Fanny Blankers-Koen
La “mammina volante”
Tutti hanno sentito parlare di Carl Lewis, il “Figlio del Vento”, il più grande “Atleta del Secolo”, il ventesimo, premiato come tale nel novembre 1999 dalla Iaaf, in una cerimonia avvenuta nei locali del prestigioso Sporting Club di Monte Carlo, direttamente dalle mani dell’allora principe Alberto. In quel Gala, rattristato dal ricordo di Primo Nebiolo scomparso due settimane prima, accanto a lui stava la più grande “Atleta del Secolo”, quella femminile, una briosa signora con gli occhiali, camicia bianca e gonna nera sopra le caviglie, niente trucco, una collana di perle portata con nodo sul davanti e vistosi orecchini.
Il suo nome era Francina Elsje Blankers-Koen, per tutti Fanny. «Fanny Blankers-Koen!», scandì il principe monegasco. Avanzò sul palco l’ottantunenne campionessa olandese, si scusò per essere un po’ emozionata e ringraziò tutti ai microfoni.
«È la prima e l’ultima volta – inteso che riceverà il riconoscimento – e voglio ringraziare tutti, anche le ragazze. Alla prossima».
Un delizioso vivace quanto sconnesso commento per indicare la gioia di vedersi riconosciuto il primato di una vita, che tuttora ispira.
L’impresa
Cosa successe alle Olimpiadi di Londra del 1948 è iscritto nel folklore e negli annali dei Giochi. Il mondo riaprì gli stadi dopo l’interruzione della guerra. Per alcuni, come per Fanny, fu l’unico riscatto possibile dopo le due edizioni saltate che corrispondevano al periodo giovanile di massima forma atletica. Fanny nel 1948 ha 30 anni, un marito e due figli. Ha partecipato alle Olimpiadi del 1936 ma, giovanissima e inesperta, non si è fatta notare. Prima dell’inizio delle gare londinesi, in interviste successive la velocista olandese sottolineerà: «Ricevevo lettere di minaccia che m’intimavano di stare a casa a badare ai miei figli». Ma lei baderà ai figli. E alla velocità. A suo modo.
E ricorderà spesso un aneddoto:
«Un giornalista scrisse che ero troppo vecchia per correre, che avrei dovuto restare a casa e pensare ai miei figli. Quando arrivai a Londra gli puntai il dito contro e gli promisi che gliel’avrei fatta vedere».
Probabilmente si riferiva a Jack Crump, segretario onorario dell’AAA (Amateur Athletic Association), nonché manager della delegazione di atletica inglese ai Giochi, commentatore sportivo per la BBC e corrispondente del Daily Telegraph. La profezia dal provocatorio tono di verdetto è presto sbriciolata dai numeri della “mammina volante”.
Il 31 luglio la Koen si qualifica per le semifinali dei 100 m con un tempo di 0’’12. Il 2 agosto con lo stesso tempo si qualifica alle finali che avverranno nello stesso giorno. Vince davanti a Dorothy Manley e Shirley Strickland.
Il 3 agosto compete negli 80m ostacoli, siglando il nuovo record olimpico di 11’’3. Semifinali il giorno stesso: qualificata. La finale è una gara al fotofinish, dove brucia il record precedente e sigla un nuovo tempo. Maureen Gardner, la favorita locale, può vantare lo stesso tempo, ma è argento. L’inno inglese che aveva risuonato nello stadio era dovuto all’ingresso di re Giorgio VI.
Il 5 agosto è la volta dei 200 m: si qualifica facilmente con un tempo di 25’’7, nuovo record olimpico. Nelle semifinali si migliora ancora. Nelle finali del 6 agosto vince con un tempo di 24’’4 e un distacco di 0’’7 dalla seconda classificata, l’inglese Audrey Williamson.
Tanto per fare una comparazione, nemmeno Usain Bolt, ha vinto con tanto distacco sui 200 piani.
Il 6 agosto è anche la volta della staffetta 4×100. E della sua seconda crisi. L’olandese è stanca e confida al marito/coach di non voler più competere. Jan la convince a partecipare e Fanny trascina la squadra alla finale del 7 agosto. Piove, quel giorno, come in tanti giorni di quelle Olimpiadi londinesi. Va a comprare un impermeabile, torna giusto in tempo per il suo turno. È lei che fa risalire l’Olanda dal quarto al primo posto, tagliando il traguardo e lasciandosi dietro Australia, Canada e Danimarca.
È la sua quarta medaglia olimpica in una sola edizione. Sono tutte d’oro. I giornali per rimediare all’infelice crociata contro le sue possibili prestazioni e mancati doveri casalinghi paragonano il suo risultato a quello di Jesse Owens alle Olimpiadi di Berlino 1936.
Amsterdam l’attende in pompa magna: il bagno di folla all’aeroporto, la carrozza per il giro d’onore in città, la regina Juliana tesse le sue lodi, Fanny è proclamata Cavaliere dell’ordine di Orange-Nassau. Lascia il palazzo accompagnata da una delegazione di contadini del suo paese natale del nord-est dell’Olanda vestiti in abiti tradizionali, per il giro d’onore con i figli Jantie e Fanneke, che salutano intimiditi gli olandesi assiepati nelle strade. I vicini di casa le regalano una bicicletta, per «prendere la vita più lentamente».
Il suo commento: «Non sapevo che gli olandesi fossero tanto appassionati di corsa».
Tanta esagerazione (e una punta di kitsch) per un risultato al di là della sfera sportiva: un simbolo del tempo. “Troppo vecchia”, “troppo sposata”, “troppo madre” sono considerazioni che vengono polverizzate come i record infranti. Nel grande schema di priorità del tempo, ciò che conta per la “mammina volante” è una cosa sola: essere la migliore.
E tale rimane, un eroe nazionale, fino alla morte, nel 2004. Il figlio Jan in un’intervista al Times del 1982 ha dichiarato: «C’è sempre qualcuno che la saluta per strada. Quando ero ragazzo mi imbarazzava, camminavo sempre cinque passi dietro di lei. Non provo più quella fastidiosa sensazione, ma cammino ancora cinque passi dietro di lei. Perché lei cammina sempre veloce. Mamma ha sempre fretta di arrivare ovunque».
Gli esordi
«Mia madre non è mai stata femminista – ricorderà la figlia in un’intervista all’Associated Press del 2012, facendo riferimento all’icona di emancipazione che le femministe degli anni Sessanta e Settanta vollero vedere in lei – piuttosto era un’agonista». E segue: «Anche allo stop del semaforo doveva essere la prima a partire. Carte, qualsiasi gioco, non importava: lei voleva vincere».
L’esordio in atletica in realtà avviene in sordina: classe 1918, iscritta alle scuole di Hoofddorp, eccelle in tutte le discipline praticate, dalla ginnastica al tennis da tavolo. Quando si avvicinano le Olimpiadi di Berlino ed è il momento di specializzarsi sceglie l’atletica in quanto la competizione sembra meno efferata. Comincia ad allenarsi due volte alla settimana con una società tutta femminile, l’Amsterdam Dames’ Athletic Club, che dista 47km dal suo paese. Percorre il tragitto in bicicletta.
Non ha un buon sprint, ma ha talento, in particolari sugli 800m, che però non sono inseriti nel programma olimpico. Si concentra pertanto in lunghi allenamenti di velocità, salto in alto e ostacoli.
Viene affidata a Jan Blankers, ex triplista olimpico e coach della nazionale. Sotto la sua guida impara a schizzare al colpo della pistola. Non è sufficiente per guadagnare un podio alle Olimpiadi del 1936, dove finisce sesta nel salto in alto (valicando 1,55 quando in allenamento arriva sempre a 1,60) e quinta nella 4×100, ma è tutto un crescendo. E il rapporto tra pupilla e maestro finisce in amore.
Si sposano nel 1940: lei ha 22 anni e lui 34. Hitler sta marciando sull’Olanda alla conquista di Belgio e Francia. Gli allenamenti si spostano al riparo dei boschi della capitale; le provviste cominciano a scarseggiare; in una soffitta del centro una bambina di nome Anna Frank scrive sul suo diario: «Non penso a tutta la miseria, ma alla bellezza che rimane ancora».
La guerra esplode. Gli allenamenti in casa Blankers-Koen continuano con una carrozzina a bordo campo. Le Olimpiadi saltano, ma le competizioni, seppur interrotte dai bombardamenti, non smettono.
Negli anni bui dell’occupazione, i coniugi Blankers-Koen cercano date e luoghi propizi per inseguire i nuovi limiti e stabilire nuovi record del mondo.
Nel 1944 Fanny va a fare delle gare in Frisia, nell’ovest dell’Olanda, dove la guerra si sente meno (e vi è più disponibilità di cibo). Batte il record sui 100 metri e assieme a Jenny Adema, Netty Timmer, Gerda Joudijs batte anche quello della staffetta. La stampa tedesca esulta perché è stato battuto il record dell’Inghilterra.
La squadra decide di partire all’attacco del record dei 4×200, appartenente alle tedesche. La formazione è composta da Lies Sluyters, Netty Timmer, Gerda Koudijs e Fanny Blankers-Koen. Il tempo è 1,41’’. Il record tedesco è stracciato.
La stampa tedesca questa volta tace.
Nell’inverno del 1944-45 Fanny si ammala ed è costretta a letto per interi mesi. Resta nel suo paese natale, dove reperire il latte è più semplice. Quando torna ad Amsterdam, vi torna nella posizione di una qualsiasi madre casalinga dell’ovest olandese.
Ma dopo la guerra, l’atletica è tra le prime discipline a risvegliarsi dalle rovine belliche. Vengono organizzati gli Europei di Oslo del 1946. A febbraio da’ alla luce il suo secondo figlio; ad agosto è in pista. I risultati sono alti, l’organizzazione degli Europei non aiuta a vincere: il salto in alto e la semifinale dei 100m sono alla stessa ora, Fanny non ha la concentrazione adeguata. Nel forcing finale Fanny cade e il medico norvegese impiegherà nel pomeriggio più di due ore per rimuovere la ghiaia dal ginocchio ferito.
Segue un allenamento duro e per la stagione 1947 Fanny recupera il massimo della forma. Vince campionati nei 100 e 200m, 80m ostacoli (sua disciplina preferita), salto in alto e in lungo, lancio del giavellotto e del disco. Per Londra 1948 non è possibile concorrere in più di tre discipline individuali: la strategia messa su pista con il marito/coach la porta a scegliere i quattro eventi che saranno iridati.
Come “antipasto” ai Giochi, all’inizio del 1948 rompe il record nazionale sui 200m, raggiunge il record mondiale sui 100m detenuti dalla statunitense Helen Stephens e instaura un nuovo record di 11’’ negli 80m ostacoli.
A cospetto con il mito
I successi di Londra esaltarono la celebrità di Fanny, invitata a firmare contratti di lavoro e pubblicitari, ma il palmarès dell’olandese non si infoltirà ai Giochi successivi: a Helsinki, nel 1952, la “mammina volante” si arena sia nei 100m che negli 80m ostacoli, debilitata da un’infezione. Sarà la sua ultima gara internazionale ma continuerà a gareggiare in Olanda, dove nel 1955 sigla il suo ultimo oro, nel lancio del peso. È il suo cinquantanovesimo titolo.
«Nel 1936 mi feci firmare un autografo da Jesse Owens. Lo incontrai nel 1972 a Monaco di Baviera e mi presentai. Lui rispose che non era necessaria alcuna presentazione».
Era la donna che aveva eguagliato la sua leggenda. Con la singolarità di avere la pelle bianca, essere dieci anni più vecchia e mamma.
Il giornalista sportivo Kees Kooman fa uscire nel 2003 una biografia che è il frutto di ricerche e interviste ad amici, parenti, conoscenti di Fanny. Il ritratto che ne emerge nel libro “Een Konigin met mannenbenen”, “Una regina con le gambe da uomo”, tende a offuscare l’aurea di leggenda costruita intorno al personaggio vincente della Blankers-Koen. Dopo più di cinquant’anni, si chiede ancora se fu veramente la perfetta atleta, madre e casalinga che emerse da Londra 1948.
Certamente affilò le sue arti per raggiungere i primati ottenuti e non amava essere sorpassata, nemmeno dalle connazionali. Di certo la sua grande rivale, la velocista della Frisia Foekje Dillema, fu espulsa dalle competizioni in seguito a sua denuncia e il suo record dei 200m (che batteva quello della Koen) fu cancellato in quanto la Dillema rifiutò di sottoporsi al test per verificare se effettivamente era una donna.
Fanny Blankers-Koen non fu fermata da alcuna occupazione, alcuna rivale, alcuna imposizione maritale. E continuò la carriera prima come allenatrice poi come dirigente.
A dimostrazione che quelle gambe da regina che Kooman definì “da uomo”, quelle gambe così lunghe e secche e muscolose, che aspettarono tre edizioni olimpiche per tingersi d’oro, furono indubbiamente gambe di donna. Di una donna egocentrica, briosa, affamata, inflessibile, amante, moglie e madre ma soprattutto e oltre ogni cosa: veloce.
Melania Sebastiani
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