Klaus Dibiasi si racconta

Klaus Dibiasi

Klaus Dibiasi

 

Tuffi nell’oro

Non tutti gli angeli hanno le ali. E non tutti trascorrono il loro tempo a suonare l’arpa sopra una nuvola. Se ne incontrano anche altrove, di angeli, in luoghi certo meno eterei, ma altrettanto interessanti. Nelle piscine, per esempio.

I loro voli sono voli brevi, traiettorie pitturate nell’aria che per qualche attimo sanno togliere il respiro e catturare l’anima. Voli che non lasciano neppure tempo di pensare, e si possono solo contemplare, per carpire un po’ della loro armonia e della loro eleganza prima che concludano la loro breve parabola nella madre di tutti gli elementi. L’acqua.

Ecco, uno di questi angeli lo si poteva incontrare nelle piscine di tutto il mondo, qualche anno fa. Un giovanottone dal fisico scolpito da anni di allenamenti severi e metodici, dall’aria mite e gentile e dai capelli chiari e ricci. L’Angelo Biondo, appunto. Klaus Dibiasi.

Incontrare Klaus oggi, significa confrontarsi con un frammento di storia. Storia sportiva, è ovvio, ma pur sempre storia con la S maiuscola, perché tra le attività umane lo sport, se non è certo la più importante, è sicuramente una delle più nobili. E con la storia del nostro paese, l’avventura sportiva dell’Angelo si intreccia strettamente, a partire da un periodo in cui l’Italia cominciava appena a guardare al resto del mondo con l’orgoglio di chi sta riconquistando con fatica il posto che le compete, dopo una lunga, travagliata rincorsa.

Praticare tuffi in Italia, negli anni Sessanta, non era davvero facile. Piscine e strutture idonee ce n’erano pochissime, e la diffusione della disciplina non si avvicinava neppure lontanamente a quella odierna: «Sì, chiaramente la richiesta tecnica di allora non era paragonabile con quella di oggi. Non esisteva la macchina delle bolle [la bubble machine è un meccanismo alloggiato sul fondo della piscina che forma un materasso d’aria per attutire un ingresso sbagliato in allenamento, ndr] e le longe [coppia di corde agganciate ad una cintura indossata dal tuffatore, mediante le quali l’istruttore può aiutare e rallentare le traiettorie, grazie ad un sistema di carrucole, ndr] sopra tappeto e acqua non venivano utilizzate perché si faceva tutto in acqua. L’unico attrezzo forse allora indispensabile era il tappeto elastico che permetteva, in mancanza della piscina coperta, di superare l’inverno, puntando sul perfezionamento della tecnica e della condizione fisica. Lo sport dei tuffi non era popolare come oggi, non c’erano soldi in palio e gli obiettivi erano puramente motivati dalla gloria sportiva…».

Anni di cambiamento, quelli. Archiviata la Grande Olimpiade, quei commoventi ed indimenticabili Giochi di Roma in cui per l’ultima volta la dimensione umana aveva avuto il sopravvento sulla tecnologia che avanzava rapida, Klaus si trovò a fare il suo esordio olimpico nell’edizione del gigantismo e dell’organizzazione.

Tōkyō, la metropoli dove il futuro conviveva (convive) con l’intrigante fascino e la tradizione millenaria dell’estremo Oriente. La città del Yoyogi National Gymnasium, l’incredibilmente avveniristico impianto polisportivo, in cui nulla era lasciato al caso. Il sogno visionario in acciaio, alluminio, vetro e béton brut dell’architetto Kenzō Tange, dove persino le bandiere sui pennoni sventolavano mosse da potenti ventilatori. In questo luogo magico, il 16 ottobre 1964, dopo il positivo debutto nel trampolino, quattro giorni prima, concluso con un onorevole tredicesimo posto, il diciassettenne Klaus affrontò la sua gara, la piattaforma.

lo Yoyogi National Gymnasium

lo Yoyogi National Gymnasium

 

«Per me Tōkyō è stato l’inizio di una lunga carriera.  A diciassette anni era tutto nuovo e questa Olimpiade aveva anche il fascino della super-gara in un super-impianto, insieme a tante altre specialità sportive e gente di diversi colori e usanze. In quest’ambiente ero sempre accompagnato da mio padre allenatore, che all’epoca per avere un posto nella squadra era stato iscritto come atleta dalla piattaforma. Certo avrebbe avuto molto piacere di partecipare, ma il suo incarico era quello di badare a me che ero alle prime armi e avevo bisogno di sentirmi a casa mia. Tra un terremotino e l’altro, un giro in bicicletta e una visitina a Kyōto con la squadra, c’era il duro lavoro in piscina, che alla fine mi ripagò con la medaglia d’argento dalla piattaforma a 1,04 punti da Bob Webster, campione uscente. Si trattava del primo successo olimpico e per tutti noi era un avvenimento grandioso: a Bolzano tutta la città era in piedi ad applaudire al mio ritorno».

Già, era solo l’inizio. Quattro anni dopo, Dibiasi, ormai un campione sicuro dei propri mezzi, ritrovò l’Olimpiade in un’edizione memorabile e terribile. I Giochi dei record, di Bob Beamon e del Black Power, di Dick Fosbury e di George Foreman. E i Giochi del ripugnante massacro della Plaza de las Tres Culturas, dove un numero mai stabilito di pacifici manifestanti venne massacrato da un potere ottuso e violento. In giorni sconvolti da emozioni contrastanti, Klaus ebbe l’immensa gioia di salire sul gradino più alto del podio, dopo averlo sfiorato nuovamente poco prima con un argento dal trampolino. Una gara avvincente, in un clima reso torrido dal tifo infernale per l’idolo di casa, Álvaro Gaxiola.

«In realtà, i fattacci politici accaduti prima dell’inizio dell’Olimpiade avevano avuto risonanza maggiore all’estero, in tutto il mondo. Furono invece minimizzati in Messico, tanto che non ce ne siamo quasi accorti… E dire che eravamo entrati in Messico quasi un mese prima dell’inizio delle gare! L’obiettivo nel 1968 era ovviamente conquistare l’oro, in un paese latino che in quanto a tifo non era inferiore al tifo calcistico italiano, ma che devo riconoscere anche molto sportivo, con applausi anche a mio favore. Il tifo più che ai miei danni in realtà è stato nei confronti dell’americano Win Joung che poi è giunto terzo, ma che forse meritava l’argento. Comunque anche Gaxiola ha saltato bene, meritandosi gli applausi del suo pubblico, e la cosa verso la fine della gara ha anzi cominciato a preoccuparmi, avendo io sbagliato proprio l’ultimo tuffo. Poi comunque il vantaggio accumulato ha finito per darmi ragione».

Certo erano tempi molto duri, per il movimento olimpico. Dopo quattro anni di trionfi, l’Angelo si presentò da favorito ai Giochi di Monaco 1972, dove era atteso ad una riconferma. Che arrivò puntuale, con un podio colorato di azzurro grazie al secondo posto del grande Giorgio Cagnotto, proprio poco prima della terribile notte di Settembre Nero e della strage al Villaggio Olimpico.

Klaus Dibiasi e Gustav Thöni nel 1972

Klaus Dibiasi e Gustav Thöni nel 1972

 

«A Monaco la difficoltà era di ripetere un risultato quattro anni dopo il Messico, che per la stampa era già scontato, ma che in realtà presentava alcune incognite. Nello sport dei tuffi non si può mai sapere quello che succede, è tutto legato a una sensibilità particolare: basta un niente e tutto va in fumo, come si è visto in tante occasioni. Comunque poi si svolse tutto in maniera regolare. Io avevo avuto dei problemi nella partenza del mio miglior tuffo, l’uno e mezzo con triplo avvitamento, ma in gara  la cosa si era risolta. È stato il podio più glorioso della storia italiana dei tuffi, con due italiani sui gradini olimpici. Tutti i fattacci del terrorismo palestinese sono avvenuti a gare ultimate, e non ci hanno fortunatamente procurato danni. Eravamo già sulla via del ritorno per Bolzano quando dalla radio, increduli, abbiamo appreso quello che era accaduto la notte stessa nella quale noi eravamo partiti. Il dopo fu tragico per tutti e anche i nostri festeggiamenti furono nell’ombra del terribile avvenimento».

Il terzo oro di un Triplete irripetibile, Klaus lo ottenne a Montréal, nel luglio 1976, contro avversari insidiosi come l’età e gli acciacchi di una vita in piscina. Il trionfo forse più bello, perché conquistato con una volontà indomabile e un carattere da vero guerriero. Ottenuto per altro battendo un giovane emergente, un certo Greg Louganis.

«Ormai da acclamato campione, ripetere per la terza volta un oro olimpico diventava un’impresa ardua. Nel frattempo il mondo non era certo stato a guardare e le varie nazioni leader aspettavano solo il momento di sconfiggere la nostra egemonia. Questo lo sapevamo, e lo notavamo proprio con i nuovi talenti che si presentavano all’orizzonte. Il sovietico Sergey  Nyemtsanov, piattaformista di primo rango con delle entrate alla Dibiasi, e poi Greg Louganis, alla sua prima Olimpiade e che già allora lasciava a intravvedere la sua marcia in più, ci facevano capire che era iniziata una nuova era. Louganis fece un errore, chiamiamolo di inesperienza, nel triplo e mezzo avanti, che gli costò praticamente la medaglia d’oro, che invece il “vecchio Dibiasi conquistò con la massima concentrazione nella miglior gara della sua vita, effettuata senza errori nonostante i problemi di un fisico ormai un po’ logoro».

Dibiasi a Montréal 1976

Dibiasi a Montréal 1976

 

Un fuoriclasse del  suo rango non poteva che ritirarsi da vincitore, e saggiamente Klaus mise la parola fine ad una carriera già entrata nella leggenda. Ma l’Angelo non poteva certo abbandonare il suo mondo. Eccolo nei panni del tecnico, ad accompagnare nell’Olimpiade seguente, quella di Mosca, il suo grande amico-rivale, Giorgio Cagnotto, all’ennesimo podio: «Esaurita la mia vena agonistica, l’allora Presidente della FIN Aldo Parodi mi promosse allenatore federale, considerando anche i miei studi all’ISEF in educazione fisica. Gli anni a venire furono incoraggianti, ma ci volle diverso tempo per far capire alla gente che i nostri risultati erano stati straordinari e che, tornando alla realtà, trovare tuffatori in grado di dare continuità alle nostre imprese era molto improbabile, dal momento che fino allora non era stato fatto molto per creare una squadra alle nostre spalle. Il mio impegno è stato proprio quello di lavorare con una squadra e non solo con i due tuffatori migliori. E il successo in quegli anni fu proprio una costante presenza in campo internazionale ad alto livello con diversi tuffatori, sia maschi che femmine. Giorgio Cagnotto riuscì a partecipare ancora alla sua quinta Olimpiade, vincendo un bronzo dal trampolino, che poteva essere argento se il giudice svedese non avesse accolto la richiesta del sovietico Aleksandr Stalievič Portnov di ripetere un tuffo clamorosamente sbagliato. 

Con la liberalizzazione della tabella dei tuffi, sostituita con una formula che permette di eseguire praticamente anche tuffi non elencati, calcolandone il nuovo coefficiente di difficoltà, e con l’avvento dei cinesi che hanno saputo con la loro preparazione sfruttare in pieno questa possibilità, i tuffi hanno fatto in questi ultimi quarant’anni un salto tecnico in avanti che solo alcune nazioni hanno saputo seguire. I tuffi ad alto livello non sono più per tutti. A livello di medaglia olimpica stanno diventando veramente solo per le poche nazioni che hanno investito in impianti tecnici, e che possono schierare uno staff adeguato per ottimizzare un lavoro ormai diventato molto scientifico. Rimane comunque alla base la selezione del talento che è indispensabile per giungere ai vertici attuali».

Klaus Dibiasi oggi

Klaus Dibiasi oggi

 

Oggi Klaus dirige una prestigiosa scuola di tuffi, intitolata al padre Carlo, e prova a scoprire tra i giovani dei talenti in grado di ripetere le sue imprese, in uno sport che pure vanta già stelle di prima grandezza come Tania Cagnotto, la sua compagna di sincro Francesca Dallapé e Noemi Batki.

«Attualmente sono il Coordinatore responsabile tecnico del Settore Tuffi della FIN e Presidente della A.S.D. Carlo Dibiasi, che si è nell’arco di un ventennio conquistato il primo posto nella classifica nazionale. Il mio obiettivo a livello Federale è quello di allargare la base dei tuffi in Italia, aiutando le varie società a crescere attraverso una struttura che propone una migliorata organizzazione a livello giovanile e un coinvolgimento tecnico anche delle società minori. Il CT Giorgio Cagnotto insieme al Tecnico Federale Domenico Rinaldi sono preposti alla parte agonistica di primo livello, mentre il responsabile delle nazionali giovanili Oscar Bertone è incaricato a portare nuovo entusiasmo e motivazione alla Giovanile, cioè ai campioni di domani.

Francesca Dallapé e Tania Cagnotto

Francesca Dallapé e Tania Cagnotto

 

Attualmente fra i giovani talenti spicca Andrea Chiarabini, formato da Italo Salice e allenato dal tecnico delle Fiamme Oro Luca Valenti, che proprio poco tempo fa è stato il primo italiano ad eseguire il quadruplo e mezzo in avanti dalla piattaforma dei dieci metri. Uno dei tuffi di alta difficoltà, diventato oggigiorno indispensabile per chi vuole essere competitivo a livello internazionale. Comunque altri validi talenti sono in costruzione nei nostri cantieri, in preparazione per Rio 2016. Parlo di Tommaso Rinaldi, di Andreas Billi, di Giovanni Tocci, e fra le ragazze, di Elena Bertocchi e di Laura Bilotta. Ai vertici ovviamente, c’è ancora la nazionale attuale con Tania Cagnotto, Francesca Dallapé, Noemi Batki, Maria Marconi, e con Michele Benedetti, Francesco Dell’Uomo, Tommaso Marconi.

«Sicuramente» conclude Klaus «la grande occasione è stata Londra 2012, dove avevamo per la prima volta ben tre medaglie olimpiche a portata di mano con Tania, Francesca e Noemi… Purtroppo per pochissimo l’impresa non è riuscita, e credo che sarà difficile ritrovarci in una situazione simile a Rio nel 2016. Comunque gli obiettivi ci sono e penso che si debba investire nell’impresa».

Danilo Francescano
© Riproduzione Riservata

 

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