrici brillanti, il loro futuro si preannunciava luminoso: Yusra aveva perfino partecipato ai Mondiali di nuoto a Istanbul, facendosi notare con la sua prestazione. Il comitato olimpico siriano di Damasco le aveva dato il suo supporto.

Poi era arrivata la minaccia delle bombe e l’imperversare dei conflitti ad annullare tutto. Non potevano più allenarsi, il centro sportivo ora aveva dei buchi grandi come crateri sul soffitto. Così si erano lasciate alle spalle una città fantasma per approdare a un campo di rifugiati in Libano. Da qui era iniziato il viaggio verso la salvezza che le aveva condotte a Smirne, in Turchia, per tentare la traversata dall’Egeo. Questo mare che ora ruggiva, con un rombo bestiale, minacciando di tramutare le loro prospettive di liberazione in un naufragio. Yusra e Sarah hanno trascinato il barcone in acqua per tre ore, aiutate anche da un’altra donna, l’unica fra tutti i passeggeri che, oltre a loro, sapesse nuotare. Hanno percorso quasi cinque chilometri fino ad approdare a riva, all’isola di Lesbo.

A chi oggi le domanda cosa le abbia dato il coraggio di affrontare la traversata, Yusra risponde con semplicità: «Ho pensato che sarebbe stata una vera vergogna se fossi affogata, proprio io che ero una nuotatrice». E poi c’erano tutte quelle persone atterrite a bordo della barca che avevano gettato in mare tutti i loro bagagli per non affondare e la guardavano con occhi pieni di fiducia, riponendo in lei ogni speranza, loro che non sapevano nuotare.
Un anno dopo, Yusra è ben lontana da quel mare che la avviluppava con i suoi flutti, trascinandola a fondo. Le è rimasto solo un ricordo agghiacciante; oggi confessa che il mare aperto le fa paura. Continua a nuotare, ma nell’acqua dai riflessi fluorescenti di una piscina. Ha ottenuto l’asilo in Germania, dove ha potuto riprendere gli allenamenti con la sorella nel centro sportivo di Spandau. Qui, sotto l’ala dell’allenatore Sven Spannekrebs, Yusra si è qualificata per le Olimpiadi di Rio 2016. Parteciperà alle gare dei 100 m stile libero e farfalla. Non nuoterà per il paese in cui è nata, la Siria, ma entrerà a far parte della squadra dei rifugiati; novità olimpica di quest’anno. Un fatto innovativo, nella storia delle Olimpiadi non si era mai visto nulla di simile: mai prima d’ora era stato assemblato un team di rifugiati.

Un drammatico segno di evoluzione, a dimostrazione che i tempi stanno cambiando e il fenomeno dell’emigrazione oggi entra anche nelle dinamiche dello sport.

La squadra dei rifugiati

Non parlano la stessa lingua, non provengono neppure dallo stesso paese, ma sono loro i rappresentanti di oltre sessanta milioni di persone. Sono la squadra dei rifugiati, dei “senzaterra”. Rappresentano tutte le vittime innocenti del nostro atroce presente, identità svanite nella vastità del mare, le innumerevoli morti che ormai non si possono più contare.
Hanno un’età compresa tra i diciassette e i trent’anni, la maggior parte di loro proviene dal campo profughi di Kakuma, nel nord-ovest del Kenya. Hanno nomi diversi, volti diversi, ma le loro storie sono simili. In tutto sono dieci gli atleti selezionati per la squadra Rifugiati indetta dal Comitato Sportivo Internazionale. Cinque atleti del Sud Sudan, due della Siria, due della Repubblica democratica del Congo e uno dell’Etiopia. Entreranno nello stadio del Maracanà per penultimi, appena prima degli idoli di casa.

Yusra a Rio 2016

Yusra a Rio 2016

 

Yusra sarà una di loro: in una fotografia appare con i capelli sciolti che fluttuano nell’acqua come la chioma di una sirena. Lei che è risorta dagli abissi di quel mare profondo e immenso che minacciava di inghiottirla, simbolo di questo oscuro e insensato presente.
I suoi occhi sono grandi e vivaci, parlano di una terra lontana e di una giovinezza ancora piena di sogni: «Non importa se si sfila dietro la bandiera siriana o quella olimpica. Io voglio solo poter essere un’atleta».

La sua storia appare come un lampo di luce. Racconta la più tragica ferita del nostro tempo; una ferita ancora aperta, sanguinante, a rimarcare il dramma di una questione, una tragedia umana, che appare ben lontana dall’avviarsi verso una conclusione.
Perché non importa come si concluderanno le Olimpiadi di Rio 2016 in procinto di cominciare: Yusra Mardini ha già vinto. La vincitrice morale di queste Olimpiadi è lei.

Alice Figini
© Riproduzione Riservata

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