Deadly Bet
Sfida sui pattini
«Ho messo i pattini a tre anni e sui pattini ho fatto tutti gli sport possibili».
Elisabetta Carollo, Bet per gli amici, “prof” per gli studenti, Deadly Bet per il mondo dello sport.
Originaria di Vicenza, vive da anni a Milano, dove è avvenuto il passaggio da architetto a insegnante di disegno tecnico, da single a mamma, da pattinatrice a roller girl, vestita dei colori sociali giallo e nero delle “Harpies” di Milano. Tutta una questione di passione mista a graffi, tonfi, abrasioni, escoriazioni.
«In un certo senso sono stata fortunata: non devo fare tanti chilometri per allenarmi. Milano è stata la capostipite del roller derby in Italia. La prima squadra è nata alla base militare statunitense di Napoli. Lì le ragazze l’hanno portata dall’America, trascinandosi dietro tutta l’aurea mitica della disciplina».
Quale aurea?
«Quella che arriva dal Texas: un po’ cow boy, un po’ burlesque. Ancora oggi subiamo il retaggio delle ragazze texane degli inizi del Roller Derby. Quell’immagine da guerriere in calze a rete non rispecchia la disciplina di oggi. Certo vi è tutt’oggi una stravaganza di tatuaggi, calze e capelli colorati, ma siamo innanzitutto atlete. Anche per questo abbiamo scelto una divisa molto sobria».
Non siete “Ragazze del Coyote Ugly” su rotelle.
«C’è tanta filmografia specifica, da quando nacque negli anni Trenta ebbe un grande seguito, diffondevano le partite per radio: vi è un celebre cortometraggio della Paramount datato 1949, Roller Derby Girls, nominato all’Academy (perse l’Oscar contro un altro corto della stessa Paramount dal titolo Aquatic House Party); un film dell’anno seguente The Fireball con Mickey Rooney che racconta la storia di un ragazzo che scappa dall’orfanotrofio e diventa una star del Roller Derby (c’è anche una comparsa di Marilyn Monroe!); nel 1975 Rollerball di Norman Jewison di cui è uscito un remake negli anni Duemila e soprattutto Whip It, di e con Drew Barrymore».
Quante siete a Milano?
«Cinque anni fa eravamo pochissime. Durante i primi allenamenti a volte solo quattro o cinque. Con un numero così ridotto non si può nemmeno simulare il gioco: cercavamo di migliorare la pattinata, tentavamo di capire strategie, ma non avevamo possibilità di allenarci per un Roller Derby».
Da quanti atleti è composta una squadra?
«Bisogna essere schierati in quindici. In questo intendevo il pionerismo di Milano: non è la prima squadra assoluta ma la prima che è riuscita a formare. E che si è adoperata per farsi conoscere e far crescere la disciplina. Dai primi allenamenti di quattro persone abbiamo avuto un sacco di ragazze! A Bolzano c’è squadra da molto tempo ma hanno raggiunto il numero da poco, così come in molte altre città italiane: Torino, Bologna, Monza, Padova, Bergamo,.. E sono particolarmente fiera di aver contribuito alla nascita della squadra di Vicenza, The Anguanas, colori sociali viola e nero!».
A questo punto non si distingue se Elisabetta sia atleta o supertifosa. È entrambe, fer de lance di due squadre che dovrebbero essere rivali ma emanano sorellanza, quel concetto di unione, solidarietà e potere tanto forte da suscitare quasi timore, una forza che dopo le grandi battaglie che avevano unito le donne negli anni Settanta, sembrava scomparsa dalla terra. Si dice che oggi le donne non sappiano fare squadra, soffocate dalle invidie, stressate dalla competizione, permeate da una certa Shadenfreude, il piacere provato dalla sfortuna altrui. E invece ci sono otto rotelle a tracciare legami sportivi ed extrasportivi su una pista ovale.
Come si diventa una roller girl?
«Siamo tutte ragazze che durante il giorno abbiamo il nostro lavoro, il nostro ordinario quotidiano, le nostre famiglie. Ci sono ragazze dai 18 a, credo, 45/46 anni. Alcune non avevano mai indossato i pattini prima di conoscere il Roller Derby. Io vengo invece da decenni di pattinaggio artistico, ero quindi già a mio agio sui pattini. Le ragazze che cominciano si chiamano fresh meat, “carne fresca”. Una volta acquisita la pattinata sicura, bisogna affrontare un esame, che prende il nome di minimum skills, che fissa gli obiettivi minimi per pattinare in sicurezza con le altre atlete. È promosso dalla WFTDA, la federazione internazionale di Roller Derby. Una volta superato il test di abilità si può scegliere il nome e il numero che accompagneranno tutta la carriera in pista».
Qual è il tuo?
«Io sono Deadly Bet, la “scommessa mortale”, un gioco di parole sul mio nome. La maggior parte dei nomi sono giochi di parole: la nazionale è allenata da Goofy e annovera tra gli elementi Baby Razor, No Brain No Pain, Betty Burp, Martattack, Maki Maniac… il manager è Donut Panic. Il mio numero invece, che è la cosa più importante, quella che sentiamo rimbombare nelle orecchie durante il gioco e a volte anche fuori, è 718. Seven one eight! Seven one eight! Seven one eight!».
Elisabetta si anima, come richiamata da un campanello che l’aveva tenuta in trance fino a quel momento. La sua voce si libra, e schiude le ali l’“Arpia”. Quella che vola in senso circolare su otto ruote. La Deadly Bet delle Harpies Milano. Seven one eight! è una formula, un incantesimo che fa materializzare la pista, la squadra, all’inseguimento dei punti da segnare. E ti senti un po’ stordita da questo grido, come ad aver ricevuto una bella spinta mentre, ignara, l’“arpia” ha portato a girare in circolo anche te.
Dev’essere l’energia del Roller Derby. Riesco a chiedere come mai il numero 718.
«È il cap di un quartiere di New York dove ho vissuto: si chiama Astoria. Ed è proprio nel mio periodo newyorchese che per fama ho conosciuto il Roller Derby. Lì però non gareggiavo: il livello è altissimo. Come tutti sono partita da Whip It, che è un film perfetto per una domenica pomeriggio di pioggia. Presenta il Roller Derby in modo più violento e punk di quel che è oggi, è retaggio di quel che era all’inizio quando non si usava il flat track ma si usava la parabolica. Oggi regolamento è chiaro e netto».
Facciamo un po’ d’ordine tra questi anglicismi tecnici. Come si svolge un incontro?
«Dunque: pattini a rotelle classici, due squadre, una pista circolare. Le partite si chiamano bout, durano un’ora e sono divise in più riprese dette jam. Due i ruoli in campo: un jammer, identificato dalla stella sul caschetto, e quattro blockers, di cui uno è il pivot che li coordina, identificato dalla linea sul copricashetto. Al segnale blockers entrano i pista e iniziano a girare. Poi arrivano i jammers: questi devono raggiungere il gruppo, e superarlo. Da questo momento si calcola il punteggio: i jammer devono completare il giro per raggiungere di nuovo da dietro il blocco delle avversarie ma i blockers li ostacolano in ogni modo ammesso. Chi fa più punti vince».
È il winner…
«Ah ah, in effetti la lingua inglese è la lingua di gioco. Come Harpies giocavamo soprattutto in Europa, non vi erano proprio avversarie in Italia! La terminologia è quindi rimasta internazionale. Un Roller Derby necessita di un grosso staff, e di arbitri! Che chiamiamo “referee”, o “ref”. Bisogna sintonizzarsi sulla loro voce e restarvi concentrati, perché sono gli arbitri a chiamare in partita il mio “seven one eight!”… I ref anche in Italia sono per la maggior parte stranieri; ora molti italiani stanno certificandosi quindi diventeremo più independenti».
L’immagine è quella di una modernissima giostra medievale dove in palio, anziché una dama, è una birretta. Un caleidoscopio colorato che muta a seconda dei movimenti della stella della jammer. Un’arena di festa per chi gioca e per chi assiste.
Qual è il ruolo di Deadly Bet?
«Mi piacciono entrambi i ruoli da blocker o pivot perché la loro funzione è capire le strategie e pensare al punto debole, a come aiutare la tua jammer, al punto debole della jammer avversaria. Vedo il gioco da blocker come un gioco da strategia: sì i pattini vanno, i piedi fanno la loro, ma la parte bella è che devi esserci di testa. Negli ultimi anni il ruolo assegnatomi è quello di jammer: mi piace perché ha bisogno delle blocker per segnare. In quel momento sei la pedina che deve girare; non puoi funzionare senza le altre quattro compagne di gioco che sono con te. Capisci molto il lavoro di squadra».
Siete affiatate tra di voi?
«Molto, anche con le avversarie. Essendo un mondo non troppo grande ci ospitiamo nelle varie città e organizziamo boot camp, eventi in comune e allenamenti insieme. Se in campo ci si scontra, – e quanto! – come nel rugby, al fischio di fine partita siamo tutti una grande famiglia. Ciò è contrario al mondo del pattinaggio artistico, dove per mia esperienza non vi è mai stata reale amicizia o complicità».
Invece il Roller Derby ha un terzo tempo?
«Certo! C’è sempre un after bout di fine partita con birre e musica! E poi le competizioni non sono sponsorizzate né finanziate, quindi le giocatrici ospitano le giocatrici e spesso ci si ritrova a dormire a casa di persone conosciute in partita,…».
Esiste anche una nazionale?
«Sì è nata due anni e mezzo fa. Eravamo tutti in attesa del primo schieramento, non sapevo di essere incinta e quando l’ho scoperto mi sono mangiata i gomiti… L’anno scorso con i try out c’è stata moltissima partecipazione, le atlete italiane sono triplicate in pochissimo tempo. Pensavo che la selezione sarebbe stata difficile e che non sarebbe stato semplice entrarne automaticamente a farne parte. Una parte della squadra si sarebbe mantenuta, c’erano pochi posti. Invece è arrivata la mail di convocazione! Il mio primo pensiero è stato SUPER! Ma quando ho chiamato Lindthor, la mia compagna di squadra, e ho saputo che anche lei era stata convocata, è stata un’esplosione bomba!».
Tra la nascita della nazionale e la convocazione hai partorito?
«Sì! Il 17 giugno è nato Adriano. Ai primi di luglio sono partita in vacanza al mare con i pattini in borsa. Mettevo il bambino in carrozzina e lo spingevo sui pattini. Sono drogata di rotelle, lo so! D’altronde ci sono nata: mamma mi ripeteva sempre: “mi sento più tranquilla quando sei sui pattini piuttosto che quando vai a piedi!”. Ancora in maternità, ho ripreso gli allenamenti a settembre, tra Vicenza e Milano, nonostante i medici lo sconsigliassero: dicevano che avrei perso il latte».
Sì una pazza…
«Sì! Mi mancava troppo! Nove lunghi mesi senza rotelle! Ci sono persone a cui manca la birretta, altre a cui mancano le sigarette o il prosciutto.. a me mancavano i pattini! E siamo tante mamme ad amare gli schettini! Questa domenica 9 ottobre a Vicenza si disputerà il Derby Roller Mum, solo mamme!».
Hai già indossato la maglia della nazionale?
«Quest’anno! L’anno scorso le ragazze hanno partecipato ai Mondiali a Dallas, io non c’ero perché aspettavo il bambino. Mi sono rifatta quest’anno agli Europei in Belgio. Ci siamo classificate settime su una decina di squadre. Abbiamo affrontato subito il Galles che è una squadra molto grossa; la prima partita è stata molto sofferta, molto subita, di un altro livello. Ma ciò ha fatto presa, ci abbiamo messo tutto. Quattro partite intense in due giorni per un ottimo risultato, tenendo conto che era la prima volta della nazionale agli Europei».
Chi ha vinto gli Europei?
«Sono arrivate prime le francesi, poi le belghe, le spagnole… la cosa più bella è che guardando quei livelli capisci come può diventare uno sport olimpico. Non ha nulla da invidiare a pallavolo, basket o agli sport femminili più conosciuti. Occorrono muscoli, fiato, capacità…».
E a quanto pare un certo orgoglio di lividi.
«Ah ah ah… C’è poco da fare: abbiamo tante protezioni, ma si cade e si prendono colpi. È uno sport di contatto: attenzione, non di violenza, ma di contatto. Qualcosa di misto tra hockey su ghiaccio, football, rugby e ciclismo in linea. Noi chiamiamo i lividi “derby kisses”, i baci del derby. E le più baciate sono le jammer. Ma è tutto previsto: non succederà mai che un’atleta faccia uno sgambetto, che faccia cadere l’avversaria di proposito, che le spacchi la caviglia come lasciano intendere i film di Hollywood… ci sono zone legali e non legali da colpire, quindi sai già dove ti colpiranno. Nel momento in cui disputi le minimum skills la prima cosa che impari è frenare e cadere. Io dalla mia decennale esperienza nel pattinaggio artistico assicuro che i lividi ci sono per forza, anche lì: per un doppio salto fatto a 12 anni porto ancora il segno sulla chiappa! Per me è un tatuaggio, una cicatrice di cui andare orgogliosa. Il segno tangibile della mia passione sulla pelle».
Quali sono in Italia le manifestazioni più importanti?
«I tornei grossi sono due: lo SKIR di Bolzano, Skate im Ring, e il DDT di Milano, il Daga Denter Tournament che si svolgerà il prossimo 15/16 ottobre. Per la prima volta al DDT concorrerà la squadra di Torino che è arrivata seconda allo SKIR a giugno, dietro noi Harpies, aggiudicandosi la partecipazione».
Com’è cambiata la tua borsa da gara da quando è nato Adriano?
«Prima avevo sempre il telefonino appresso, pronta a intervenire. Pattinavo con il cellulare in mezzo alla pista, settato sul massimo volume. Durante una partita, proprio al DDT dell’anno scorso, avevo messo il telefono in panchina dentro la mia scarpa da ginnastica pensando che nessuno lo avrebbe calpestato. Il nostro coach Sergent Pepperoni, dopo un bout andato male, si è sfogato tirando un calcio alla panchina, facendo volare la scarpa mandando il cellulare in mille pezzi. E io non avevo più nemmeno il numero della baby sitter per verificare che tutto procedesse regolarmente a casa! Non è stato semplice tornare a focalizzarsi sul match… Se lui è agli allenamenti con me, oltre a caschetto, ginocchiere, gomitiere e paradenti ci sono libri e giochi per lui».
Hai sentito che il presidente del CONI Giovanni Malagò in visita al Pala Igor di Novara per la 61a Edizione dei Mondiali di Pattinaggio Artistico, ha lanciato la proposta del pattinaggio alle prossime Olimpiadi?
«Whoa, sarebbe bellissimo, io aspetto!».
Melania Sebastiani
© Riproduzione Riservata
(Intervista raccolta nel mese di ottobre 2016)
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